Ognuno di noi porta dentro di sé un paesaggio: quello di
Romano Demichelis era fatto di linee orizzontali, di luci e ombre che talvolta
esplodevano in gomitoli di segni colorati. In effetti, dalla sua pittura, così
essenziale, emerge in modo evidente il preciso rapporto con il luogo nel quale
si era formato, un luogo fatto di poche cose, soprattutto di ripetizioni, di
rituali che scandivano i ritmi e i tempi di una comunità.
Demichelis ragionava su quello che vedeva e lo esplicitava
lavorando su varie dimensioni. In alcuni casi la sua intuizione si
concretizzava sulla realizzazione immediata di frammenti di carta, di fatto
assemblaggi di campiture dense di colore, paragonabili a dei versi che si
compongono automaticamente e che poi diventano parti di una poesia; altre volte
si trattava di elaborazioni più complesse ma decisamente più diafane, quasi dei
suoni dei quali egli cercava di individuare il senso più profondo.
Di fronte a questi “esercizi di stile” si ha l’impressione
di avere a che fare con il punto di partenza da cui scaturiva l’arte di
Demichelis, la base di una ricerca felice e incosciente, durante la quale
venivano abbandonati i mille spinosi problemi della propria esistenza, del
proprio vivere sociale, per poi ricostruire l’identità globale che l’individuo,
smarrito nella sua dimensione quotidiana, ha ineluttabilmente perduto. Quindi
potrebbe apparire come una contraddizione la presenza di una figurazione
riconoscibile – spesso proposta “in negativo” e certamente collocata in un
ambiente inospitale – in alcuni suoi lavori. Ma a ben vedere, la figura svolge
il ruolo di deuteragonista, limitando il potere assoluto della materia che
compone lo spazio, dando così vita a una sorta di graffito rupestre che cerca
di scandagliare le origini di una comunità, di portare a riflettere su quelli
che sono i termini e i limiti di un percorso culturale che ha comunque al
centro una riflessione sulla natura.
La pittura di Demichelis si accatasta sulle tele in una
specie di horror vacui da cui
fuoriescono alcune ipotesi di paesaggio. Il colore, dopo aver assorbito la
totalità dello spazio, lascia che il composto chimico che lo determina e lo
rende tale si “raggrinzisca” offrendo un’idea corporea, un nucleo, un bozzo che
lascia trasparire un rapporto tra il primo piano e lo sfondo. Esso è
volutamente sottolineato da visibili tratti orizzontali che garantiscono la
rappresentazione della tridimensionalità. L’idea di non fermarsi al tratteggio
del piano semplice lo allontana dall’astrazione pura, egli rimane legato alla tradizione
pittorica, non vuole mettere in discussione la storia, ma vuole calarsi dentro
di essa. Demichelis dimostra una volontà costruttiva, lo fa impostando la sua
pittura su nervature segniche che poco concedono all’evocazione di matrice
astratta. La sua opera è lucida e razionale, essa non assume una precisa
connotazione geometrica ma sembra aspirarvi inconsciamente, imprimendo alla
pittura direzionalità intrinseche, secondo una calibratura non casuale.
Nonostante il palese disconoscimento della sua produzione
del periodo più lontano, coinciso talvolta con la distruzione di numerosi
lavori, riusciamo comunque a scorgere l’evoluzione del suo pensiero. I momenti
creativi di Demichelis si esprimono con
un arricchimento graduale, con la resa di sfumature cromatiche che riempiono lo
spazio di energia misteriosa. Le pennellate, infine, tendono a diventare sempre
più sottili, un brulicare di energie che mirano a stabilizzarsi formando grafie
archetipiche che emergono come reperti e testimonianze di un passato sempre più
remoto.
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