lunedì 24 giugno 2013

i viaggi senza responsabilità di vito boggeri

Ciò a cui ha lavorato ultimamente Vito Boggeri ha come filo conduttore il viaggio. In realtà, è difficile pensare alla totalità della sua opera senza tenere in considerazione questo tema. Infatti, tutto ciò che egli crea è parte di un viaggio personale che si riempie di annotazioni, di riflessioni, di indicazioni. Boggeri è un attento osservatore, e i suoi lavori sono pagine di un taccuino che egli porta sempre con sé, nella sua mente.
Per Boggeri non si può pensare a un atteggiamento simile a quello degli artisti che nei secoli precedenti compivano un Grand Tour, egli non annota, ricorda e elabora. Nei suoi lavori non è possibile individuare un luogo preciso che sia da sfondo a una situazione narrata, anzi, le sue opere il più delle volte sono paesaggisticamente scarne: il profilo di una periferia, un’area industriale evocata dalla silhouette di una ciminiera. Probabilmente sono i luoghi che egli ha somatizzato nei suoi movimenti tra Piemonte e Liguria, tra Italia e Europa, tra Europa e Mondo. I personaggi che vivono in quelle realtà sono pure loro ridotti all’essenziale, più evocazioni piuttosto che autentiche realtà viventi.


Per questo è giusto dire che ciò che Boggeri è un narratore di viaggi, un illustratore. C’è qualcosa di omerico nel suo atteggiamento, qualcosa da interpretare come se egli si accingesse continuamente a trattare un mito. I suoi cartoni, grezzi, poveri, per qualcuno provocatori, sono delle metope che compongono un fregio fatto di parti che possono vivere autonomamente, oppure possono essere unite come capitoli di un racconto. In più, quasi a sottolineare una volontà misteriosa di far comprendere il senso stesso dell’incedere del suo operare, egli offre all’osservatore dei titoli enigmatici, degli autentici oracoli che giocano sugli aspetti retorici della lingua, sullo slittamento del significante, enigmi ironici che talvolta non sono immediatamente comprensibili. Questo, ovviamente, fa parte del gioco, un gioco che non si limita a offrire una situazione pittorica, ma la incanala nella giusta direzione.
La sua è un opera di transizione, nel senso che si muove di punto in punto, ed è per questo che deve essere considerata nomade e quindi automaticamente legata al viaggio. Sinestesie di ogni tipo (sonore, olfattive, tattili) costellano le narrazioni di Boggeri, introducendo l’osservatore nell’atmosfera propria dell’opera di questo artista, fatta di essenzialità, di odori urbani, di suoni e di voci lanciate dai suoi personaggi. Accanto a queste situazioni assimilabili a un mondo reale, ecco che si affiancano ampi gli spazi dell’immaginazione, spazi che non appartengono più al pittore, ma a ciascuno di noi. In questa fase diventiamo protagonisti di un’azione drammatica nascosta, inevitabile per ogni allestimento.



Questa preferenza per uno stile semplice che nasconde evocazioni che vanno dall’antichità alla più attuale modernità non arriva mai a pregiudicare l’idea di un necessario e inevitabile sincretismo culturale. A ben guardare ognuno dei suoi quadri è pieno di queste citazioni, citazioni che da una parte producono quiete e dall’altra tensione e coinvolgono anche il più piccolo dettaglio pittorico. Per Boggeri è importante l’appropriazione totale dello spazio, un luogo dove si incontrano forme di energia pura, sostegno di ogni possibilità di comunicazione tra individui. Il suo intervento rimane totalizzante, con valenze marcatamente simboliche. Come sosteneva il critico Emilio Tadini, il simbolo può consentire di arrivare a ciò che ancora non si conosce. Questa affermazione può essere allargata anche al lavoro di Boggeri poiché intorno a questo tema egli ha costruito un reticolo di riferimenti ideali che appaiono come gli snodi di un percorso in continuo divenire.

lunedì 17 giugno 2013

i fonemi di carlo pace

È stata sicuramente una delle fasi più interessanti della sperimentazione di Carlo Pace. I Fonemi si collocano all’interno della sua esperienza segnico/informale,  in un periodo tardo, verso gli anni Novanta, quando l’artista sentì l’esigenza di concentrarsi sull’essenzialità di un segno che fosse in grado di ridefinire il rapporto tra la materia e lo spazio che la conteneva.

Per comprendere la particolarità di questa produzione è opportuno fare un piccolo confronto con le Spine dorsali, unanimemente considerate emblematiche nella carriera di Pace. Queste pitture, fortemente materiche, dal punto di vista formale, sono più poderose, sono frammenti archeologici che emergono dalle sabbie del tempo. Esse sono affioramenti di dolore che sottolineano al fragilità dell’esistente, autentici “ossi di seppia” che comunicano poeticamente la povertà della vita. I Fonemi sono più leggeri, sono suoni ripetuti che riecheggiano nel vuoto e nella solitudine. Se si osserva attentamente la struttura di questi lavori, si comprenderà che essi appaiono bloccati in compatti sfondi monocromi e si manifestano con la rapidità di una luce che si accende e si spegne. La loro breve visibilità è colta da Carlo Pace nello spezzettarsi della linea che li contraddistingue e, forse anche per questo, si percepisce che non si tratta dell’evocazione di suoni pieni, dotati di un’intrinseca armonia, ma della rappresentazione di stridori, di note altissime, ben al di sopra delle più usuali tonalità.

Che ci fosse un palese richiamo al suono è rilevabile fin dal termine “fonemi”, il termine che identifica questi segni. Curiosamente, negli stessi anni, alcuni musicisti come i finnici Pansonic o alcuni autori dell'area viennese, cercavano di dare al suono una valenza segnica, cercando di concretizzarli su oscilloscopi e schermi dei computer. L’intuizione di Pace sta nel fatto che forse, per la prima e unica volta, un artista non abbia avuto la necessità di ricorrere a dei simboli tradizionali per raccontare la musica, cogliendo in questo modo la possibilità di unire invece in modo assai particolare la musica alla pittura, quasi descrivendo proprio gli spartiti di quella stessa musica elettronica che, adoperando un altro linguaggio, si palesava in una diversa sperimentazione.

lunedì 10 giugno 2013

franco bruzzone - luigi paoletti/segno verso segno

Già il titolo della mostra (segno verso segno) propone una piccola riflessione. Tutto è da mettere in relazione al significato da attribuire alla preposizione verso. Credo che sia più plausibile pensarla come l'indicazione di una direzione, intendo così individuare un rapporto di analogia e di amicizia tra i due autori. Oppure, nell'ipotesi più intrigante, la stessa preposizione potrebbe assumere un significato quasi opposto, esprimendo nei due modi di operare una differenza segnica che identifica due contendenti, percepiti quasi in lotta tra loro, come se si volesse fare emergere vincente la maniera di lavorare di Bruzzone o di Paoletti. In ogni caso, ciò che viene proposto in in questa interessante rassegna è una sorta di confronto tra due autori liguri che hanno in comune l’attenzione al segno e al colore: Franco Bruzzone e Luigi Paoletti.

La ricerca di Franco Bruzzone si concretizza, in queste ultime opere, nel definitivo consolidamento del segno. Le strutture su cui egli opera sono apparentemente semplici. Di fatto, si percepisce un elemento ripetuto su uno sfondo monocromatico. Ma è l’aspetto sincronico che ci convince dell’unicità del componimento. Bruzzone riflette sul rapporto ritmico fra i segni: essi si susseguono come gruppi di note musicali che determinano contenute melodie. È un variare minimo, regolato dal sottile frammentarsi di pause. Seguendo antiche lezioni, i suoni si associano a un colore che quasi ne potenzia l’impatto emotivo. Il segno, avvolto in questa maniera all’interno di un ineffabile elemento diafano (viola o giallo, regolati da un infinito numero di sfumature) si decomprime accostandosi sinesteticamente a qualcosa che appartiene a una sfera sensoriale diversa. In questa maniera Bruzzone costruisce dei piccoli moduli che richiamano un alfabeto astratto nel quale la visione dello spazio si libera ordinatamente su coordinate orizzontali e verticali.

Osservando i lavori di Luigi Paoletti si ha la percezione di un rapporto totalizzante tra supporto e segno. Di fatto Paoletti sembra esprime un linguaggio estremamente vitale, organico, nell’accezione biologica del termine. I suoi spazi sono impostati sull’intrecciarsi di traiettorie segnico/cromatiche solo apparentemente casuali. L’equilibrio si fonda sull’attenzione per una gestualità che lascia intuire un rapporto con l’improvvisazione jazz. In questo modo, come avviene per alcuni musicisti, Paoletti costruisce un impianto in cui i colori e i segni compongono immagini che hanno un loro potere, che si legano a allo spazio generando parte di quell’energia che percepiamo come componente essenziale della nostra esistenza. I segni cromatici di Paoletti si dilatano quasi illuminandosi, offrendo una raffinata tessitura che è l’esito di una ricerca attenta a percepire il condizionamento sulla materia delle vibrazioni delle luce.

lunedì 3 giugno 2013

lorenzo piemonti e la cromoplastica

Quello di Lorenzo Piemonti è un lavoro che spicca per la consapevolezza delle infinite possibilità offerte dai linguaggi non propriamente pittorici. Come alcuni rappresentanti del cosiddetto Astrattismo lombardo (Regghiani, Rho, Veronesi) egli elabora un raffinato discorso che ha le sue radici nell’arte di Kandinskij, ma dal quale media esclusivamente qualche componente, soprattutto cromatica. Sarebbe però sbagliato pensare a Piemonti quale rappresentante di quel movimento, direi che il suo lavoro è regolato da ritmi che sembrano appartenere a un geometrismo costruttivo nel quale prevalgono forme dinamiche che increspano e mettono in discussione l’immobilità cosmica.
L’effetto è quello di un’alterazione di una struttura regolare che si trova a fare i conti con il passaggio di un elemento opposto che costruisce una nuova forma di spazio. Il superamento della bidimensionalità è assolutamente evidente poiché l’interazione di una o più linee con la superficie regolarmente immutabile della base crea un’immagine nuova, una prospettiva condizionata da forze che agiscono intersecandosi e spaccandosi in altri moduli regolari.
Nell’opera di Piemonti – almeno nel corpus successivo all’adesione al MADI’, movimento di astrazione geometrica affermatosi in Argentina a partire dagli anni ’50, come reazione allo scontato realismo della pittura ufficiale – l’espressione e il significato sono elementi marginali. L’approccio deve essere totalmente sensitivo. L’idea che deve prendere corpo è quella di individuare la componente fisica che sembra esprimere i principi di equilibrio e compostezza. L’apparizione delle forme offerte da Piemonti richiama elementi zen, opportunità meditative che si impongono offrendosi agli occhi di chi osserva per i colori, in modo simile al principio mediato dalle strategie adottate dalla natura per attirare, per esempio, gli insetti al fiore. Una volta raggiunta l’immagine, essa non significa, non rappresenta, non esprime, essa è. In questo modo può essere associata a modelli di rappresentazione assoluta nei quali tutto ciò che conta è l’essenza spirituale dell’opera.