La storia di Auschwitz è complessa. Auschwitz costituì il punto focale di due principi ideologici dominanti del regime nazista: fu il maggior teatro dell’uccisione degli ebrei europei e un luogo di concretizzazione della politica di colonizzazione e “germanizzazione”. L’annientamento e la “conquista di uno spazio vitale” vi si fusero concettualmente, temporalmente e spazialmente. In quanto campo di concentramento, di sterminio e di impiego del lavoro forzato, Auschwitz è esemplare della pluridimensionalità del sistema nazionalsocialista e dei lager. Il collegamento fra il proposito di sterminare e gli interessi di sfruttamento industriale divenne di immediata realtà. La circostanza che la città di Auschwitz, segnata da una secolare tradizione ebraica, sia diventata nella fase culminante del massacro una città “tedesca” orienta l’attenzione sul contesto sociale dei lager e solleva questioni relative alla percezione pubblica del crimine.
Dopo la tragedia raccontata da centinaia di saggi, opere letterarie e testimonianze varie, nel 1946 le autorità sovietiche consegnarono la maggior parte dell’area dell’ex lager all’amministrazione polacca. Organizzazioni di Haftlinge e gruppi polacchi si fecero promotori dell’iniziativa di far erigere nella zona del Lager un museo. Il proposito su realizzò già l’anno seguente. Una legge del 2 luglio 1947 istituì il complesso di Auschwitz-Birkenau come monumento commemorativo statale. Furono organizzate mostre, allestiti un archivio e una biblioteca e si procedette a ristrutturazioni (per esempio nel vecchio crematorio). L’esumazione di salme proseguì fino agli anni Cinquanta. Nell’ex lager di Monowitz, che è tuttora compreso nell’area di una fabbrica, una lapide ricorda le vittime del lavoro forzato. Il complesso dell’ ex lager Auschwitz- Birkenau, che sin dalla sua istituzione come monumento commemorativo fu posto sotto la tutela della sovrintendenza polacca per i beni culturali, nel 1979 è stato assunto dall’Unesco nel patrimonio culturale universale. L’area monumentale registra oggi, ogni anno, poco meno di un milione di visitatori provenienti da ogni parte del mondo[i].
All’inizio, appena entrati all’interno del perimetro del lager, l’atmosfera che si respira a Aushwitz 1 è sicuramente particolare. Ogni blocco, ogni strada, ogni pietra trasmette al visitatore un senso di inquietudine, sprofondandolo in una situazione emotivamente forte. La percezione della tragedia è totale. Procedendo lungo le vie che delimitano i blocchi in mattoni rossi si giunge agli spazi che sono stati adibiti a museo, e lì succede qualcosa, qualcosa di strano che si intuisce come un sussurro, un bagliore che non si sa da cosa sia stato prodotto. All’interno delle camerate vengono proposte al visitatore una serie di testimonianze dello sterminio perpetrato in quei luoghi: fotografie scattate dalle SS ai convogli che giungevano a Birkenau; disegni eseguiti da deportati che raccontano la precarietà dell’esistenza nel campo; foto di prigionieri con la data in cui furono internati e quella di morte; accatastamenti di oggetti, di scarpe, di capelli… Ci si muove osservando quei reperti che hanno assunto un valore immenso per ciò che rappresentano, considerandoli come relitti di vite passate, relitti che emergono da un vortice creato dal tempo e che ci dimostrano nella loro essenzialità simbolica, la morte di chi li possedeva. Oggetti che consolidano e perpetuano la memoria di una vicenda che per la sua enormità deve rimanere sempre presente.
Continuando la visita ecco che il “qualcosa” che si era palesato come un’apparizione, che era rimasto attaccato alla nostra pelle come una ragnatela, diventa più nitido, dando vita a un pensiero provocatorio. Supponiamo di poter slegare il significato degli oggetti dal loro significante, supponiamo di poter accedere alle sale di Auschwitz 1 senza sapere nulla relativamente a quei frammenti di storie: chi o che cosa ci potrebbe impedire di pensare di trovarci all’interno di un percorso espositivo che propone una serie di installazioni e opere d’arte contemporanea?
Quando Marina Abramovic espose alla Biennale di Venezia del 1999 l’installazione “Cleaning the House”, solo per fare un esempio, offrì ai visitatori un’opera che evocava la recente tragedia della ex Jugoslavia attraverso l’insopportabile vista di ossa spolpate che continuarono a marcire per l’intera durata dell’avvenimento. L’emozione era determinata dal coinvolgimento dei sensi che, entrati a contatto con l’installazione, rimanevano storditi facendo intuire la tragedia delle fosse comuni, del ritrovamento dei cadaveri che, cancellata ogni umanità, si stavano riducendo a una X nel ciclo dell’azoto.
Una situazione simile può essere intuita osservando i letti a castello da campo di concentramento (Quarters, 1996) di Mona Hatoum che hanno costituito uno stimolo a riflettere sull’esigenza di pace e di solidarietà.
Due esempi, fra tanti, che ci permettono di giustificare un pensiero che non può non insinuarsi nella nostra mente. Osservando con occhio lineare, senza prendere le dovute cautele emotive, si percepisce che il rischio di Auschwitz 1 sia quello di sgretolare lentamente il suo autentico valore di monumento. Attraversare il portone dominato dalla sinistra scritta “Arbeit macht frei” e confrontarsi comunque con un pubblico intruppato, che vive la propria esperienza ascoltando talvolta le parole della guida che scandisce i tempi del percorso, non dà la possibilità di immaginare il male che per vari mesi trionfò in quei luoghi.
Anche per questo, purtroppo, l’atmosfera che si respira durante l’esperienza del percorso a Auschwitz 1 non è molto lontana da quella che può essere rilevata in molte rassegne di arte contemporanea. Quello che manca, e che dovrebbe essere esatto dal visitatore, è la possibilità di vivere la situazione con maggiore intimità. A Auschwitz 1 non dovrebbe essere associato il termine “museo”. È un luogo che dovrebbe essere considerato quale meta di un pellegrinaggio, il luogo di un martirio da vivere con lo spirito opportuno.
Se Auschwitz 1 induce a riflettere sulla correttezza del rapporto visitatore/Storia/Campo di sterminio, ciò non avviene a Auschwitz/Birkenau. Lì, il campo si presenza in tutta la sua brutale essenzialità. Il Lager è lasciato fluttuare nel nulla, totalmente avvolto dal paesaggio polacco. L’occhio si perde seguendo i pali che delimitano i fantasmi dei baraccamenti, si è avvolti dalla tragedia, proprio perché al visitatore è precluso tutto, non esiste niente al di là dello spazio e del tempo. Allora si è investiti dai propri ricordi personali, si concretizzano pagine di memoriali e saggi, immagini di alcuni film e documentari, le fotografie, tutte le testimonianze che si sono sedimentate nell’animo di ciascuno di noi. Allora, anche gli oggetti che erano ostentati nelle teche di Auschwitz 1, oggetti subiti nella loro allegoria, assumono il giusto valore trasformandosi in ricordo personale, diventando parte di quel bisogno di risposte che non riesce a soddisfare nessuna delle nostre domande.
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