Può essere considerato un percorso nel percorso: da una
parte l’evolversi dell’opera di Pietro Morando, dall’altra il ripensamento che
alcuni artisti contemporanei alessandrini fanno del suo lavoro.
Antonio De Luca opta per qualcosa di molto contemporaneo,
evita il confronto con l’opera di Morando citando l’immagine del pittore nella
rielaborazione di una fotografia scattata a Venezia, forse in occasione della
sua partecipazione alla Biennale del 1956. La foto è il pretesto per far
riprendere a De Luca le sagome dei due personaggi e eternarli come icone pop.
Vito Boggeri ha in mente l’opera di
Morando e ne estrapola un particolare. Si tratta di una foglia che riesce a evocare un intero universo, un’immagine
che si collega all’albero, quindi alla campagna e infine al mondo dei vinti che
amava raccontare Morando.
Davide Minetti fa riferimento alla fase più drammatica
dell’esperienza di vita di Morando, quando fu combattente nelle trincee della
Prima Guerra Mondiale. Alla base c’è un’operazione proustiana: il ricordo di
quel disegno che gli precipitava addosso ogni volta che entrava nella sala
d’attesa del suo pediatra. Per Minetti quello è Morando, latore di un’immagine
poderosa, così dilatata, così tragica.
Anche Giovanni Tamburelli cita qualcosa dell’opera di
Morando. Egli si sofferma sulle cornacchie, evocando un particolare che ci
riporta alle tele del maestro alessandrino. Le cornacchie di Tamburelli, però,
escono dal quadro e scendono direttamente nella sala a interagire con i
visitatori. Tamara Repetto non si richiama propriamente a Morando. Lei elabora
una situazione, entrando nello spazio intimo, nella vita del pittore,
immaginando un frammento di esistenza capace di diventare mito. Un’esecuzione
scarna, essenziale, proprio come l’opera del maestro.
Mario Fallini mira all’essenzialità geometrica. La sua opera
cita lo spazio metafisico dei paesaggi urbani di Morando, delle facciate che
sorprendono per la loro regolarità. Pensando a Palazzo Rosso, Fallini esaspera
il colore della facciata, lo fa esplodere, sovrapponendosi alla scabra
linearità morandiana. Mario Annone risulta più sironiano piuttosto che vicino a
Morando. Probabilmente dietro a questa tela si nasconde la volontà di
dimostrare la presenza di tanti Morando nell’evolversi della sua carriera.
Massimo Orsi ricorre al suo segno caratterizzante per costruire un dittico in
cui trovano posto frammenti sparsi dell’opera di Morando. Un suggello collocato
alla fine del percorso teso a contenere tutto quello che si è visto.
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