lunedì 29 aprile 2013

asphalt di giovanni saldì

Nonostante la difficoltà dello spazio espositivo dominato da una inopportuna struttura metalica fissa, l’allestimento che Giovanni Saldì ha realizzato nella chiesa della Misericordia di Casale Monferrato risulta estremamente efficace. In pratica, l’artista ha voluto creare un percorso all’interno della sua opera, facendo interagire ogni lavoro con gli altri. Per questo si dovrebbe parlare di singolarità all’interno di un tutto.



C’è molta drammaticità in questo assemblaggio, una drammaticità barocca che diventa uno degli elementi di richiamo e di confronto tra ciò che compone questo spazio. Il visitatore compie infatti un piccolo percorso che si conclude nella zona absidale. È solo in quella parte dell’esposizione che si comprende il valore simbolico dell’impianto. Il ritmo dialettico è tutto giocato sull’autocitazione, sulla materia che Saldì adopera nella costruzione delle sue opere: l’asfalto. È un materiale povero, perennemente calpestato, indispensabile per percorrere le distanze del mondo moderno. È un materiale che se non curato costantemente diventa nuovamente natura, ritrasformandosi in pietra, contaminato dal verde che si insinua nelle sue ferite.



È un materiale che sembra urlare la sua angoscia e che ci comunica la caducità delle cose. Eppure esso è identificato con l’arrogante tentativo di cancellazione della natura operato dall’uomo e per questo percepito come negativo, come mezzo di distruzione. Saldì però nobilita questa materia, la trasforma in arte isolando dei suoi componenti e traducendoli in esperienza estetica. Tutto è forzatamente grigio, tutto è coperto da un sottile strato di catrame, tutto è pervaso da un profumo di strada, di città in estate incapace di generare una sua differente identità. Non è un caso che Saldì stia insistendo in questa forma di sperimentazione. Egli è un artista completo, capace di adattarsi alle esigenze della pittura e della scultura. L’idea di esporre le soggettive di quattro motociclisti che conducono il loro mezzo su un ineffabile rettilineo ci fa comprendere come, sin dai primi momenti della sua esperienza creativa, egli abbia avuto come leitmotiv la strada, e dunque l’asfalto, che ora si compone in concrete opere plastiche.

lunedì 22 aprile 2013

ivano a. antonazzo: la leggerezza del segno

Un tratto deciso e nelle stesso tempo delicato, volatile, onirico. Ivano Antonazzo realizza dei percorsi grafici di grande efficacia poetica. È sufficiente seguire le parole di un brano musicale da lui illustrato per penetrare in un mondo fatto di intense suggestioni visive.

Egli afferma la realtà con poche righe, contaminando generi differenti tra loro. Nella sua arte si riescono a intuire influenze del graffitismo urbano, del muralismo, del fumetto, della fotografia. L’elaborazione che egli opera è fortemente visiva e si propone come sintesi di ciò che ci circonda. È assai difficile collocarlo nel mondo dell’arte, un mondo che spesso tende a catalogare le opere calcando su precise caratteristiche. La sensazione che si ha di fronte al lavoro di Antonazzo è di libertà. Sarà per il fatto che la struttura stessa del suo tratto evoca una sostanziale mancanza di condizionamenti, sarà che i temi che egli tratta siano impostati a farci propendere verso una percezione lirica del segno, ebbene, tutto sembra convincerci del valore privo di condizionamenti della sua ispirazione. Sono d’accordo nell’affermare che un simile discorso può valere per la maggior parte degli artisti, ma in Antonazzo, proprio perché il suo lavoro si discosta dagli standard che abitualmente ci troviamo a valutare, trova spazio una forza misteriosa che ci costringe a considerare le sue opere come estremamente diafane, leggere, aeree. Egli realizza un mondo che potrebbe avere come vicini Vollon, Balthus, proprio per l’ineffabile situazione che egli ama raccontare.

Al contrario degli artisti citati, Antonazzo è però ben addentro al mondo contemporaneo, egli sogna, ma “con i piedi per terra”. Infatti, si avvale anche di supporti che appartengono assai saldamente al nostro quotidiano. Mi riferisco soprattutto al supporto video che gli serve per diffondere la sua materia in modo più vicino al nostro senso percettivo. La sua produzione è dunque assai rappresentativa del nostro universo, impostata sul messaggio e sul segno, elementi che sembrano mischiare un’esigenza di rapporto tra la tradizione alla quale si riferisce per formazione e al contemporaneo, al quale fa riferimento per vocazione.

lunedì 15 aprile 2013

francesco casorati: invenzioni di ordinaria magia

L’opera incisa di Francesco Casorati dimostra, forse più che nell’opera dipinta,  la grande capacità di questo artista recentemente scomparso,  di calarsi in un mondo onirico/irrazionale dal quale ricava stimoli per raccontare piccole favole.  Molti hanno definito Francesco Casorati proprio un “pittore di favole”, insistendo sull’aspetto più narrativo e fantastico del suo lavoro.  In effetti, buona parte dei  suoi soggetti induce a pensare che ci si possa trovare di fronte qualcosa che sfugga alla logica e alla razionalità, ma è la forza della costruzione dell’opera d’arte, cioè il collocare ogni elemento nella giusta posizione,  a detenere una consistenza tangibile, una visibilità che inserisce i suoi soggetti all’interno di una struttura equilibrata e regolare.

Egli è dunque narratore di piccole storie, ricche di ironia e di visionarietà. I suoi lavori, equilibrati e sommessi,  sono tra le più importanti opere della calcografia italiana, con elementi sperimentali che rendono i suoi fogli degli autentici capolavori. Per esempio, l’inserzione del colore, la sua apparizione all’interno delle opere, è totalmente meditata. È soprattutto la forza di una singola cromia a spingere l’osservatore a percepirla come frattura nella composizione e a notarla in quanto colore. Per l’autore torinese non è necessario riempire lo spazio di tinte differenti per estrapolare la forza del colore: esso è molto più evidente se tracciato all’interno di una monocromia. “Pesca solitaria” è un’incisione che può servire per comprendere l’idea di Casorati di colore: una sola linea rossa, sinuosa, unisce il bastimento al pesce, una linea che spicca nel nero dell’acquaforte e appare come colore assoluto, a prescindere dal pigmento.
Un altro elemento interessante dell’opera di Francesco Casorati è la scrittura, o meglio una forma di grafismo che evoca l’attività dello scrivere. In alcuni suoi lavori essa appare come sfondo, come elemento che circonda l’immagine. Essa non comunica nulla, in quanto ripulita di significati. Al pittore non interessa adoperare la scrittura come mezzo tradizionale di rapporti, ma come espediente grafico, come determinazione calligrafica che fuoriesce dalla matita e si genera come segno e non come suono.

venerdì 12 aprile 2013

antonio de luca tra tradizione e contemporaneità

Antonio  De Luca opera  una sorta di indagine sulla percezione, poiché ciò che si palesa è la volontà da parte dell’artista di elaborare una serie di elementi occultandone parte del messaggio. De Luca impregna della sua arte un luogo vissuto, e lo fa attraverso una pagina testimone del tempo. Qualcuno ha affermato che i ritratti esaltano i particolari di un volto. Se si dovesse fare riferimento a questa frase, l’arte di Antonio De Luca quasi non esisterebbe. Egli non si sofferma sul ritratto, le sue figure sono quasi tutte fatte con quelle parti del corpo che normalmente non vengono ascritte a un ritratto impostato tradizionalmente. È un po’ come se Antoon Van Dick, uno dei più grandi ritrattisti di tutti i tempi, avesse deciso di caratterizzare la nobiltà seicentesca per mezzo delle gambe. All’epoca sarebbe stata un’operazione di difficile comprensione, ma oggi, grazie al fatto che l’estetica contemporanea ammette ampie libertà, i concetti, le esperienze proposte da De Luca sono accettabile, semplicemente per il fatto che essi sono simultaneamente reali e apparenti, elementi che appartengono a  un mondo dove ogni forma e linguaggio mutano rapidamente e si consumano in fretta. Tutti i linguaggi hanno vita breve, tuttavia la loro morte non è eterna grazie all’implacabile meccanismo del revival.

Per De Luca la pittura è un linguaggio, un sistema sintattico nel quale egli esprime la sua libertà. Si tratta di una pittura/linguaggio viva, in quanto devianza dal costume di certi umani. Il suo modo di dipingere, appoggiando  il colore direttamente dal tubetto al supporto, è una specie di prodigio nel quale l’artista impiega uno sforzo che gli permette di trasformare un’idea in un’opera d’arte. De Luca insiste con un processo che sembra rendere indesiderabile la parola “finito”, poiché tutto ciò che è chiaro e visibile è contemporaneamente difficile da vedere e da capire.
L’interesse di De Luca è sempre stato rivolto all’indagine e alla comprensione del mondo. L’interesse fenomenologico per lo spazio è una delle chiavi privilegiate per accedere al suo lavoro, un lavoro per il quale la distinzione tra vedere con gli occhi e fare esperienza con il corpo è ridotta a zero. Per questo appare spesso inadeguato dare delle definizioni, riferimenti storici e, da un certo punto di vista, un possibile giudizio critico che renda attendibile un discorso sull’opera d’arte.

La sua pittura è uno sviluppo del linguaggio narrativo: lungo assi concettuali si intrecciano micro narrazioni riconoscibili. Alla bidimensionalità dei dipinti, poi, si aggiunge la tridimensionalità delle ceramiche che si spingono ben oltre il limite delle carte. La luce si posa su queste “suppellettili” che la riflettono e la catturano. Tutto risulta più ordinato, quasi a seguire una precisa regola che unisce pittura e scultura. È un dialogo tra la doppia e la tripla dimensione, dal momento che talvolta la stessa immagine appare sottoforma di immagine/quadro e di oggetto/scultura, come un sosia.

martedì 2 aprile 2013

auschwitz, luogo di martirio

La storia di Auschwitz è complessa. Auschwitz costituì il punto focale di due principi ideologici dominanti del regime nazista: fu il maggior teatro dell’uccisione degli ebrei europei e un luogo di concretizzazione della politica di colonizzazione e “germanizzazione”. L’annientamento e la “conquista di uno spazio vitale” vi si fusero concettualmente, temporalmente e spazialmente. In quanto campo di concentramento, di sterminio e di impiego del lavoro forzato, Auschwitz è esemplare della pluridimensionalità del sistema nazionalsocialista e dei lager. Il collegamento fra il proposito di sterminare e gli interessi di sfruttamento industriale divenne di immediata realtà. La circostanza che la città di Auschwitz, segnata da una secolare tradizione ebraica, sia diventata nella fase culminante del massacro una città “tedesca” orienta l’attenzione sul contesto sociale dei lager e solleva questioni relative alla percezione pubblica del crimine.
Dopo la tragedia raccontata da centinaia di saggi, opere letterarie e testimonianze varie, nel 1946 le autorità sovietiche consegnarono la maggior parte dell’area dell’ex lager all’amministrazione polacca. Organizzazioni di Haftlinge e gruppi polacchi si fecero promotori dell’iniziativa di far erigere nella zona del Lager un museo. Il proposito su realizzò già l’anno seguente. Una legge del 2 luglio 1947 istituì il complesso di Auschwitz-Birkenau come monumento commemorativo statale. Furono organizzate mostre, allestiti un archivio e una biblioteca e si procedette a ristrutturazioni (per esempio nel vecchio crematorio). L’esumazione di salme proseguì fino agli anni Cinquanta. Nell’ex lager di Monowitz, che è tuttora compreso nell’area di una fabbrica, una lapide ricorda le vittime del lavoro forzato. Il complesso dell’ ex lager Auschwitz- Birkenau, che sin dalla sua istituzione come monumento commemorativo fu posto sotto la tutela della sovrintendenza polacca per i beni culturali, nel 1979 è stato assunto dall’Unesco nel patrimonio culturale universale. L’area monumentale registra oggi, ogni anno, poco meno di un milione di visitatori provenienti da ogni parte del mondo[i].
All’inizio, appena entrati all’interno del perimetro del lager, l’atmosfera che si respira a Aushwitz 1 è sicuramente particolare. Ogni blocco, ogni strada, ogni pietra trasmette al visitatore un senso di inquietudine, sprofondandolo in una situazione emotivamente forte. La percezione della tragedia è totale. Procedendo lungo le vie che delimitano i blocchi in mattoni rossi si giunge agli spazi che sono stati adibiti a museo, e lì succede qualcosa, qualcosa di strano che si intuisce come un sussurro, un bagliore che non si sa da cosa sia stato prodotto. All’interno delle camerate vengono proposte al visitatore una serie di testimonianze dello sterminio perpetrato in quei luoghi: fotografie scattate dalle SS ai convogli che giungevano a Birkenau; disegni eseguiti da deportati che raccontano la precarietà dell’esistenza nel campo; foto di prigionieri con la data in cui furono internati e quella di morte; accatastamenti di oggetti, di scarpe, di capelli… Ci si muove osservando quei reperti che hanno assunto un valore immenso per ciò che rappresentano, considerandoli come relitti di vite passate, relitti che emergono da un vortice creato dal tempo e che ci dimostrano nella loro essenzialità simbolica, la morte di chi li possedeva. Oggetti che consolidano e perpetuano la memoria di una vicenda che per la sua enormità deve rimanere sempre presente.
Continuando la visita ecco che il “qualcosa” che si era palesato come un’apparizione, che era rimasto attaccato alla nostra pelle come una ragnatela, diventa più nitido, dando vita a un pensiero provocatorio. Supponiamo di poter slegare il significato degli oggetti dal loro significante, supponiamo di poter accedere alle sale di Auschwitz 1 senza sapere nulla relativamente a quei frammenti di storie: chi o che cosa ci potrebbe impedire di pensare di trovarci all’interno di un percorso espositivo che propone una serie di installazioni e opere d’arte contemporanea?
Quando Marina Abramovic espose alla Biennale di Venezia del 1999 l’installazione “Cleaning the House”, solo per fare un esempio, offrì ai visitatori un’opera che evocava la recente tragedia della ex Jugoslavia attraverso l’insopportabile vista di ossa spolpate che continuarono a marcire per l’intera durata dell’avvenimento. L’emozione era determinata dal coinvolgimento dei sensi che, entrati a contatto con l’installazione, rimanevano storditi facendo intuire la tragedia delle fosse comuni, del ritrovamento dei cadaveri che, cancellata ogni umanità, si stavano riducendo a una X nel ciclo dell’azoto.
Una situazione simile può essere intuita osservando  i letti a castello da campo di concentramento (Quarters, 1996) di Mona Hatoum che hanno costituito uno stimolo a riflettere sull’esigenza di pace e di solidarietà.
Due esempi, fra tanti, che ci permettono di giustificare un pensiero che non può non insinuarsi nella nostra mente. Osservando con occhio lineare, senza prendere le dovute cautele emotive, si percepisce che il rischio di Auschwitz 1 sia quello di sgretolare lentamente il suo autentico valore di monumento. Attraversare il portone dominato dalla sinistra scritta “Arbeit macht frei” e confrontarsi  comunque con un pubblico intruppato, che vive la propria esperienza ascoltando talvolta le parole della guida che scandisce i tempi del percorso, non dà la possibilità di immaginare il male che per vari mesi  trionfò in quei luoghi.
Anche per questo, purtroppo, l’atmosfera  che si respira durante l’esperienza del percorso a Auschwitz 1 non è molto lontana da quella che può essere rilevata in molte rassegne di arte contemporanea. Quello che manca, e  che dovrebbe essere esatto dal visitatore, è la possibilità di vivere la situazione con maggiore intimità. A Auschwitz 1 non dovrebbe essere associato il termine “museo”. È un luogo che dovrebbe essere considerato quale meta di un pellegrinaggio, il luogo di un martirio da vivere con lo spirito opportuno.
Se Auschwitz 1 induce a riflettere sulla correttezza del rapporto visitatore/Storia/Campo di sterminio, ciò non avviene a Auschwitz/Birkenau. Lì, il campo si presenza in tutta la sua brutale essenzialità. Il Lager è lasciato fluttuare nel nulla, totalmente avvolto dal paesaggio polacco. L’occhio si perde seguendo i pali che delimitano i fantasmi dei baraccamenti, si è avvolti dalla tragedia, proprio perché al visitatore è precluso tutto, non esiste niente al di là dello spazio e del tempo. Allora si è investiti dai propri ricordi personali, si concretizzano pagine di memoriali e saggi, immagini di alcuni film e documentari, le fotografie, tutte le testimonianze che si sono sedimentate nell’animo di ciascuno di noi. Allora, anche gli oggetti che erano ostentati nelle teche di Auschwitz 1, oggetti subiti nella loro allegoria, assumono il giusto valore trasformandosi in ricordo personale, diventando parte di quel bisogno di risposte che non riesce a soddisfare nessuna delle nostre domande. 


[i] Sybille Steinbacher, Auschwitz, la città, il lager, Einaudi, 2005.

mario annone e la sua produzione grafica

Mario Annone è artista assai conosciuto per la sua produzione pittorica. Il suo è uno stile decisamente personale, regolato, almeno in una sua fase, sulla rilettura e la reinterpretazione di temi cari al futurismo e al cubismo. Ciò si evidenzia in particolare nel momento in cui realizza alcuni suoi paesaggi, paesaggi che appaiono essenziali, stilizzati in risoluzioni geometriche che si riempiono di tinte assolute, dando al mondo che egli rappresenta una particolare valenza di completezza e compattezza.
Infatti, è proprio il raffronto con alcune opere pittoriche che ci permette di percepire un’analoga sensazione anche di fronte alle incisioni. Le prime opere in tal senso risalgono al periodo in cui operò una sorta di apprendistato nello studio di Pippo Pozzi, durante gli anni Settanta. Avendo in mente il corpus inciso di un altro eccellente arista alessandrino, Pietro Villa, i primi lavori di Annone sembrano parti di un dialogo con costui: entrambi gli autori incentrano la loro riflessione su  una silenziosa celebrazione del quotidiano. Annone, come Villa, non ama gli eccessi . Le loro situazioni sono pervase di calma, e tutto risulta immerso in un’atmosfera  netta e comprensibile nella sua definizione. Forse l’incisione di Annone è più semplice, ma l’effetto è emotivamente di impatto.
Il suo paesaggio è talvolta frutto di sintesi estrema. Si percepisce la realtà di esso dai particolari, anche se essa sembra celarsi continuamente per chiudersi in se stessa e trasformasi in astrazione. Ciò che appare è dunque  una visione interiorizzata, un immergersi in un mondo che viene proposto quasi privo di riferimenti riconoscibili, se non quelli di brevi epifanie di gelsi e abitazione lontani.
Analoga riflessione può essere fatta con la rappresentazione di alcuni luoghi di Alessandria. Anche in questo caso Annone si lascia andare all’evocazione di elementi ricordati, trasformando la città reale in una specie di idillio mnemonico, un idillio nel quale forse prevale l’aspetto onirico della cupezza di un luogo che, nonostante tutto, si manifesta nei limiti di una propria bellezza.