lunedì 28 ottobre 2013

harari - alper: obiettivo sulla musica

Seguendo il pensiero di Charlotte  Cotton, importante critico fotografico contemporaneo, le foto di Guido Harari e Joe Alper, relative alla documentazione di “ambienti musicali”, si potrebbero collocare a metà strada tra la narrazione storica e la descrizione delle relazioni emotive. L’attività dei due fotografi  (Alper è morto nel 1968 a 43 anni) è messa a confronto in una interessante rassegna al Labirinto di Casale Monferrato, nell’ambito del festival Book & Blues, e questo confronto ci permette di comprendere che la forza della loro arte sta nel fatto che entrambi cerchino di porre i propri soggetti su un piano “umano”, sfrondando le loro esistenze di quegli aspetti che invece vorrebbero collocarli all’interno di una percezione totalmente idealizzata.


Attualmente, afferma Guido Harari, è impossibile operare una documentazione non ufficiale, non controllata da un sistema che ci tiene a conservare un’immagine iconica e trascendentale della star. Fare fotografie come quelle che egli scattò tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, quelle che noi apprezziamo maggiormente perché descrivono l’esistenza di un musicista nella sua quotidianità lavorativa, nei suoi affetti, nel suo lato meno ponderato e più casuale, è ormai impossibile.  


La sequenza dinamica, quasi famigliare di certi servizi (memorabile quello sul giovanissimo Bob Dylan di Alper, del 1962) diventa una sorta di diario di intimità umana. È quasi come se il fotografo raccontasse anche qualcosa di sé, esplicitando un rapporto di conoscenza che va al di là della semplice esperienza di lavoro. Harari racconta che è anche per la sua amicizia con Lou Reed e Laurie Anderson se è stato possibile concludere degli scatti che ritraggono i due musicisti in una luce priva di drammaticità, esplicitandoli in una sensazione immaginativa priva di grande importanza, ma assai efficace emotivamente.
In questo senso, gli scatti di Harari e Alper si collocano nella nostra memoria, invitandoci a diventare consapevoli di ciò che vediamo, concentrandoci su sul senso profondo di queste fotografie che danno forma alle nostre emozioni e alla nostra visione del mondo. Non facciamo fatica a comprendere la profondità dell’elemento culturale di questi documenti visivi che, a volte, ci appaiono come frammenti di film degli anni passati che noi cominciamo immediatamente a leggere come storie evocate dalle immagini.

lunedì 21 ottobre 2013

la leggerezza della scultura_VIII edizione

L’idea di esporre delle sculture in uno spazio aperto, a contatto con la natura, nasce dall’esigenza di dare a questa particolare tipologia di opera d’arte una collocazione “organica”: l’opera, più direttamente a contatto con gli elementi esterni, subisce un processo di deterioramento che, anziché impoverirla, la arricchisce. Ne consegue una trasformazione che conduce lo scultore a dover operare anche una riflessione sul tempo, o meglio, sulla capacità della scultura di resistere, oppure no, ai secoli, eternando quella  forza misteriosa che mette in relazione lo scultore alla materia adoperata.
Si può dire che l’artista abbia un ruolo privilegiato per compiere questa operazione, perché dotato di una maggior capacità percettiva, una sensibilità che però gli impone un’azione forte e rispettosa. Infatti, l’opera d’arte suscita più emozione se si percepisce proprio l’atteggiamento di rispetto dell’artista nei confronti dei materiali che costituiscono la sua opera e del consequenziale rapporto che egli ha nei confronti dell’ambiente nel quale la colloca. 
La natura è ai nostri occhi casuale, il suo disegno è imperscrutabile, dotato di una bellezza selvaggia che difficilmente possiamo afferrare nella sua totalità. L’uomo si pone razionalmente nei suoi confronti, sfruttando ciò che gli è stato messo a disposizione e lavorando in modo da ordinare ciò che ordine non ha. Dunque, dare un ordine, rispettare il rapporto tra l’ambiente e l’artefatto è ciò con cui gli artisti che partecipano alle varie edizioni della “Leggerezza della Scultura” devono fare i conti. La natura è un contenitore di difficile gestione e il rischio è quello di non riuscire a trovare un codice per compiere un dialogo di sicura efficacia. Tenendo però conto della qualità dei lavori esposti e della caratura degli artisti, l’attuale edizione, decisamente più internazionale rispetto alle altre, ha risolto brillantemente questo “problema”. Chi, come Tornquist, Kasimir, Roasio e Mirashi, utilizza un cromatismo amimetico; chi, come Contiero, Santini, Biasi e Ghinzani, adopera un segno in palese e voluta disarmonia con ciò che lo circonda; chi, come Medina-Campeny, Liberatore e Porta, integra il proprio lavoro con lo spazio naturale usandone gli elementi; chi, come Benetta, e Borthwick, crea un riferimento altro, evocando però lo spazio e il tempo di un’azione.

lunedì 14 ottobre 2013

claudio olivieri: le carte degli anni '50

Ciò che colpisce dell’opera recente di Claudio Olivieri, opera con la quale abbiamo avuto vari e importanti incontri, è la sua capacità di adoperare il colore per raccontare lo spazio, per modulare, attraverso una pura operazione spirituale, una sorta di suono che fluttua nell’infinito, fino a perdersi e a confondersi nelle sfumature poste ai margini di quelle campiture diafane, private completamente di consistenza materica.

Ora scopriamo qualcosa che ci avvicina ai suoi esordi, qualcosa che ci fa comprendere l’evoluzione di un artista attraverso una serie di piccoli lavori, tutti risalenti ai tardi anni Cinquanta del secolo scorso. Si tratta di disegni e tempere in cui il nucleo è formato da velature di colore, velature tanto inconsistenti quanto evidenti, talvolta completate da tracce di pastello che offrono una parvenza volumetrica alla diafanità delle composizioni. È sicuramente un lavoro complessivo che ha alla base la volontà di compiere una ricerca sulla luce, sulla fisicità brumosa della realtà, realtà che assume una forma nel momento in cui è il rapporto tra colore e segno a dargliela.
In queste opere appaiono già le tracce della futura ricerca di Olivieri, vale a dire, riducendo il concetto a una valenza elementare, il colore e la luce che divengono segno. Talvolta riuniti in uno stesso lavoro, oppure separati, questi elementi danno conto di un ritmo costante, regolato da pause che apparentemente  sembrano offrire alla lettura di questi fogli una sorta di casualità. Al contrario, la realtà si fa sequenziale, alternandosi a materiche increspature della carta, in una pittura che sembra sciogliersi come neve al sole, in tempere dai toni ineffabili, ricche di un’informalità che appare come una nuvola gonfia di vapore. 

Queste opere sono però legate a una poetica cosciente che si lega a una rappresentazione priva di materia, in cui la leggerezza risulta assumere un rilievo da protagonista. In questo senso l’Olivieri di quegli anni si discosta dall’Informale: la fisicità di questi lavori sarà soprattutto nel segno che si fa regola operativa, nel controllo di una dimensione che cerca di convogliare in un attimo un universo di vita.

lunedì 7 ottobre 2013

carlo pedenovi tra pittura e scultura

Se fossimo chiamati a ricordare ciò che caratterizzò principalmente la vita di Carlo Pedenovi, credo che molti di noi lo rammenterebbero nella sua attività di alpinista. Ma, la sua attitudine non fu solo questa, non si limitò alla qualità delle scalate in montagna, poiché fu altrettanto valida la sua produzione artistica, che quasi parallelamente ne condizionò lo spirito, rappresentando il mezzo espressivo con il quale, forse, riusciva a eternare e concretizzare questa sua passione.
Le opere di Pedenovi hanno qualcosa di arcaico e di misterioso. Esse sono ridotte a quell’essenzialità che appartiene a chi possiede la chiarezza della progettazione, a chi sa collocare i suoi prodotti artistici all’interno di una tradizione che non può essere considerata solo modello, ma anche una ricerca da portare avanti instancabilmente. La sua produzione alterna pittura e scultura, insistendo su alcuni temi (i cavalli, i ritratti, le vele, gli abitanti delle montagne), ma, mentre nell’opera pittorica le tensioni spaziali e strutturali sembrano placarsi, come se fossero avvolte in una bruma che tende a contenere le figure per trasformale in ectoplasmi per i quali viene annullato ogni rapporto con il tempo, nella scultura egli raggiunge esiti di altissima espressività. 
Nelle sue composizioni plastiche, sempre rigorosamente organizzate in ritmi lineari molto nitidi, l’immagine diventa struttura. Il suo stile, soprattutto nelle opere non prettamente ritrattistiche, nelle quali si intuisce una ricerca di equilibrio protorinascimentale di martiniana memoria, è estremamente dinamico e la descrizione del profilo diventa un tema dominante. La forza della linea determina una composizione limpida, scandita da un ritmo che si impone e diventa omaggio alla storia dell’arte. Il chiaroscuro che talvolta divide nettamente le superfici delle sculture giunge dalla rielaborazione della monumentalità antica, dal pacato incedere dei kouroi arcaici. Essi, assunti a simbolo generico del lavoro dello scultore, nell’idea conclusiva di Pedenovi, si alleggeriscono staccandosi dalla materia e divengono trasfigurazioni collocati in un eterno presente, trasfigurazioni che si caratterizzano per l’intensa forza lirica dell’immagine e, appunto, per l’essenzialità della forma.