lunedì 30 settembre 2013

il segno dipinto

Potrebbe essere definito un piccolo “movimento di gusto”, parafrasando un’affermazione di Lionello Venturi, nel senso che questa iniziativa artistica, dall’interessante carattere retrò, rappresenta un riflesso della cultura del proprio tempo, un’apparizione di quella varietas che appare assai vitale a chi vive e affronta quotidianamente la “provincia”.
Di fatto, si è assistito a un’esperienza espositiva che ha sancito la formazione di un gruppo, un gruppo non solo tenuto insieme da rapporti di amicizia, ma anche caratterizzato dalla solida preparazione tecnica che ha eletto il “segno dipinto” come elemento di affermazione della libertà culturale, di disponibilità delle espressioni d’arte per raffigurare senza retorica la loro realtà.


Percorrendo i lavori di questi artisti si riescono a trovare dei caratteri comuni che, quasi immediatamente, vengono accantonati, superati da identità proprie che individuano le radici di un’espressività fatta di stratificazioni, di contatti reiterati e di discussioni. La loro però è un’esperienza di “arrivo”, in quanto ciascuno ha già maturato un proprio percorso che sembra avere in questo momento più il carattere di un confronto, una comparazione per  sottoscrivere una sorta di manifesto capace di far riflettere su determinate scelte estetiche.
Pertanto, i lavori di Antonio Barbato, aspri e essenziali, apparentemente privi di movimento ma impostati su spazi che tendono alla drammatizzazione, di Pio Carlo Barola, calati in atmosfere idilliache piene di simboli vagamente onirici, di Gianpaolo Cavalli, in cui dominano figure bruno-rossastre spesso risolte con pacata linearità, di Luigi Corteggi, nei quali le immagini si trasformano fino a diventare fantastiche e astratte, di Mauro Galfrè, che lasciano intravedere palesi elementi decadenti e che esprimono l’ambiguità di uno stato di sogno che filtra la realtà e di Gianfranco Penna, che sembrano concentrarsi  su quegli elementi lirici che trasformano le sue immagini in inquietanti  presenze, devono essere percepiti non tanto come il risultato di un’esperienza comune, ma come parti di un discorso che mira a creare una tendenza in grado di reinterpretare il valore spirituale dell’opera d’arte.

domenica 15 settembre 2013

la realtà di nadir montagnana

Un’arte aspra e particolare. Il lavoro di Nadir Montagnana potrebbe essere sbrigato con questi due aggettivi: il primo evidenzia una linearità rugosa in cui le tinte sono mischiate con sapienza per ottenere particolari effetti stranianti; il secondo fa riferimento alla collocazione stilistica, a metà tra il figurativo e il segnico/informale. A questa seconda affermazione è però doveroso aggiungere un’ulteriore riflessione, in quanto, in quelle linee che sembrano descrivere dei profili  di paesaggi, Montagnana non intende rintracciare un’immagine riconoscibile, ma proprio per il fatto che egli si impone di non rintracciarla, di fatto, la realizza a livello di sostanza, in un contesto di visibilità che percepiamo immediatamente.



La sua è un arte di ricerca, caratterizzata da una replica di soggetti analoghi gestita con enorme acume. L’artista propone nell’effetto casuale una correzione di quella prevedibilità che ci si potrebbe aspettare. Possiamo pensare a un’arte statica, un’arte controllata che fa emergere oscuri frammenti di realtà. Sicuramente si possono intravedere questi elementi, ma non bisogna dimenticare l’aspetto simbolico di questi lavori, aspetto tanto più problematico da percepire quanto più aderente a ciò che si lega alle emozioni e ai sensi di ciascuno di noi. La realtà di Montagnana porta a una visione del mondo particolare, probabilmente carica di vitalismo. Per cui, almeno l’ultima fase della produzione di Montagnana deve essere vista e interpretata come una rappresentazione organica del mondo visibile. La sua drammatizzazione si muove all’interno di un’indagine tellurica in cui vengono evocati i momenti di sconvolgimento terrestre. Pur priva di una fisicità materica, ciò che è ottenuto da questo pittore è comunque calato proprio nel campo del percepibile, poiché esso vive di forme che possono essere ricondotte al mondo lacerato della rappresentazione oggettiva. La sua è un’arte fortemente contemporanea, tra le poche che riescono a capire che la nostra realtà ha iniziato un fatale riflusso dal mondo degli oggetti e cerca di opporgli attraverso l’elemento apparentemente casuale della forma e del colore, l’unico “muro visibile” della semplicità di un profilo che da sempre circonda i nostri spazi.

lunedì 9 settembre 2013

enrico colombotto rosso: alcune riflessioni sulla sua opera

L’opera di Enrico Colombotto Rosso si snoda su un arco di tempo di quasi mezzo secolo, indicativamente, dagli anni ’50 al primo decennio del 2000. Probabilmente, il periodo migliore della sua produzione fu quello dei primi decenni del suo operare, fino al momento in cui – negli anni Ottanta – cominciò gradatamente a abbandonare l’olio la tela e quella tavolozza satura e “decadente”, per dedicarsi all’utilizzo della tempera, della china e, quasi in modo consequenziale, alla produzione su carta.

È chiaro che con ciò non si vuole affermare un venir meno della valenza estetica della sua opera, ma sicuramente la potenza espressiva di quella prima fase lasciò spazio a una seriazione  più marcata che determinò un ovvio mutamento dei valori artistici dei singoli prodotti.

È per questo che la mostra di Casale Monferrato diventa esemplare. Si tratta infatti di un’esposizione che racconta la grandezza di Enrico Colombotto Rosso attraverso quei quadri e degli assemblaggi in contenitore (scatole che si riempiono di oggetti e che determinano curiose e svariatissime composizioni) di quei primi decenni, quelli che lo fecero diventare il “poeta del fantastico” che tutti conosciamo. La sua produzione si incentra sulla drammatizzazione di personaggi che spesso si stagliano su sfondi indefinibili, degli eroi solitari che appartengono a universi in cui domina il dolore. Sono esseri malati sui quali si riflettono le nostre angosce e meschinità. Sono apparizioni oniriche, delle rielaborazioni degli incubi romantici che animano le nostre notti.

L’arte di Colombotto Rosso però non fa paura, non suscita sentimenti di repulsione. Essa è magnetica, ci attira come se stessimo riflettendo la nostra immagine in uno specchio e potessimo comprendere tutto l’orrore del nostro esistere, un orrore che, come nel Dorian Gray di Wilde, ci permette di mantenere quell’aspetto più umano per poter convivere con i nostri simili. È dunque una pittura d’atmosfera, leggera e densa di citazioni colte. Infatti, nella produzione pittorica di Colombotto Rosso sono evidenziabili alcune componenti letterarie che, in modo del tutto generico, potrebbero appartenere al fantastico, a quel mondo grottesco intorno al quale sembra ruotare tutto il suo universo poetico.



venerdì 6 settembre 2013

enrico colombotto rosso e il suo mondo fantastico

Chissà se è mai esistito il ragazzo di Edimburgo e ora, quanti anni avrebbe? Sarà ancora vivo o avrà già raggiunto l’eternità? Quando chiesi a Enrico Colombotto Rosso qualcosa relativamente a quel dipinto mi disse che aveva colto il movimento di uno studente e lo aveva riprodotto, come si fa in una scena di genere. Lo dipinse nel 1956, rappresentando su un fuligginoso sfondo dorato due inquietanti figure, due esseri malati che si stanno rincorrendo. La figura in primo piano sembra, colta da improvvisa angoscia, precipitare in un abisso, risucchiata dal bordo inferiore del quadro; il ragazzo di Edimburgo (che dà il titolo al quadro), proposto a figura intera, ha qualcosa di innaturale nella sua corsa, è scomposto, ma, inesorabilmente andrà pure lui verso l’abisso. È un lavoro magnetico, dotato di una misteriosa forza, bello nella sua essenzialità e nel suo compatto equilibrio formale.



Anche di fronte a un’opera come questa, si comprende che Enrico Colombotto Rosso è stato  uno dei più accattivanti, misteriosi, affascinanti artisti piemontesi attivi in Europa durante la seconda metà del scolo scorso. Latore di un’arte vicina al Surrealismo ma obiettivamente di difficile catalogazione, nel lavoro del pittore torinese si rileva comunque una traccia dell’estetica di culture antiche e di citazioni che hanno travalicato le barriere del tempo. In questo modo si può capire che ciò che ha prodotto per tutta la durata della sua vita non ha origine, e, teoricamente, potrebbe essere ascritto a qualunque momento della vicenda storico artistica di ogni dove.

La sua pittura è inquietante, è spesso esibizione di monstra che appaiono vomitati da chissà quale inferno. Le sue figure sono freaks malvagi, demoni anoressici che tentano una difficile metamorfosi, un impossibile cambiamento. Il loro stato non è definibile, sono esseri pallidi, creature notturne che popolano mondi malati, mondi nei quali è l’urlo ad imprimere l’unica possibilità di comunicazione. Sono esseri rantolanti che appaiono all’improvviso, vampiri che, simili ad immondi parassiti, ti svuotano di ogni energia vitale. Sono creature che vivono nelle periferie di città deturpate dall’orrore, nei video di Marylin Manson, nelle tavole di certa fumettistica, sono creature che strisciano negli incubi e si nascondono nell’ombra delle cantine.

Ma l’arte di Enrico Colombotto Rosso non può essere solo questa, sarebbe estremamente riduttivo limitarsi a queste considerazioni. Infatti, osservando meglio i soggetti delle sue tele, avendo il coraggio di penetrare nel quadro facendosi assorbire dai traslucidi riflessi delle tinte assolute adoperate dal pittore per determinare queste figure, ci si rende conto della densità estetica di questi lavori.

Oltre al valore pittorico in senso assoluto, ciò che noi percepiamo durante l’osservazione di queste opere si trova ai limiti di una realtà fenomenica ancora intrisa di romanticismo, un’aura di ineffabile perversione che ci porta all’interno di situazioni cariche di macabro, al cospetto di personaggi che si muovono sullo sfondo del tardo racconto gotico. Infatti, nella produzione pittorica di Colombotto Rosso sono evidenziabili alcune componenti letterarie che potrebbero appartenere al fantastico, a quel mondo grottesco intorno al quale sembra ruotare tutto il suo universo poetico. L’eroe colombottiano è un personaggio solitario nel quale si riflette la nostra solitudine, ciò che ci permette di esaminarci dentro. Le deformazioni delle immagini sono l’equivalente delle nostre deformazioni interiori di sensazioni e sentimenti, le ferite dell’animo tradotte in figure che qui sembrano avere una valenza terapeutica. Inoltre, come ebbe modo di evidenziare qualche tempo fa il critico Janus, per giustificare l’essenza fantastica del lavoro di Colombotto Rosso, in esso si ripetono alcune situazioni estreme: “...c’è uno sposalizio, ma è spesso uno sposalizio con la morte, c’è un connubio tra l’umano e l’animalesco, c’è la notte avvolgente come la ragnatela e c’è l’elemento macabro, luttuoso, che non conduce necessariamente alla morte ed invece apre uno spiraglio verso il mistero che circonda le vicende dell’umanità, la crudeltà della vita, la perversione inconscia o consapevole del bello.”

È chiaro a questo punto il manifestarsi dell’elemento catartico proprio della pittura di Enrico Colombotto Rosso. Le sue immagini sono quelle di esseri che hanno subito una trasformazione. All’inizio erano un’altra cosa, erano forse esseri peggiori, assai più raccapriccianti di quanto non siano adesso ed hanno subito il cambiamento che permette loro di diventare icone di un’arte di raffinata e perturbante bellezza, dal mondo al trascendente, dallo stato umano a quello di larva, da angelo a demone. Chiaramente è un mutamento con dei limiti di purificazione oggettivi, ma è pur sempre un mutamento. Ora, chiarita nella sua essenza, la difficile arte di Colombotto Rosso appare meno terrificante, anche se le sue figure sono drammaticamente assurde, spesso le posture sono ingobbite, storte, curve, dolenti, forme collocate in una sorta di aldilà dantesco. Eppure, esse risultano estremamente poetiche, in quanto si tratta di osservatori attoniti, che guardano l’orrore del nostro quotidiano e si esprimono come conseguenza di ciò per cui sono state elaborate.