martedì 27 novembre 2012

il castello errante a casale

Il castello errante.
In un certo senso, per me raccontare una storia è sempre una
 sorta di viaggio spirituale, dove però rimani te stesso, cresci,
impari qualcosa e passi al livello successivo. È questo quello che
conta per me. E io lo applico al cinema, come nella vita normale.
Tim Burton

Agisci in modo che ogni tuo atto si degno di diventare un ricordo.
Immanuel Kant

Il castello errante di Howl (ハウルの動く城, Hauru no ugoku shiro) è un film d'animazione giapponese del 2004, diretto da Hayao Miyazaki e prodotto dallo Studio Ghibli. La sceneggiatura è adattata dal romanzo omonimo del 1986 di Diana Wynne Jones, pubblicato in Italia nel 2005 da Kappa Edizioni.
Il film presenta molte delle caratteristiche tipiche delle opere di Miyazaki: ha come protagonista una ragazza, come Nausicaä della valle del vento, La città incantata, Laputa: castello nel cielo e Kiki consegne a domicilio, ed ha un'ambientazione che ricorda nei vestiti e nell'architettura l'Europa degli inizi del Novecento, ma in un mondo in cui è presente la magia. Gli avvenimenti si svolgono in una nazione fantastica che ricorda l'Alsazia degli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Molti edifici delle città sono identici a quelli della città alsaziana di Colmar, che Miyazaki ha riconosciuto come fonte di ispirazione per l'ambientazione del film. L'ambientazione che riecheggia la Vienna imperiale dell'800 nonché le automobili e le macchine da guerra volanti che vi si vedono, tutte mosse dalla forza del vapore, caratterizzano l'opera come appartenente al filone steampunk[1].
Il film è stato presentato in concorso alla 61ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ed è uscito nelle sale italiane il 9 settembre 2005; fra le altre cose, con questo film il maestro ha ottenuto il Leone d'oro alla carriera, risultando l'unico produttore di film d'animazione a conquistare sia l'Oscar che il Leone d'Oro[2].
Non è casuale il fatto che si sia pensato a un titolo che è la palese citazione di un famoso film di animazione. Non è casuale, perché questo film rappresenta un unicum nella storia del cinema, per il fatto che, tra le altre cose, la critica ne ha riconosciuto il valore artistico, “sdoganando”, per così dire, la produzione di film d’animazione giapponese, che fino a allora era ritenuta in modo un po’ snob, priva di qualunque contenuto estetico.
Questa situazione riflette un po’ il destino dell’arte cui lavorano gli autori protagonisti di questa rassegna. Infatti, ci troviamo di fronte a un’esperienza postmoderna che solo da qualche anno è stata accettata come forma d’arte. Essa è però carica di significati, improntata a una fruizione condivisa su supporti che fino a qualche tempo fa erano impensabili come “spazi espositivi”. È solo un caso, proprio come un “castello errante” che essa si fermi in uno spazio pubblico tradizionale: essa si muove a prescindere, essa viene fruita da un numero enorme di persone, proprio come un cartone animato, come un graffito su un vagone di un treno.
Robert Williams, giovane giornalista di Los Angeles, scrivendo qualche anno fa un articolo sulla rivista “Juxtapoz”, ha inventato il termine Lowbrow art per etichettare questo tipo di attività artistica, in opposizione al termine “intellettuale” e per identificare una produzione che nessuna istituzione avrebbe autorizzato a esporre. È un termine che arriva dalla strada, dalla sottocultura punk, assolutamente efficace per definire un surrealismo astratto contaminato da cartoon.
Mai come di fronte a questi argomenti sono assalito da una strana curiosità. Si ha la netta impressione che addentrarsi in questo argomento significhi accedere in una specie di Luna-park. Si deve liberare la mente da ogni categoria estetica tradizionale, pensando di farsi strada seguendo l’evolversi tabulare di un racconto, un po’ come in un fumetto, un racconto che esprime il senso più profondo della loro arte. a un certo punto ci si rende conto che non è un percorso esclusivamente visivo, perché tutti i sensi sono coinvolti nella costruzione del significato della loro arte. Ecco la musica, un ritmo ossessivo di cimbali e tamburi. Voci stentoree di rappers che urlano da altoparlanti evidenziando le contraddizioni di una società che oscilla tra derive rivoluzionarie e l’ostentazione di una malsana opulenza. Un’atmosfera pesante contrasta con i colori sgargianti degli zuccherosi dolcetti. È una sorta di main street circense, un ruvido fondale di legni effimeri assolutamente identico a una scenografia hollywoodiana.
Il Luna-park è l’allegoria di questo modo di fare arte. Esso viene sistematicamente montato e rimontato in modo da creare una struttura labirintica di difficile percorribilità che sembra mescolare città ideali e ucronie. In questi artisti penetra a fondo la volontà di demistificare l’attitudine romantica con la manifestazione di una presenza forte nel mondo. Colori vivaci, semplici, che inevitabilmente richiamano atmosfere underground. Lo spazio è domato e utilizzato con consapevolezza e improvvisazione. Nelle opere c’è un intreccio continuo di street art, pop surrealism  e tradizione. Il linguaggio è essenziale eppure caotico, la figurazione è quasi fumettistica e costruisce comunque una storia.
Gli artisti che espongono in questa mostra appartengono a una generazione che ha assistito, forse anche partecipandovi, a una sorta di “rivoluzione culturale”. Costoro hanno assimilato i  modelli della cultura del consumo, sono cresciuti all’ombra di una certa pubblicità dirompente e invadente; hanno letto i manga; hanno discusso di biotecnologia e cibernetica confrontandosi con i contenuti di certi cartoons nippo/americani; hanno camminato per strade chiuse da muri adoperati come supporto per graffiti urbani di enorme impatto visivo; hanno offerto le loro pelli per tatuaggi e piercing.
Di fronte a queste opere, schiette e piene di ironia, si ha l’impressione di una enorme capacità artistica pronta a sostituire ciò che ormai da anni è inteso come elemento fondante della nostra società. L’estetica cui essi fanno riferimento sembra lontana dai cliché tradizionali, eppure essa non manca di quello stesso background culturale che ha animato le correnti che hanno fatto riferimento a Duchamp, e poi a Rauschenberg e a Warhol, e che hanno saputo ridiscutere quei valori che, una volta acquisiti, sembravano impossibili a essere scalzati.
In questi lavori c’è una freschezza palpabile, c’è una capacità di resa cromatica che attinge a piene mani dalla lezione Pop, soprattutto dall’ambito di quelle tinte “glassate” tipiche della produzione di Jeff Koons o di Haruki Murakami, latori e maestri di quel nuovo linguaggio che, razionalmente, fa riferimento a modelli di consumo e a relitti di una società che cambia in continuazione. È chiaro, infine, che questi artisti sono l’evoluzione resilienziale di Cattelan, De Dominicis, Cella , Abate, Ceroli, Gilardi, solo per citarne alcuni, ai quali devono molto, e dei quali hanno saputo ridefinire e reinterpretare personalmente parti del linguaggio, divenendo a loro volta eventuale esempio dai quali attingere.

MAX FERRIGNO
L’attività pittorica di Max Ferrigno è ormai da anni rivolta all’approfondimento dei temi del Pop surrealism. I suoi soggetti raccontano un mondo che sfiora l’espressionismo, i suoi personaggi sono precise rielaborazioni figurative che sembrano provenire dal mondo del cartoon e si muovono in spazi metafisici. I colori di Ferrigno sono sovraccarichi, brillano di una luce insolita, come gli inchiostri di certa fumettistica disneyana. Il carico di ironia che pervade i suoi lavori è palese. Egli propone in continuazione situazioni che stravolgono una realtà che diventa, per questo, sempre più sfuggente. L’opera di Ferrigno si pone come indagatrice di un modello in cui gli aspetti umani, irreali nella loro rappresentazione, sono l’evocazione di verità non viziate dalla sovrabbondanza di certe aspettative che, proprio perché alternative e illusorie, non coinvolgono nessuno, se non i più sprovveduti che non riescono a scindere significato e significante della sua opera. Le sue opere sono da interpretare come dei segnali che riconducono alla realtà, proprio come nei cartoon che, travalicando completamente gli aspetti tangibili del mondo, si pongono come metafore dell’esistente.

NICOLA ALBERTIN
Il lavoro di Nicola Albertin sembra procedere con l’intento di ridurre opere più ampie in frammenti di indefinibile grandezza, non perché esse vengano tagliate, ma perché Albertin si getta sopra di esse scandagliandole, quasi stesse adoperando uno zoom e si concentrasse su una determinata porzione di spazio che egli possiede nella sua mente come totalità. Il segno viene così a esprimersi attraverso il colore, valicando i confini di quelli che potrebbero essere i valori che si nascondono in esso. Il flusso cromatico scorre  creando forme evanescenti che paiono disgregarsi in sottili sfumature. La pittura di Albertin riflette sullo spazio, adattandolo a un ambiente immaginario che pulsa di vita propria. Il colore non si appiattisce e lascia scorrere una visione in profondità che raggiunge angoli inesplorati di questi frammenti di universo. La dimensione che Albertin rappresenta è infinita, in quanto non limitata nello spazio-tempo del visibile. Il vedere diventa meta visivo, ponendosi come superficie compiuta che si apre di fronte ai nostri occhi come astrazione fortemente spirituale.



[1] Lo steampunk è un filone della narrativa fantastica-fantascientifica che introduce una tecnologia anacronistica all'interno di un'ambientazione storica, spesso l'Ottocento e in particolare la Londra vittoriana dei libri di Conan Doyle e H. G. Wells. Le storie steampunk descrivono un mondo anacronistico - a volte una vera e propria ucronia - in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) anziché dall'energia elettrica; dove i computer sono completamente analogici, o enormi apparati magnetici sono in grado di modificare l'orbita lunare. Un modo per descrivere l'atmosfera steampunk è riassunto nello slogan "come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima". (Wikipedia, voce “steampunk”).
[2] Wikipedia, voce “il castello errante di Howl”

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