Dopo un breve periodo di inattività, la Galleria Lara e Rino Costa è ritornata a proporre un’interessante rassegna di sculture. In questo modo i galleristi tornano a ribadire la loro intenzione di proporre artisti raffinati con alle spalle un unanime riconoscimento di critica. La presentazione di questi lavori è estremamente elegante, immersi nelle luce diffusa dello spazio valenzano, capace di esaltare le peculiarità di oggetti a prima vista “non facili”, ma sicuramente dotati di una bellezza intrinseca che li rende ipnotici e convincenti.
È il caso del minimalismo di Giuseppe Spagnulo, il cui parallelepipedo in acciaio modifica la propria forma originaria subendo il risultato di una forza esterna che sembra volerne strappare delle parti, non mancando di mostrare le tracce di questa violenza subita.
Interessante l’esoterico lavoro di Vettor Pisani, lavoro che rimanda ai riti massonici, che invita a prendere coscienza della sottilissima rete di misteriosi segni e allegorie, propri di un linguaggio particolare che contribuisce a creare un discorso simbolico del quale riusciamo a percepire solo uno dei lati delle innumerevoli sfaccettature.
La scultura di Adriano Visintin spicca per l’accentuazione delle forme sinuose che all’interno della rappresentazione dei suoi corpi assumono una notevole importanza. I piccoli spazi vuoti che determinano la percezione delle membrature diventano materia scultorea a pieno titolo e la scultura diventa anche forma dello spazio esterno da cui è compenetrata. In questo senso appare chiara la sua natura di metafora dell’archetipo femminile.
Piero Fogliati è presente con una macchina che attraverso lo sfregamento di molle che si allungano verticalmente verso terra, produce un suono. Esso entra a contatto con lo spazio dilatando la materia tangibile e facendo diventare il suono parte della scultura stessa. Si tratta di qualcosa che va al di là della concezione tradizionale della plastica, determinando un prodotto che ci appare estremamente accattivante nel suo valore intellettualistico.
Umberto Cavenago crea, come afferma Renato Barilli, dei simulacri di oggetti utili, indirizzandoli verso fini ludici, facendoli diventare delle specie di balocchi. I suoi oggetti, infatti, risultano estremamente semplici nella struttura, e, proprio per questo, sono dotati di una forza estetica che si comprende chiaramente solo dopo aver meditato sulla forma che li caratterizza.
Giuseppe Maraniello adopera lo spazio appendendo l’oggetto a un sottile filo che lo rende aereo, fluttuante nell’atmosfera. Il filo diventa così l’asse sul quale si sviluppa la scultura, offrendo una concreta sensazione di leggerezza che permette, in questo caso, alla barca di navigare su un immaginario mare di eternità poetica.
Eliseo Mattiacci è presentato con un lavoro “povero”, successivo allo spazialismo che sembra meglio esaltare le sue capacità estetiche. Giuseppe Uncini è caratterizzato da un valido omaggio “edile”, un frammento di lamina in acciaio su cui sono saldati alcuni tondini nello stesso materiale. È un artefatto che permette la percezione dell’anima del materiale. La flessione della superficie induce alla comprensione di un ricamo nello spazio, all’evidenziazione di quell’ombra che per un attimo corre sulla materia. La mostra è infine completata anche da opere di Carlesso, Enzo Castagno e Emilio Isgrò.
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