Di solito, quando in arte si immaginano gli strumenti musicali dipinti, essi appaiono come elementi che si inseriscono nel contesto di “nature morte”. Forse il motivo è dovuto all'influenza dell'opera di Evaristo Baschenis. Egli seppe riflettere sul realismo di derivazione caravaggesca che combinava immagini di grande virtuosismo pittorico con la monumentalizzazione dello spazio. Nella sua opera gli strumenti musicali si ergono a protagonisti assoluti, simili a attori muti che si preparano alla loro recita. Nei lavori del maestro bergamasco la musica spesso tace, il concerto é già compiuto o avrebbe dovuto essere. Lo strumento musicale è rivoltato e, infine, lo sguardo va sul legno lucido su cui si sta già posando un po’ di polvere.
Dai capolavori di Baschenis sono trascorsi almeno trecento anni e la musica, nel mondo dell’arte, è stata evocata in centinaia di maniere differenti. Anche il tema di questa rassegna di Serravalle Scrivia si connette al discorso della musica. Agli artisti coinvolti non è stato dato alcun obbligo, si è semplicemente chiesto di descrivere con la sintassi dei loro linguaggi la musica, con la libertà di interpretare questo discorso senza alcun limite.
Ciò che è apparso è stato qualcosa di veramente particolare, qualcosa che lascia intuire come i limiti della creatività siano imprevedibili e infiniti. Ovviamente, ciò che deve essere chiaro fin dal primo momento di questa analisi, è che l’arte che cita la musica lo fa con un carattere puramente evocativo. Pertanto, tutto ciò che viene prodotto sulla scia di questo tema, ci conduce a percepire la musica come simbolo, come apparizione che non interessa il senso preposto alla sua percezione, a meno che non si agisca come ha fatto Mirco Marchelli in alcune occasioni, adoperando la musica come componente di un’installazione. Certamente si tratta di una soluzione interessante che con i moderni supporti video e con l’elettronica diventa talvolta indispensabile per affermare l’idea alla base della realizzazione. Marchelli, che ha dalla sua anche l’attività di musicista, propone qui una struttura estremamente raffinata, un’installazione che viene cristallizzata in una teca che sembra bloccare il tempo. La musica è ben presente, come spartito, come strumento e nell’immagine del suonatore che sfuma come un brano lontano. Anche per Mario Fallini la musica è pura citazione. La vibrazione di una tromba provoca la rottura della superficie in vetro che chiude il suonatore e da lì si diffonde il silenzio, in ogni direzione. Solo il silenzio, o meglio, la pausa, secondo elemento del rapporto dialettico che si alterna alla vibrazione, appare reale nella percezione sensoriale, all’interno di un’area che ricorda la pianta a croce greca di un edificio religioso.
Maurizio Barbieri non cita la musica attraverso uno strumento. La sua è una situazione notturna, egli dipinge il Lennox Lounge, un locale newyorkese dove “si fa musica”. È l’atmosfera che assume un preciso carattere di protagonismo. Barbieri si ferma sulla strada e sente una miscela confusa di note che si diffonde nell’aria come l’odore della pioggia, della città o della notte rischiarata da un’insegna al neon. Per molti artisti la musica si lega al Jazz, forse perché come l’arte respira la stessa libertà creativa. Fare Jazz non significa non conoscere la musica, l’improvvisazione è tanto più efficace quanto più si conosce la musica. In questo ambito trovano spazio i lavori di Maurizio Cordara che realizza un ritratto di Michel Petrucciani e di Daniela Petrillo che ci pone di fronte all’immagine di un trombonista. Vito Boggeri, con il suo “Band” propone una figura antropomorfa, un ibrido tra un uomo e uno strumento. Da questo essere escono dei suoni che assumono la poetica forma di stella. È un’opera visionaria, nella quale si uniscono la componente creativa dell’artista e quella prettamente musicale, in quel piacevole miscuglio di sensazioni tipico della pittura di questo artista.
Davide Minetti trova nella musica una particolare dimensione creativa. Sembra che in tutta la sua opera ci sia sempre almeno un elemento che riporta l’osservatore alla musica, sia quando essa è palesemente citata, sia quando egli ci conduce ai paesaggi interiori delle sue astrazioni. In “Crescent”, è la raffigurazione del gesto teso a (ri)creare musica a rivestire il ruolo di protagonista dell’opera: egli cita la musica in quella componente che ritiene totalmente avvolgente, che trasforma lo spazio e il tempo in espressioni prive di fisicità, relegandole a una dimensione esclusivamente emotiva. Giovanni Saldì propone una riflessione sul rapporto tra lo strumento musicale, un violoncello e chi lo suona: volto e strumento si confondono nella viscosità atmosferica dello spazio, prendendo una colorazione simile, diventando parti di un costruzione che non permette di scindere le due componenti che insieme creano il suono. Giovanni Bonardi fa riferimento alla classicità, citando la musa Euterpe. La sua è una libera interpretazione che tiene solo in parte conto dell’iconologia tradizionale. Quello che colpisce è la monumentalità dell’immagine, chiusa in un ocra marmoreo nella parte inferiore del corpo cui si contrappone l’evanescenza di quella superiore, quasi a denotare l’armonia dell’universo che nel suo aspetto transitorio muta continuamente.
L’attività di Ivano Antonazzo è soprattutto grafica. La sua tela fa riferimento al brano di Fabrizio De Andrè “Ho visto Nina volare”. L’immagine è di un video, vale a dire un momento illustrativo della musica contemporanea. Le parole del cantautore ligure prendono corpo in un frammento che focalizza simbolicamente una strofa. La leggerezza del segno di Antonazzo, poi, riesce a evocare efficacemente il dondolio dell’altalena su cui gioca la minuta figura femminile. Cecilia Prete realizza un ritratto di una strumentista che suona il violoncello. L’impostazione è tradizionale, ma proprio questa componente rende il lavoro particolare, collocandolo in una non-dimensione totalmente ripiegata sulla resa del gesto che si fa musica. Lorenzo Boioli si rivolge alla tradizione occitana. Egli individua tre tipologie di suonatori che compongono un’ideale gruppo folklorico. Ecco che allora emergono i suoni delle valli piemontesi, della musica popolare antica, esempi di una cultura che soprattutto oggi merita di essere valorizzata come esemplificazione storico/antropologica.
Carlo Ivaldi dà alla musica una struttura plastica. Egli la fa vibrare all’interno di un’installazione molto leggera, nella quale dei dischi di metallo appesi a sottili fili di plastica si muovono spinti anche dalle più sottili correnti d’aria. Ottiene un suono appena percepibile, estremamente piacevole che inonda lo spazio circostante. Giovanni Tamburelli compone la propria installazione con una delle sue sedie e quattro piccole tele con altrettanti musicisti. I soggetti ritratti sono quelli tipici della sua produzione, quegli animali tratti dei suoi bestiari che riempiono con allegria la dimensione umana. Pertanto prende corpo in questa opera una dimensione fiabesca, in cui tutto è possibile e in cui tutto può essere letto con lo stesso spirito con cui si affrontano le storie di Esopo e di La Fontaine. Francesca Brugna offre una versione della musica ironica. Il suo punto di partenza è la volontà di creare la bozza di un manifesto per un avvenimento musicale di tanto tempo fa. I colori pastosi e l’evidente glassazione dell’impianto rendono il lavoro estremamente efficace, un po’ sopra le righe, come certa musica che, malgrado tutto, inonda la nostra vita.
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