lunedì 17 febbraio 2014

le immagini di simone fontana

Simone Fontana è un giovane pittore valenzano. Ha già esposto in alcune rassegne collettive, e il suo lavoro non è mai passato inosservato, suscitando curiosità e interesse. La sua attività artistica è tesa alla rappresentazione realistica di frammenti di paesaggio. Egli è come se osservasse dei particolari naturalistici con una sorta di cannocchiale, un oggetto puramente mentale che gli permette di soffermarsi su particolari che, assai spesso, il nostro occhio finisce per archiviare, facendoli diventare invisibili.



Alla luce di questa riflessione, seguendo una volontà “aristotelica” tesa alla catalogazione, Fontana potrebbe essere inserito genericamente nell’ambito dell’iperrealismo. Ma senza dubbio questa “etichetta” limiterebbe la portata del suo lavoro. Nella sua rappresentazione verisimile della realtà vi è sempre qualcosa di strano, un particolare che diventa via via più evidente, fino a farlo diventare un segno distintivo della sua opera. Lo spazio naturale di Fontana è contaminato dallo scarto umano, è inquinato da un rifiuto plastico, una bottiglia trasparente che si mimetizza con la natura. Ciò sembra invitare a almeno due riflessioni. La prima, forse più banalmente ecologista, porta il suo lavoro all’interno del dibattito che ruota intorno al rapporto tra sostenibilità e sviluppo; il secondo, più propriamente estetico, ci fa capire che il suo scopo pittorico non verte sulla riproduzione dell’oggetto, ma sull’immagine che si ha di esso. L’oggetto diventa un espediente per stabilire in che modo possano convivere colori e trasparenze, e come possano queste immagini diventare paradossi capaci di rendere allegoricamente la solitudine degli uomini e delle cose.


L’atteggiamento di Simone Fontana appare estremamente moderno. Egli è autore di una pittura piacevole e intrigante, che pur riflettendo i dati visibili del mondo, tende ad abitare una dimensione lontana dal tempo della cronaca, in cui gli uomini e le cose della realtà perdono il loro nesso logico, assumendo l’aspetto enigmatico del simbolo. Ciò che si osserva nei suoi quadri è lo sfondo di trame sconosciute, sconosciute allo stesso autore, che si fa portavoce dell’ineffabile.

lunedì 10 febbraio 2014

the last woman in the world di giovanni saldì

Le soluzioni formali proposte da Giovanni Saldì nelle sue più recenti apparizioni sembrano dare luogo a due differenti ipotesi di lettura del suo lavoro: da una parte egli si cimenta con la materia grezza e i problemi a essa connessi; dall’altra si incentra su un’ossessiva osservazione del corpo umano che, nella sua visione, rappresenta simbolicamente uno stato in cui la materia prende forma. È chiaro che il cardine su cui si incentra la ricerca di Saldì è proprio la materia ed è proprio da questa certezza che è necessario partire per affrontare qualunque discorso critico in proposito.


Il progetto The Last Woman in the World ha due momenti di fruizione artistica. In questo caso il punto di partenza avviene con la presentazione di alcuni ritratti femminili che l’artista risolve con un chiaro riferimento classico/accademico. A tutta prima questa impostazione risulta palese e imprescindibile, ma appena si scalfisce l’evidenza iconica di queste opere, si cominciano a cogliere dei particolari che quasi ci disorientano. Sembra infatti che il pittore voglia concentrarsi solo su un particolare del ritratto (un orecchino, la curva del naso, l’acconciatura) lasciando il resto in una situazione di non finito, quasi volesse trasmetterci l’idea che la sedimentazione materica che ha contribuito alla rappresentazione di quel determinato corpo si sia interrotta, oppure sia ancora in divenire, cercando una propria valenza organica.


La concretizzazione di questa azione si palesa sulla metarappresentazione del gesto compiuto. Saldì, infatti, proietta  sulla schiena di Elisa Martinez (modella e performer) un filmato in cui si vedono le sue mani che realizzano un disegno astratto/geometrico sulla schiena della medesima donna. In quel momento la schiena diventa il supporto di un supporto; l’azione artistica, che ricorda la manipolazione plasmatrice di un demiurgo, è così memorizzata e viene reiterata e ripetuta un numero imprecisato di volte, ossessivamente. Il risultato finale induce a percepire, accanto all’immobilità dei lavori prettamente pittorici, il dinamismo di un’azione che deve essere ugualmente intesa come “pittorica” e che ha ancora una volta lo scopo ultimo di far riflettere sul trascorrere del tempo e sulla capacità di immortalare la bellezza dell’ultima donna sulla terra. 

domenica 2 febbraio 2014

aspetti dell'arte di mario surbone

L’attività artistica di Mario Surbone ha sempre suscitato notevole interesse. Nella sua ricerca si enucleano alcune fasi che dimostrano come questo autore sia stato in grado di ottenere degli esiti straordinari, densi di particolari riferimenti culturali che determinavano l’affermarsi di un modo assai personale di rapportarsi alla realtà.


Tra gli sviluppi di questa ricerca si trovano gli acrilici, alcuni dei quali realizzati negli ultimi anni, all’interno dell’evoluzione di modelli che avevano avuto la propria genesi nei decenni precedenti. L’elemento naturale, centrale in questa riflessione, rimane limitato a un’impressione bloccata, a un’immagine della memoria che si trasforma in ritmo, in una sorta di suono circoscritto che continua a ripetere la sua melodia.


A volte le superfici di Surbone danno l’idea di un movimento frenato, di un’esplosione repentina, del un balzo in avanti di un elemento che è costretto a contenersi e torna a raggrupparsi qualche centimetro più in là. Non c’è rumore in questa condizione, tutto è silenzioso, o meglio, è obbligato al silenzio. Non ci può essere altro in questa situazione perché tale situazione è già al limite, al confine di una piacevole morbidezza accentuata da una scelta cromatica pacata, impostata soprattutto sui toni degli azzurri.


Diverso è il discorso delle incisioni, molte delle quali realizzate nel decennio 1960/70. La litografia che Surbone utilizza è fatta di aree che si riempiono di materia. Esse rimangono nette e compatte nella loro composizione. L’inchiostro talvolta sembra fluidificarsi, sembra sciogliersi lasciando spazio a una vitalità intensa, a un palpitare di forme che rendono queste incisioni qualcosa di sereno, di piacevole. Anche di fronte alle incisioni policrome si assiste a qualcosa di analogo, poiché la forza delle immagini si imposta sulla sovrapposizione o giustapposizione di aree sobriamente colorate che evocano spazi cadenzati, presenze di natura che si espandono.  Oltre a ciò, Surbone inserisce anche dei riferimenti classicheggianti, rielaborazioni di elementi che fuoriescono da aule di accademia, ombre antropomorfe, frammenti di decorazioni che nelle incisioni ribadiscono l’intenso rapporto dell’artista con il mondo che ha garantito sua formazione, dal quale si è distaccato senza però mai dimenticare che il centro del suo operare è comunque il segno nella sua accezione più pura.