LA BELLEZZA DELL’INCUBO. Riflessione sulla pittura di Enrico Colombotto Rosso.
J’aime l’horreur d’être vierge et je veux
Vivre parmi l’effroi que me font mes cheveux…
Stéphane Mallarmé, Hérodiade.
Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore…
Sigmund Freud, il Perturbante.
Una bellezza naturale è una cosa bella, la bellezza artistica è una bella rappresentazione di una cosa.
Immanuel Kant, Critica del Giudizio.
C’è qualcosa di straordinariamente bello nella pittura di Enrico Colombotto Rosso. Credo che in un’affermazione del genere si possa riassumere totalmente il senso profondo del lavoro di questo artista. Eppure, riflettendo sulle sue immagini, si viene travolti da un vortice che trascina in un mondo parallelo, terribile nella sua essenza, carico di una bellezza deforme che travalica il normale canone estetico, per approdare infine in una tranquillità simile a quella che ti accarezza dopo esserti svegliato da un incubo.
Molti non capiscono che Enrico Colombotto Rosso non è latore di un sogno, egli è profondamente calato nel reale, poiché sa mostrarti il lato oscuro delle cose, sa farti vedere ciò che non sai – o non vuoi – osservare. Ciò che egli ritrae con forza, è un individuo spellato, un individuo oppresso dal mondo industriale, calato all’interno di città immense percorse da folle anonime. Al silenzio di certi suoi personaggi, concentrati in un’intimità disarmante, si contrappone l’orrore dell’urlo, un misto di rabbia e di dolore che attanaglia le viscere e ti fa compiere dei movimenti scomposti, tentativi vani di uscire da una situazione dannata alla quale non riesci a abituarti.
Ricordo una foto di Mario Tazzoli nella quale Enrico Colombotto Rosso è a Palermo nella Catacomba dei Cappuccini. È uno scatto significativo che serve a comprendere l’estetica alla base di questa pittura. Enrico è sovrastato dall’orrore di questi scheletri che sembrano osservarlo con le loro orbite vuote. Ma a questa situazione egli risponde con distacco, rimanendo indifferente, immerso sulla meditazione che gli permetterà di ritrarre l’orrore mantenendo la necessaria lucidità per non farsene coinvolgere. Sigmund Freud nel suo saggio sul perturbante ci fa comprendere che perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e invece è (ri)affiorato. In rapporto antitetico alla tranquillità, perturbante è tutto ciò che le è contrario, e la pittura di Colombotto Rosso, con la sua carica simbolica, densa di cultura, di elementi musicali e citazioni letterarie, anche per chi non la osserva con superficialità, è perturbante. Ma questo è solo un aspetto, forse quello più immediato e, pur non essendo narrativa, la sua pittura appare di una ricchezza enorme, una ricchezza che emerge preziosa e luminosa.
È un fenomeno tipico della nostra natura di esseri umani che ci attragga ciò che è triste, terribile e orrendo. Esso ci attira con un fascino irresistibile e, come scrisse Schiller, dalle scene di dolore e di terrore ci sentiamo respinti e attratti con pari forza. Per questo ci soffermiamo di fronte a questi straordinari lavori, immaginando che su quelle tele possa prendere corpo l’equivalente di un nostro “ritratto di Dorian Gray” che “ora per ora, settimana per settimana, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l’orrore del peccato, ma l’orrore dell’età l’attendeva. Le guance sarebbero diventate cave o cascanti, rughe gialle si sarebbero incise intorno agli occhi senza scintilla rendendoli ripugnanti. I capelli avrebbero perso il loro fulgore, la bocca sarebbe divenuta larga o cadente, sciocca o volgare, come sono certe bocche…”
Il corpo è mostrato da Enrico Colombotto Rosso nella sua totalità, in modo anticlassico, ossuto e distorto. Eppure la rappresentazione del corpo, spesso nella sua nudità e così apparentemente disarticolato, è sottolineata da un tratto morbido che, forse, intende trasmettere l’idea di un tentativo di avvicinarsi alla vita libera, mostrata nella sua più completa verità e senza costrizioni. I suoi esseri umani non sono descrizioni di “situazioni concrete”, ma simboli di una natura elementare e eterna, una descrizione dell’effimero che c’è nell’esistenza umana.
Queste opere, però, non sono un resoconto di vita, non vogliono collocare l’uomo all’interno di una sfera eroica e autocelebrativa, ma si traducono in uno scavo psicologico impietoso e duro, in uno straniamento e in un isolamento di sofferenza. Le fisionomie contratte e deformate in uno spasmo terrificante, gli occhi fissi o terrorizzati, una tavolozza ridotta all’essenziale contribuiscono a dare il senso dello smarrimento, perché questi ritratti si elevano al di sopra del loro valore individuale per assumere un significato universale.
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