ASPETTI REALISTI NELLA PITTURA DI GUERRA DI PIETRO MORANDO.
I termini di realismo, realista, realtà hanno nell’arte “...un’utilizzazione corrente, ma assai delicata: essi possono, in effetti, definire molteplici gradi di riferimento del reale. Spesso essi sottintendono semplicemente l’osservazione scrupolosa fatta dall’artista del modello rappresentato sia esso figura, viso o natura morta, anche se questo studio conduce ad una composizione allegorica o religiosa. Tuttavia il termine realismo s’impiega più appropriatamente quando l’artista mescola nelle sue opere alla resa fedele delle cose la nobilitazione del mondo quotidiano”[1].
Se queste precisazioni sono assai utili per comprendere il fenomeno del realismo, esse non possono separarsi dal fatto che nella storia della pittura, ogni volta che si parla di realismo, si intende riferirsi sostanzialmente ad un’osservazione diretta della realtà.
Nel secolo appena trascorso la corrente realista trovò alcuni dei suoi momenti esemplari in quei movimenti che, opponendosi a un certo processo di dissolvimento dell’arte, si sono richiamati con forza alla realtà sociale. In Germania sorse negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale il movimento della Nuova Oggettività il quale, in alternativa al processo di destrutturazione formale dell’espressionismo, tendeva a rappresentare la realtà oggettiva nella sua essenzialità con intenti ora di denuncia, ora di satira sociale, ora di fotografica e acritica “oggettività”.
Come esempio di realismo epico/popolare è da ricordare il fenomeno del muralismo messicano. Questo è stato il movimento di rinnovamento della pittura messicana ed ha praticamente dominato la vita artistica del paese fra le due guerre.
Con l’espressione realismo magico, espressione coniata verso la metà degli anni ’30, si designano in generale quelle opere in cui si notano certe influenze del surrealismo. Queste opere hanno di solito in comune una tecnica di riproduzione minuziosa della realtà, resa sconcertante dall’inserzione in un contesto banale di oggetti o di eventi strani o insoliti.
In URSS il realismo socialista non fu solo uno stile e un movimento, ma anche una dottrina estetica ufficiale di Stato a partire dal 1934, in pieno regime staliniano. Questa dottrina fu polemicamente contrapposta alla precedente arte d’avanguardia degli anni 1919/20 e rendeva l’arte uno strumento di propaganda fondato su norme strettamente descrittive e aneddotiche e su una tecnica di tipo accademico.
In Italia è da ricordare in particolare il movimento del Neorealismo che, opponendosi all’arte astratta, affermò la necessità di ricondurre l’arte a forme di immediata comunicazione e a contenuti storici più attuali, come le lotte di lavoro o gli episodi della Resistenza.
Di fronte a quanto affermato sembrerebbe difficile inquadrare in senso realista l’arte di Pietro Morando[2], sembrerebbe difficile dimostrare i contenuti realistici del suo operato. Infatti, riflettendo sugli elementi estetici che hanno caratterizzato l’arte italiana del Novecento, e volendo, per assurdo, dare un’etichetta all’opera e alla vita di ogni artista, è obiettivamente difficile trovare in Italia un movimento di tipo realista paragonabile alla Nuova Oggettività tedesca o al Realismo Socialista sovietico nel quale inserire Morando. Eppure, osservando un certo gruppo di suoi lavori, Morando sembra essersi addentrato – più o meno consciamente – in quel tipo di produzione realizzando opere che possono essere incluse in un più ampio discorso realista europeo.
Possiamo pensare che Pietro Morando negli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si cimentasse anche con dei soggetti realisti. Scorrendo la puntuale biografia di Francesco Sottomano[3] si rileva che il pittore alessandrino, nel 1913, fosse a Milano ospite, dopo un soggiorno all’Albergo Popolare, di Angelo Morbelli. Era il Morbelli paesaggista, ormai lontano dalla produzione sociale, un Morbelli che comunque discusse con Morando, dandogli delle indicazioni tecniche e, probabilmente, dei riferimenti etici che, tenendo conto del carisma del maestro, formarono la personalità di Morando. Non è dunque sbagliato ammettere che Morando si dedicasse alla rappresentazione e al racconto della vita sociale contemporanea. Nel 1915 si aggiunse prepotente, il tema del racconto della guerra. Fu un interesse che accomunò tutti i paesi coinvolti nel conflitto, dall’Italia[4], Francia, Germania e Gran Bretagna.
Morando, come tanti altri artisti/soldato impegnati sui vari fronti, disegnava in piena autonomia nei momenti di libertà dal servizio[5], impostando il suo lavoro secondo un cliché realista ben riscontrabile in una sorta di “genere” che caratterizzò analoghe produzioni sparse su tutti fronti[6]. L’osservazione delle opere di Morando – i disegni del fronte, e il corpus di 300 disegni prodotti nei mesi della prigionia – evidenzia quel rapporto dialettico tra “realtà” e “ideale” che ha alla base la domanda “come dovrebbe essere rappresentata artisticamente la guerra”. La guerra è una tragedia di terribile e solenne monumentalità che ha pure una sua parte di miserie. “L’artista che sa sentire la tragedia dovrebbe trovare in esse l’ispirazione per un’arte del genere più alto; l’uomo che riesce a vederne soltanto l’aspetto miserabile non ci restituirà che orrori.”[7]. L’anonimo redattore che scrisse questa frase probabilmente pensava alla mancanza di ideali di alcuni artisti, pensava ad una produzione di immagini legate a quelle miserie da realtà quotidiana. Però, nel caso della guerra non furono gli artisti a darsi un tema, fu il tema ad imporsi, e i punti di vista dei singoli artisti, su cui influivano forti motivazioni politico-ideologiche, accanto a ragioni estetiche o di poetica, portarono alla messa a fuoco di una quantità di soggetti all’interno del tema stesso, soggetti espressi con linguaggi differenti che evidenziavano ora il sentimento che spingeva i soldati a combattere, ora a rappresentare documentaristicamente, in modo più o meno brutale, fatti particolari.
Morando del conflitto aveva avuto un’esperienza diretta. È probabile che anche per lui – come per molti altri – tale esperienza modificò certe idee iniziali sulla guerra e agì sul modo di esprimerle. I disegni del 1916[8] presentano un realismo essenziale, quasi illustrativo cui si aggiungono, negli anni successivi del conflitto, elementi più duri, più freddi, più oggettivi. Dal punto di vista stilistico, come ha anche osservato Albino Galvano[9], in questi disegni è ossessiva la presenza del filo spinato. Esso è percepibile come un sottile filo astratto, dove esso diventa simbolo della disumanità distruttrice. Della sperimentazione delle avanguardie, questo nuovo realismo morandiano conservava soprattutto il senso della semplificazione geometrizzante, della sintesi formale, dell’individuazione acuta degli elementi forti di ogni immagine. Il tutto sembra essere svolto in funzione narrativa, dove un certo distacco dall’oggetto della rappresentazione, da testimone oculare, non sempre riusciva a nascondere un’intensa partecipazione emotiva. Tra i temi spesso affrontati da Morando ci fu quello della solitudine dell’uomo soldato immerso nella guerra, momento in cui l’uomo sembra confondersi con il paesaggio sconvolto dalla guerra, diventando mucchio di terra, reticolato o brandello esploso.
È stato probabilmente l’acume, l’osservazione da un punto di vista privilegiato, a determinare il successo di critica per i disegni del 1916/1918, esemplari prodotti di un artista isolato che, per certi versi, in Italia, potrebbe essere considerato uno dei pochi autentici pittori della Prima Guerra Mondiale.
Nel 1937 Pietro Morando realizza dieci affreschi nella cappella sottointerrata della Casa del Mutilato di Alessandria[10]. Si tratta di una serie di santi guerrieri e un trittico nel quale è rappresentato la partenza del soldato, il combattente, il ritorno del mutilato[11]. In queste opere sembra di ravvisare almeno due riferimenti: il primo relativo al muralismo messicano, le cui opere furono probabilmente osservate direttamente dal pittore durante il suo viaggio del 1928[12]. Il secondo alle esperienze che Mario Sironi, durante tutti gli anni Trenta del Novecento, impegnò nella decorazione murale[13].
Quello di Morando fu un impegno cui si dedicò con fermezza e coraggio, affermando, proprio in chiave sironiana, una sua propria concezione di unità delle arti. Si trattava di un’esperienza che altrove aveva già trovato larga applicazione. Nel Messico, come già affermato, tre pittori, David Siqueros, Diego Rivera e José Orozco, dopo aver proclamato “di non voler richiudere le proprie opere nei musei dove solo che ha tempo può andarle a vedere, ma non certo la gente che lavora”, avevano deciso di operare in tutti i “posti dove si raccoglie la gente che lavora”[14], affrescando ampie superfici di pareti di palazzi pubblici con motivi della storia e del folklore del proprio paese.
È chiaro che l’Italia del 1937 era ben differente dal Messico degli anni Venti, e il discorso ideologico che affrontò Morando partiva da presupposti assolutamente divergenti. Morando, in fondo, non faceva che riprendere dei soggetti che aveva già elaborato vent’anni prima. Egli rievoca quello stesso mondo nel quale si trovò a vivere durante la guerra, riprende gli stessi temi mondandoli di quei contenuti brutali più autentici e sentiti, per approdare ad una situazione idealizzata nella quale però resta un realismo di fondo, come appare più evidente soprattutto nella parte del trittico nella quale è affrescato il ritorno del mutilato. In questo lavoro, dunque, non è tanto il modo di rappresentare la situazione che si presta ad una valutazione in chiave realista, quanto l’evocazione di una situazione che individua nell’evento bellico un motivo di disagio e – se vogliamo – una sorta di mea culpa della società.
Morando, per la concezione generale dell’opera, si è ispirato ala tradizione italiana, medievale e primorinascimentale. Dal lavoro emerge una vena narrativa significativa, un altro modo per affermare di essere realista in quegli anni. Il tenore della rappresentazione degli eventi di guerra è spostato ad una dimensione privata, sommessa, lievemente stupefatta, di fronte alla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei comportamenti normali in una situazione di assoluta eccezionalità. Morando, nonostante il clima gonfio di retorica, risulta interprete sottile, privo di fierezza patriottica. In quest’opera, la Grande Guerra non è vista come guerra moderna, è un evento senza tempo i cui protagonisti sono gli uomini e le donne, o meglio, i figli e le madri, tema che il pittore alessandrino riproporrà a più riprese nella produzione successiva[15].
[1] Therese Burollet, voce Realisme, in Petit Larousse del la Peinture, vol. II, Parigi, 1979.
[2] Pietro Morando nasce ad Alessandria il 5 giugno 1889. Nel 1910 partecipa per la prima volta ad un’esposizione pubblica e poco tempo dopo entrerà in contatto con Angello Morbelli: sarà un periodo interessante per la formazione di Morando, un periodo che lo avvicinerà ad artisti come Cesare Tallone, Emilio Ranzoni e Gaetano Previati. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si prodigherà nella propaganda per l’arruolamento. Egli stesso partirà volontario, gli sarà dato il grado di sottotenente di complemento nei reparti d’assalto.
Al ritorno dalla guerra, ha già prodotto una serie di disegni di argomento militare, disegni importanti che sembrano sottolineare una nuova sensibilità molto meno “interventista”.
A partire dal 1921 si susseguono le mostre a lui dedicate, mostre importanti che delineano il profilo di un artista a tratti complesso, ma molto coerente nella produzione. Da segnalare nel 1937 la realizzazione di dieci affreschi per la Cappella della Casa del Mutilato di Alessandria. Altri eventi biografici rendono sempre più importante la presenza nel mondo dell’arte di Pietro Morando, un’importanza purtroppo limitata al contesto provinciale, forse determinata da una cattiva pubblicità di se stesso, o più verosimilmente all’incombente presenza di consiglieri e di falsi amici che, approfittando del maestro hanno fatto circolare una quantità spaventosa di opere – spaventosa anche dal punto di vista estetico – dei disegni orribili che, solo firmati da Pietro Morando, hanno finito spesso per vanificare un discorso artistico decisamente superiore.
Muore ad Alessandria, il 24 settembre 1980.
[3] Francesco Sottomano, Pietro Morando, 1889-1980. Vita e opere, in: catalogo della mostra Omaggio a Pietro Morando, opere dal 1920 al 1970, Alessandria, maggio/luglio 1999.
[4] Tra gli artisti italiani, oltre ai Futuristi, si ricorda soprattutto Romano Dazzi coi sui disegni del 1918, eseguiti sulla base di cartoline, fotografie o filmati d’epoca.
[5] Francesco Sottomano, op. cit. “Morando si arruola volontario nel corpo speciale degli Arditi e sarà ufficiale di complemento di fanteria e nei reparti d’assalto. Combatte sull’Isonzo, a Gorizia, sul Carso, dove viene ferito due volte, a Oslavia, Sabotino, San Marco, San Michele. Gli vengono conferite tre medaglie al Valor Militare. Nel luglio 1918 viene fatto prigioniero sul Piave e deportato nel campo di concentramento di Nagjmegjer in Ungheria. Tenta la fuga insieme con 42 ufficiali italiani, viene ripreso in territorio rumeno e condotto nel campo di punizione di Komarom.
[6] Antonello Negri, il Realismo. Da Courbet agli anni Venti, Laterza, Bari, 1989.
[7] Antonello Negri, op. cit.
[8] Albino Galvano, Per Pietro Morando, in: Pietro Morando (opera Grafica), Acqui Terme, 1972 (già introduzione della cartella edita in Biella da Sandro Maria Rosso, 1965, un’edizione che per la prima volta ha raccolto e pubblicato una serie di questi disegni). Galvano specifica che questi disegni furono realizzati tra il 1915 e il 1918. Essi, sempre secondo Galvano, furono visti per la prima volta nel 1924.
[9] Albino Galvano, op. cit.
[10] Gli affreschi furono staccati dalle pareti della cappella negli anni Settanta, e ora sono custoditi presso i depositi della Cassa di Risparmio di Alessandria.
[11] Francesco Sottomano, op. cit.
[12] Nell’articolo di Luigi Carluccio per il catalogo della mostra torinese di Palazzo Lascaris del 1976 viene sottolineato che:”...nel 1928 inizia un lungo viaggio oltre Oceano, negli Stati del Sud e poi nel Nord America”.
[13] Mario Penelope, Sironi. Dal Futurismo al Dopoguerra, Il Cigno Galileo Galilei, Roma, 1990.
[14] C. Brook, Orozco, Rivera, Siqueiros. Muralismo messicano, Giunti, Firenze, 1994.
[15] Luigi Carluccio, op. cit. Il critico ricorda il riquadro dal titolo la Radice del Male, “dove una donna, che ha perduto in guerra il compagno o il figlio, esprime la rabbia di tutte le spose e di tutte le madri e spacca il fucile sulle sue ginocchia, con un gesto antico e famigliare di chi spacca un legno morto da gettare nel fuoco”.