Ormai la critica parla di “croppismo”, neologismo che
individua lo stile di Gabriele Croppi, fotografo piemontese, collaboratore di
alcune importanti riviste di viaggi e autore di scatti che, soprattutto per il
dosaggio del bianco/nero e per la particolarità della luce, come si è detto, lo
identificano immediatamente.
Oggetto dell’ultima indagine è stata la città di New York.
Il romanziere statunitense Don Winslow, a proposito di questa città ha scritto
in un suo romanzo: “persone dappertutto. Veicoli dappertutto. Auto, camion,
autobus, taxi, biciclette. E rumore. Clacson tutto il tempo, grida, musica a
tutto volume, dalle auto e dagli stereo portatili. Penso che la parola adatta
sia cacofonia.” Nelle foto di Croppi
invece c’è silenzio, la presenza umana è ridotta ai minimi termini:
microcosmiche figure che contrastano la pesante ombra degli edifici.
Croppi afferma che i suoi scatti mischiano anarchia e
classicismo. Nel primo caso si tratta dell’apparente incoerenza delle luci che
quasi disorientano l’osservatore. Per spiegare il secondo termine egli ricorre
all’influenza culturale che sta alla base del suo lavoro, influenza che si è
sedimentata attraverso la somatizzazione di immagini che talvolta sembrano
venire fuori dalle fotografie. Croppi, per chiarire meglio questo secondo
concetto, ricorre anche all’aggettivo “realistico”. In effetti, esso può essere
messo in relazione al fatto della riconoscibilità dei luoghi, della loro
identificabilità. Ma la New York City di Croppi non è propriamente “realistica”,
egli racconta invece un frammento di mondo ideale, ridotto a un’essenzialità di
linee che rimanda alla matematicizzazione rinascimentale. La realtà di Croppi è
razionale, anche nell’apparente casualità di ciò che fotografa. Egli non
risponde esclusivamente all’esigenza estetica che si lega all’interpretazione
di un determinato luogo, il suo non è un reportage che si appropria di
immagini. Le sue fotografie sono meditate e è per questo che lasciano da parte
un loro eventuale valore simbolico. La sua indagine è libera e spazia su
un’area dell’esistente enorme, lontanissima dai vincoli evocativi alla base di
una ricerca analogica. Croppi non è mai scontato, sorprende tracciando dei
segni che sembrano unire i suoi scatti alla pittura (Hopper) e alla poesia (Withman).
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