lunedì 27 maggio 2013

indefiniti strumenti: arte figurativa e musica a serravalle scrivia

Di solito, quando in arte si immaginano gli strumenti musicali dipinti, essi appaiono come elementi che si inseriscono nel contesto di “nature morte”. Forse il motivo è dovuto all'influenza dell'opera di Evaristo Baschenis. Egli seppe riflettere sul realismo di derivazione caravaggesca che combinava immagini di grande virtuosismo pittorico con la monumentalizzazione dello spazio. Nella sua opera gli strumenti musicali si ergono a protagonisti assoluti, simili a attori muti che si preparano alla loro recita. Nei lavori del maestro bergamasco la musica spesso tace, il concerto é già compiuto o avrebbe dovuto essere. Lo strumento musicale è rivoltato e, infine, lo sguardo va sul legno lucido su cui si sta già posando un po’ di polvere.
Dai capolavori di Baschenis sono trascorsi almeno trecento anni e la musica, nel mondo dell’arte, è stata evocata in centinaia di maniere differenti. Anche il tema di questa rassegna di Serravalle Scrivia si connette al discorso della musica. Agli artisti coinvolti non è stato dato alcun obbligo, si è semplicemente chiesto di descrivere con la sintassi dei loro linguaggi la musica, con la libertà di interpretare questo discorso senza alcun limite.

Ciò che è apparso è stato qualcosa di veramente particolare, qualcosa che lascia intuire come i limiti della creatività siano imprevedibili e infiniti. Ovviamente, ciò che deve essere chiaro fin dal primo momento di questa analisi, è che l’arte che cita la musica lo fa con un carattere puramente evocativo. Pertanto, tutto ciò che viene prodotto sulla scia di questo tema, ci conduce a percepire la musica come simbolo, come apparizione che non interessa il senso preposto alla sua percezione, a meno che non si agisca come ha fatto Mirco Marchelli in alcune occasioni, adoperando la musica come componente di un’installazione. Certamente si tratta di una soluzione interessante che con i moderni supporti video e con l’elettronica diventa talvolta indispensabile per affermare l’idea alla base della realizzazione. Marchelli, che ha dalla sua anche l’attività di musicista, propone qui una struttura estremamente raffinata, un’installazione che viene cristallizzata in una teca che sembra bloccare il tempo. La musica è ben presente, come spartito, come strumento e nell’immagine del suonatore che sfuma come un brano lontano. Anche per Mario Fallini la musica è pura citazione. La vibrazione di una tromba provoca la rottura della superficie in vetro che chiude il suonatore e da lì si diffonde il silenzio, in ogni direzione. Solo il silenzio, o meglio, la pausa, secondo elemento del rapporto dialettico che si alterna alla vibrazione, appare reale nella percezione sensoriale, all’interno di un’area che ricorda la pianta a croce greca di un edificio religioso.
Maurizio Barbieri non cita la musica attraverso uno strumento. La sua è una situazione notturna, egli dipinge il Lennox Lounge, un locale newyorkese dove “si fa musica”. È l’atmosfera che assume un preciso carattere di protagonismo. Barbieri si ferma sulla strada e sente una miscela confusa di note che si diffonde nell’aria come l’odore della pioggia, della città o della notte rischiarata da un’insegna al neon.  Per molti artisti la musica si lega al Jazz, forse perché come l’arte respira la stessa libertà creativa. Fare Jazz non significa non conoscere la musica, l’improvvisazione è tanto più efficace quanto più si conosce la musica. In questo ambito trovano spazio i lavori di Maurizio Cordara che realizza un ritratto di Michel Petrucciani e di Daniela Petrillo che ci pone di fronte all’immagine di un trombonista. Vito Boggeri, con il suo “Band” propone una figura antropomorfa, un ibrido tra un uomo e uno strumento. Da questo essere escono dei suoni che assumono la poetica forma di stella. È un’opera visionaria, nella quale si uniscono la componente creativa dell’artista e quella prettamente musicale, in quel piacevole miscuglio di sensazioni tipico della pittura di questo artista.
Davide Minetti trova nella musica una particolare dimensione creativa.  Sembra che in tutta la sua opera ci sia sempre almeno un elemento che riporta l’osservatore alla musica, sia quando essa è palesemente citata, sia quando egli ci conduce ai paesaggi interiori delle sue astrazioni. In “Crescent”,  è la raffigurazione del gesto teso a (ri)creare musica a rivestire il ruolo di protagonista dell’opera: egli cita la musica in quella componente che ritiene totalmente avvolgente, che trasforma lo spazio e il tempo in espressioni prive di fisicità, relegandole a una dimensione esclusivamente emotiva. Giovanni Saldì propone una riflessione sul rapporto tra lo strumento musicale, un violoncello e chi lo suona: volto e strumento si confondono nella viscosità atmosferica dello spazio, prendendo una colorazione simile, diventando parti di un costruzione che non permette di scindere le due componenti che insieme creano il suono.  Giovanni Bonardi fa riferimento alla classicità, citando la musa Euterpe. La sua è una libera interpretazione che tiene solo in parte conto dell’iconologia tradizionale. Quello che colpisce è la monumentalità dell’immagine, chiusa in un ocra marmoreo nella parte inferiore del corpo cui si contrappone l’evanescenza di quella superiore, quasi a denotare l’armonia dell’universo che nel suo aspetto transitorio muta continuamente.


L’attività di Ivano Antonazzo è soprattutto grafica. La sua tela fa riferimento al brano di Fabrizio De Andrè “Ho visto Nina volare”. L’immagine è di un video, vale a dire un momento illustrativo della musica contemporanea. Le parole del cantautore ligure prendono corpo in un frammento che focalizza simbolicamente una strofa. La leggerezza del segno di Antonazzo, poi, riesce a evocare efficacemente il dondolio dell’altalena su cui gioca la minuta figura femminile. Cecilia Prete realizza un ritratto di una strumentista che suona il violoncello. L’impostazione è tradizionale, ma proprio questa componente rende il lavoro particolare, collocandolo in una non-dimensione totalmente ripiegata sulla resa del gesto che si fa musica. Lorenzo Boioli si rivolge alla tradizione occitana. Egli individua tre tipologie di suonatori che compongono un’ideale gruppo folklorico. Ecco che allora emergono i suoni delle valli piemontesi, della musica popolare antica, esempi di una cultura che soprattutto oggi merita di essere valorizzata come esemplificazione storico/antropologica.
Carlo Ivaldi dà alla musica una struttura plastica. Egli la fa vibrare all’interno di un’installazione molto leggera, nella quale dei dischi di metallo appesi a sottili fili di plastica si muovono spinti anche dalle più sottili correnti d’aria. Ottiene un suono appena percepibile, estremamente piacevole che inonda lo spazio circostante. Giovanni Tamburelli compone la propria installazione con una delle sue sedie e quattro piccole tele con altrettanti musicisti. I soggetti ritratti sono quelli tipici della sua produzione, quegli animali tratti dei suoi bestiari che riempiono con allegria la dimensione umana. Pertanto prende corpo in questa opera una dimensione fiabesca, in cui tutto è possibile e in cui tutto può essere letto con lo stesso spirito con cui si affrontano le storie di Esopo e di La Fontaine. Francesca Brugna offre una versione della musica ironica. Il suo punto di partenza è la volontà di creare la bozza di un manifesto per un avvenimento musicale di tanto tempo fa. I colori pastosi e l’evidente glassazione dell’impianto rendono il lavoro estremamente efficace, un po’ sopra le righe, come certa musica che, malgrado tutto, inonda la nostra vita. 

lunedì 20 maggio 2013

maurizio barbieri: ricordare e creare

L’ultima fase del lavoro di Maurizio Barbieri è, di fatto, una riflessione sul reale. Può essere adoperata l’etichetta di realismo per indicare il carattere della sua pittura, ma una tale definizione risulterebbe limitativa e, sicuramente, non riuscirebbe a palesare quello che è l’essenza più profonda dello stile di questo pittore.
Barbieri non riproduce la realtà e non dà nemmeno importanza alla sua rappresentazione. Ogni istante è per lui raffigurazione e immaginazione, rappresentazione e costruzione, tutti elementi direttamente collegati tra loro. In effetti, il suo atteggiamento è di rielaborazione. La realtà viene documentata attraverso la fotografia e da questo supporto procede con una sorta di ripulitura, una ripulitura che gli consente di svuotare gli ambienti, di eliminare la quasi totalità della presenza umana. La tela appare condizionata negli spazi, si esalta la purezza geometrica dei luoghi, la prospettiva che si compone in un susseguirsi di elementi ordinati e precisi. La sensazione è quella di straniamento, di perdita di certezze, di isolamento e solitudine. Però, contrariamente a certa poetica novecentesca, le sensazioni che si manifestano non risultano negative, non c’è angoscia nei suoi paesaggi. Ogni lavoro di Barbieri sembra essere un momento di una ricerca tesa alla comprensione di sé.
Non c’è però un luogo in particolare che potrebbe diventare simbolo di questa volontà. Anzi, Barbieri sembra voler dire che ogni luogo del mondo contiene tutti i luoghi del mondo e che riprodurre un frammento di una città al centro dell’Asia è assolutamente simile a compiere la stessa operazione per  una città dell’Europa. Per Barbieri viaggiare significa consolidare una convinzione unificante, significa comprendere l’omogeneità del mondo che viviamo, senza alcuna differenza. Ciò che Barbieri propone è un qualcosa che esiste nel tempo, un qualcosa che è dentro di noi e appare nella sua assolutezza sostanziale, al di là del passato o del futuro. La certezza della sua arte è che si basa su precise e sicure aritmetiche che costruiscono spazi che possediamo e accettiamo come tali nella loro bellezza ideale.

martedì 14 maggio 2013

simone ferrarini: memorie urbane

Poche tracce di pittura che nascondono potenti linee di energia pura. I volti dei suoi personaggi si compongono sui grandi fogli di carta copiativa stagliandosi su un bianco inquinato che li contraddistingue e li rende ancora più inquietanti. Ne risultano sensazioni tridimensionali, colpi di luce violenti che determinano framenti di percorsi urbani, volti intravisti tra la folla e che si stagliano nella nostra memoria come immagini a metà strada tra realtà e sogno.
Su questa sua particolare produzione, dei ritratti di uomini senza passato e futuro, abbiamo rivolto alcune domande a Simone Ferrarini, artista particolare e interessante, capace di esprimere un’arte essenziale e inquietante, al passo coi tempi in cui viviamo.
Che cosa ne pensi di condividere una rassegna con Piero Manai?
Sicuramente è un’esperienza importante. Penso che sia uno degli artisti più potenti vissuti negli ultimi anni. Entrambi condividiamo il fatto di essere emiliani, e poi il modo di trascinare il colore sul supporto in modo da creare delle figure che sembrano appartenere a mondi deliranti, malati. Ma le analogie si fermano qui.
Pensi che la tua arte sia legata all’Espressionismo?
L’Espressionismo è un fenomeno che è stato codificato all’inizio del secolo scorso. Penso che questa etichetta possa essere corretta per numerosi artisti. Per quel che mi riguarda non penso di poter essere messo sullo stesso piano di artisti sublimi come Munch, Nolde o Holder, artisti che conosco ma che hanno lavorato in un’epoca lontanissima dalla mia. Se per “espressionismo” s’intende un’arte che non si basa sulle convenzioni tradizionali delle proporzioni e del reale, ma insiste sulle distorsioni di forma e colore, ebbene, posso pensare di essere espressionista.
Quindi un po’ di espressionismo... Però, nel tuo lavoro c’è una componente particolare…
Sicuramente. Io non baso la mia produzione su particolari teorie estetiche, io osservo il mondo reale e lo interpreto. Ecco che allora propongo il disgusto per l’esistente, simbolizzo la protesta del più debole, dell’emarginato. Quello che viene esposto in galleria è soltanto una parte del mio lavoro, quasi la punta di un iceberg che galleggia fino a sciogliersi o a scontrarsi con un transatlantico.
Perché per il tuo lavoro preferisci un supporto come la carta?
La carta è un supporto che può adattarsi a molte circostanze. È facile da trasportare, permette di far scorrere le proprie idee come se si trattasse di un taccuino. A me piace lavorare sulle grandi dimensioni e i cartelloni che adopero soddisfano totalmente le mie esigenze.
Quale futuro per Simone Ferrarini?
Mi fai una strana domanda. È come se già sapessi che ciò che mi interessa non vuole essere relegato in uno spazio chiuso. L’arte deve uscire, deve essere comunicazione, deve muoversi lungo le vie delle città. Non devi pensare solamente alla Street art o al graffitismo, immagina dei progetti che coinvolgono le persone, dei progetti capaci di ridefinire il senso estetico dei centri urbani, che significhino “partecipazione”. Concludo allora con una domanda: che cosa sarebbe stato il Rinascimento se l’arte fosse stata invisibile?

lunedì 6 maggio 2013

maria teresa guaschino pittrice

È un universo a parte quello di Maria Teresa Guaschino. Di fronte ai suoi lavori emerge un qualcosa di torbido, di sentito, di profondo. Ci si trova di fronte a una realtà che non ammette repliche, che si mostra in tutta la sua crudezza. Puntuali strumenti linguistici che le servono per esprimere la tragica specificità di una cultura che descrive i punti più oscuri dell’umano. La sua linea, i colori reali e allusivi, sempre più violenti, l’utilizzo di immagini simbolo che trasmettono un’idea di disfacimento e che ben testimoniano il disagio dell’artista di fronte a una quotidianità che non le appartiene.
Con la sua interpretazione dell’arte realizza delle miniature dense di materia immagini liricamente astratte, quasi surreali, fatte di frammenti di storia personale che sembrano perseguitarla come fantasmi malvagi. Sono esperienze forti che sfumano nella fantasia e nel sogno: bestiari inventati, forme amebiche e placentari, stazionano su fondali a metà strada tra il marino e il lunare, immersi in un’atmosfera irreale, resa fumante da filamenti che richiamano la produzione di Yves Tanguy.
Il sentimento che esprime la sua arte è fortemente interiorizzato e espresso con cliché al limite della riconoscibilità. Sono paesaggi mentali, grovigli di materia organica che si rivelano allo sguardo nella loro essenza più cruda. Tutto è espressione di un’accentuata ipersensibilità, rivolta a quegli eventi che sconvolgono la vita delle persone, eventi “estremi”  che sembrano non fare parte di questo mondo, reso sempre più sterile del tentativo di “abuso di potere” che l’uomo compie quotidianamente a danno di altri uomini.
La pittura di Guaschino va analizzata tenendone presente le diverse e eterogenee componenti che si amalgamano creativamente, in un discorso di autonomia che determina un risultato di grande valore estetico. Guaschino non ha potuto non prendere in considerazione lezioni sul grottesco e sul senso della morte derivanti da una tradizione che la trasforma in una rapsode antica. Su di esse si sono innestate rivisitazioni del surrealismo e dell’astrattismo materico.