lunedì 31 marzo 2014

pinocchio: un eroe senza tempo

Pinocchio ha il fascino di una storia senza tempo. È stato detto e scritto moltissimo sul burattino di legno che diventa bambino; moltissimi artisti, poi, si sono cimentati con la rappresentazione di episodi che strutturano la favola di Collodi. Con questa mostra si aggiunge un altro elemento alla saga, si aggiungono delle visioni che tendono a far riflettere proprio su questo racconto.



Pinocchio è un antieroe che si colloca agli antipodi dei protagonisti dell’altra grande storia per ragazzi scritta da Edmondo De Amicis. Nel libro Cuore non c’è nessuno che in qualche maniera ricalchi la complessa personalità di Pinocchio. Egli è dapprima un vizioso, un ingenuo, privo di qualunque morale. La sua coscienza emerge talvolta sottoforma di Fata Turchina o di Grillo Parlante, ma è una coscienza priva di consistenza, ricattatoria, che, inascoltata, viene addirittura irrisa e accantonata di fronte a epicuree prospettive di divertimento. Per questo Pinocchio si presta a migliaia di interpretazioni artistiche. Non è banale affermare che la sua faccia di legno carica di espressione è simile a quella stupita del bimbo di fronte alla novità delle cose del mondo. Come un bambino Pinocchio non giudica ma è giudicato; Pinocchio cerca lo spirito vitale delle cose ma è continuamente rispedito al cospetto della realtà dei fatti. Il mondo che vorrebbe – rappresentato dal Paese dei Balocchi – è rifiutato dai benpensanti, dal mondo borghese dal quale vorrebbe uscire ma al quale è continuamente costretto. Pinocchio, riprendendo un pensiero di George Bataille, è un ragazzo abbandonato a se stesso, libero da ogni costrizione e da ogni convenzione. Contro di lui la società oppone regole e condizioni assolute che uccidono la sua innocenza e la sua poesia. La trasgressione è tanto più forte quanto più l’interdizione è dura e intangibile. Alla fine solo la morte del burattino e la rinascita come bambino sembrano poter liberare Pinocchio dalla sua passione autodistruttiva.



In questi termini solo l’arte, terreno tradizionalmente libero da convenzioni e regole nel quale si manifesta l’individualità dell’artista, può far rimanere Pinocchio in una perenne utopia, quel non luogo che nella storia è l’inviso Paese dei Balocchi. Questo è lo sfondo affascinante sul quale si staglia la silhouette del burattino. La vera invenzione collodiana, il vero luogo fantastico nel quale ci si può perdere è proprio quello. Per l’arte è il luogo dello spirito, è il luogo della libertà assoluta dove “le vacanze iniziano il 1° gennaio e finiscono il 31 dicembre”. Ecco perché Pinocchio diviene simbolo, ecco perché evoca scenari nei quali tutto è possibile nei quali tutto può avvenire e tutto può essere rappresentato senza impedimento alcuno.

Collodi realizza un racconto che ha il passo della narrazione evangelica. È un insieme di parabole che devono mettere in guardia il lettore e che, alla fine, devono condizionare ogni libertà personale. Pinocchio è uno sciocco che si fida degli uomini, una sorta di androide che non può fare del male agli esseri umani. Il suo percorso è una sorta di purificazione, una sconfitta per la sua personalità di “essere di legno” che deve scendere a compromessi per potersi integrare nella società degli uomini. Tra gli uomini non c’è spazio per la bizzarria, per l’improvvisazione, per il vivere alla giornata. Il cammino di Pinocchio è una sconfitta. Alla fine della storia tutti ottengono una vittoria, anche un personaggio come Lucignolo è vincente rispetto al burattino. Egli,  rimanendo asino, sfida le convenzioni borghesi che lo vorrebbero “bravo ragazzo”. Pinocchio, invece, risputato insieme al padre Geppetto dal ventre della balena, ottiene il miracolo di essere come gli altri, omologandosi e rinunciando alle precedenti possibilità.


lunedì 24 marzo 2014

la purezza della pittura di piero rambaudi

Ciò che colpisce e affascina dell’arte di Piero Rambaudi (1906 – 1991) è il suo esprimersi attraverso la ripetizioni di moduli geometrici e cromatici che finiscono per comporre delle aree cariche di contrasti ritmici e, nello stesso tempo, di palesi equilibri formali. Rambaudi è l’autore di un gioco dalle difficili regole che egli gestisce con grande abilità, sfidando la materia e la forma, fino a colpire lo spettatore chiamato a guardare le trame che si compongono sulle superfici dei supporti.



Gli oli degli anni Sessanta sono minimali. L’artista appronta una porzione della tela con una larga spatolatura sulla quale agisce sollevando frammenti di materia pittorica in modo da corrugare una parte della campitura. È il risultato della tensione che appartiene alla pochezza insita nelle cose, cose dalle quali si può captare solo questa sorta di “ronzio tattile”. I colori di questa fase sono lividi, solcati qua e là da bagliori biancastri, mentre il segno resta isolato in crocicchi che scandiscono lo spazio con regolarità geometrica. Qualcuno, a proposito di queste straordinarie opere, ha parlato di “paesaggio”, ma quest’ultimo è già bruciato e l’artista ne mostra le ceneri, le ferite di una lotta con l’esistente che non approda a nulla. È dunque un segno caduco che regge la scena, ma che nella sua caducità trova una sorta di risarcimento. In Rambaudi appaiono tracce di una povertà persuasiva che trasmettono il senso di una ricerca austera, spoglia e decisamente intensa.




A completare questo percorso, in modo da comprendere appieno gli sviluppi della ricerca del maestro torinese, sono presentate alcune carte intelate degli anni Ottanta. Esse mantengono intatto quell’equilibrio formale che unisce segni e cromie, collocandosi all’interno di un continuo e coerente processo di riflessione estetica. Interessante, anche se dominata da maggiore intensità coloristica, apparentemente in contrasto con quella delle opere degli anni Sessanta, l’ultima fase della sua produzione. In essa egli compie delle ricerche nelle quali associa la geometria dei frattali – enti geometrici non interi in grado di riprodurre l’ente di partenza su ogni scala – alla sua arte, concentrandosi sulla misteriosità di un processo meccanico e schematico ma che, attraverso il colore, conquista il suo spazio ravvisando in ogni cromia quella capacità intimamente misterica di far intravvedere nel colore il suo eterno mistero. 


lunedì 17 marzo 2014

la spiritualità di maurizio barbieri

Le nostre idee, il rapporto con noi stessi e il mondo, o più semplicemente l’esserci, preesiste in modelli immaginari dai quali non possiamo allontanarci perché fanno parte delle nostre convinzioni, del nostro modo di pensare, di intuire e interpretare.



L’arte di Maurizio Barbieri è talmente rarefatta da sfiorare la dimensione dell’astrazione ed è per questo che per comprenderla è necessaria questa premessa. La ricerca di Barbieri, da diversi anni, si misura con la riflessione sul viaggio, sul ricordo che si sedimenta vivendo una determinata situazione. Egli presenta delle immagini della propria poetica in opere talmente suggestive ed efficaci che rimandano a un contesto che supera la pura concretezza dell’esistente, diventando la rappresentazione di un anelito alla spiritualità che l’uomo incontra nel proprio incedere nella vita terrena.

In tempi così complicati dal punto di vista religioso, il lavoro di Maurizio Barbieri vuole testimoniare un pacato influsso sulla contemporaneità dal sapore misterioso ma denso di significati simbolici. La descrizione solo superficialmente figurativa si colma di elementi pittorici profondamente accattivanti e rilucenti basati su giustapposizioni di colore che danno al dipinto una dimensione metafisica.




Con questi avvicinamenti cromatici, spesso apachi, quasi le descrizioni dei suoi spazi fossero avvolti in uno strato di nebbia, la proposta estetica di Maurizio Barbieri non può che affascinare coloro che la osservano. La dimensione “oltremondana” della modalità pittorica di questo artista non può che condurre a ritrovare un contatto con un’esistenza  meno implicata con contesti meramente materiali del vivere. Inserire nel proprio operato pittorico un sentimento spirituale così marcato non può che condurre chi osserva alla concentrazione, poiché soltanto con un’attenzione rivolta verso tale questione esistenziale si può afferrare appieno il significato di tale lavoro. Barbieri si rivolge a coloro i quali sono propensi a una sfera più intima, attenta a interrogarsi sul senso del proprio esistere e aperta a ciò che trascende una realtà guidata da criteri traballanti.  

venerdì 14 marzo 2014

litografie di mario surbone

La litografia è una tecnica che prevede l’utilizzo di una lastra di pietra calcarea sulla quale è stato eseguito un disegno con materiale grasso. Successivamente, sulla pietra inumidita, viene applicato un tipo di inchiostro che aderisce solo sulle linee tracciate che, tramite una speciale pressa, darà forma a un segno posto su un foglio di carta.



Mario Surbone ha ottenuto con questo procedimento delle opere di grande incisività. Come viene proposto in un video da pochi giorni in rete, si vede il maestro che senza esitazioni o ripensamenti traccia delle linee che compongono le sue figure. Si tratta di immagine potenti, fortemente regolate su campiture di inchiostri dalla netta colorazione. Probabilmente, il ricorso a una pietra porosa che – come ricorda lo stesso Surbone – dopo essere disegnata veniva sottoposta a una serie di operazioni che prevedevano operazioni chimiche di fissaggio per ottenere il fondamentale principio dell’incompatibilità dell’acqua con il grasso senza il quale non si sarebbe attuato il trasferimento dell’inchiostro dalla matrice al foglio di carta.

Le opere proposte sono state realizzate quasi tutte nell’arco di un decennio, tra il 1959 e il 1970. La litografia che Surbone utilizza si perfeziona, dopo le prime sperimentazioni, a Parigi. A testimoniare gli esiti di questo soggiorno vi sono delle piccole incisioni del 1961 che, in linea con la ricerca operata dall’artista negli stessi anni, evocano delle immagini della città. 

L’inchiostro sembra sciogliersi in sfumature monocromatiche lasciando spazio a una vitalità intensa, a un palpitare di forme che rendono queste incisioni qualcosa di sereno, di piacevole. Già in queste opere appare predominante lo studio del segno che diventerà uno degli elementi centrali della riflessione di Surbone. In questo contesto colpiscono anche maggiormente le immagini realizzate a metà degli anni ’60 nelle quali sembra prendere corpo una figura antropomorfa, citazione di un discorso mnemonico che fa riferimento alla regola e alla proporzione  classiche, altro aspetto fondamentale della produzione dell’artista.

martedì 4 marzo 2014

esterno interno di agostino ferrari

L’apparizione del segno come entità astratta di rappresentazione nasce, di fatto, con l’uomo. È qualcosa che affascina, che si mischia con la scrittura e che offre migliaia di sensazioni.

La produzione artistica di Agostino Ferrari nasce come riflessione sul segno, sul tracciare sul supporto una struttura che incomincia a dialogare con lo spazio offrendo con il suo dilatarsi organico qualcosa di nuovo, un calligramma che si staglia come un movimento del cielo, come un richiamo di memoria che cerca di chiarire il mistero stesso della comunicazione. L’indagine iconica di Agostino Ferrari cerca di liberarsi della morsa pacata della pittura per collegarsi a misteriosi aggregati fisici che lasciano spazio a una proliferazione di metafore organiche e cosmiche. Parafrasando un’affermazione della filosofia zen, la materia non è diversa dal vuoto e il vuoto non è diverso dalla materia, per questo la materia è precisamente il vuoto.


È allora in questi termini che si comprende la straordinaria valenza estetica degli ultimi lavori di Ferrari. Essi erano già intuibili nella serie bidimensionale “Interno Esterno”, lavori nei quali il pittore dava la sensazione ottica di un aprirsi della superficie più esterna, una illusionistica lacerazione del supporto che lasciava intravvedere un frammento di spazio oscuro, una realtà metafisica verso la quale sembrava perdersi il nero del più evidente grafismo nastriforme.




Quello che era un quadro, un’opera che si permetteva di manifestarsi con dei timidi aggetti di materia, ora diventa un’esplosione, un contorcersi di metalli verso lo spazio esterno. La lacerazione si genera sulla superficie del quadro attraverso la somma delle sue variazioni. Lo spessore pittorico, con le sue ombre, le sue circonvoluzioni, non è altro che il ritorto, labirintico segnale in cui si opera la sublimazione della materia. Essa fa a meno della sua fisicità diventando vuoto e nello stesso tempo parte integrante di un universo che sembra attirare a sé, come un buco nero. L’essenza si fa presenza e si concretizza  dinnanzi agli occhi dell’osservatore, il vuoto esiste come pieno e è un nucleo reale dello spazio.