Non esiste un simbolo, un’immagine generica che possa dire
che cosa è il cibo, è un discorso troppo complesso. Eppure ogni cibo, ogni cosa
che mettiamo in bocca con lo scopo di nutrirci ha una sua precisa valenza
evocativa. È chiaro che più un cibo è antico, più il suo valore simbolico è
complesso. Uva e fichi, ben radicati nella quotidianità mediterranea da vari
millenni definiscono una quantità di riferimenti pari al numero di volte nelle
quali sono stati citati. La banana, icona della modernità warholiana, assume
invece un valore esclusivamente graduale, richiamando dapprima alla mente la
copertina del disco dei Velvet e successivamente, attraverso precise
implicazioni soggettive, altri oggetti, disperdendosi nell’universo di immagini
cui siamo continuamente sottoposti.
Ovviamente questo non ne censura la dignità di
rappresentazione. Chi può stabilire, infatti, che cosa sia giusto
rappresentare? L’arte non è certo un mondo nel quale non si possa osare, non si
possa provocare. Le opere esposte in questa mostra ci riportano con la mente a
epoche affascinanti nelle quali il desiderio di astrazione e di attrazione per
il “pittoresco” faceva costruire tavole imbandite e raccontava il cibo allo
stato puro, nel momento che ne precedeva la trasformazione. Ma ora siamo di
fronte a quattro artisti che lavorano secondo i canoni dell’estetica più
aggiornata, la loro opera ci conduce a riflettere sulla nostra essenza, sulla
vaghezza del nostro modo di pensare, sull’approccio prettamente edonista al
cibo.
È stata una trasformazione epocale quella che si è
verificata a partire dal secondo dopoguerra, dal “cibarsi per vivere” siamo
passati al “vivere per cibarsi”. Il sottomondo raccontato dal Pulci nel
“Morgante” nel quale sembrava che il procurarsi il cibo fosse la priorità
assoluta degli sgangherati cavalieri del suo poema, è stato sostituito
dall’oscenità televisiva di decine di trasmissioni che ci propongono la seriale
variazione della cotoletta, per poi portarci all’autocommiserazione di fronte
all’inesorabile aumento del girovita. Allora ecco che il nostro appetito viene compensato
dall’ideale accomodarsi a una mensa che offre nutrimento allo spirito – sarà
banale a dirsi – attraverso il comporsi di questo progetto che indaga il cibo
attraverso una serie di opere diversissime sintatticamente ma legate dal comune
intento di rendere il cibo soggetto di performance artistica.
Gli artisti presenti nella mostra dal titolo Food
Icons, Enrica Borghi, Antonio De Luca, Florencia Martinez e Benedetta
Ubaldini, si muovono su percorsi suggestivi, capaci di tramutarsi in inedite
associazioni visuali con cui l’immaginazione e il carico culturale di ciascuno
di noi riesce a comporre una ragnatela di intriganti riferimenti. Le immagini
plastiche proposte da Benedetta Ubaldini conducono a una riflessione sul
rapporto passato presente, su quelle suppellettili che adornavano le antiche
dimore, quei trofei di caccia che rappresentavano l’orgoglio di un diritto che
era riservato a poche famiglie di possidenti. Il contenuto di questi lavori
scandaglia un mondo di ostentazione, trasformato adesso in chiave pop,
esasperato nei colori così fortemente innaturali, un richiamo all’arroganza di
chi ha fatto della sopraffazione il proprio credo, cancellando quella forza
naturale che alberga nell’animale che in queste straordinarie sculture rimane
soltanto elemento di citazione.
Enrica Borghi crea un’installazione nella quale il materiale
risulta avere un ruolo importantissimo. La sua idea è quella di parafrasare
alcune opere di Aldo Mondino, richiamando a livello essenziale la forma dei
cioccolatini attraverso la ricopertura con carta stagnola di palline di
polistirolo. Questi elementi mimetici sono i tasselli di strutture più
complesse, strutture decorative policrome di forma esagonale, che costruiscono
sulle superfici murarie dei mosaici modulari che evocano l’arte orientale nelle
sue più raffinate espressioni.
Le opere di Florencia Martinez richiamano alla memoria
determinati momenti che scandiscono la vita e i suoi rapporti. Spesso ci siamo
sorpresi a fotografare il cibo che stiamo per mangiare per condividerlo
immediatamente sui Social. La mappatura della Martinez ha qualcosa di simile:
le apparizioni di frammenti di fotografia sono delle epifanie di realtà che si
cristallizzano nel nostro essere. Sono apparizioni che ci inducono a riflettere
sulla sedimentazione dei nostri ricordi, sui desideri che si nascondono dietro
l’accaparrarsi di un gusto, trasformando il mondo che ci circonda in una serie
di istantanee dalle quali emerge una possibile risposta a qualcuno dei nostri
dubbi.
Antonio De Luca costruisce attraverso alcuni simulacri di
cibo una convincente interpretazione della natura morta. C’è qualcosa di
rituale nella proposta delle sue ceramiche e dei suoi oli, qualcosa che sembra
giungere dall’antichità, dagli Xenia romani. L’apparizione del cibo nel piatto,
o semplicemente del cibo, evoca gesti conviviali, richiama l’intimità di spazi
privati nei quali la natura inanimata è fonte di ispirazione attraverso le sue
forme, i volumi, il colore, la reazione alla luce. Da raffinato pittore, De
Luca compone i cibi secondo un disposizione estetica, descrivendoli con gusto
illusionistico e con la volontà di costruirne un possibile percorso simbolico.