Pietro Morando è un artista che non può essere facilmente
etichettato. Se esiste un suo “marchio”, uno stilema che lo caratterizza, esso
va ricercato nella rappresentazione di quei personaggi spigolosi, in quelle
caricature di uomini che raccontano un mondo di umili, un sottoproletariato che
fa assumere ala sua pittura una precisa connotazione e riconoscibilità.
Le opere di questo tipo – da collocare su un ampio arco
cronologico, forse già dai tardi anni Trenta e sicuramente fino alla sua morte nel 1980 – hanno quasi sempre come
sfondo un paesaggio. Esso è evocato
attraverso i tratti di un albero o da una scansione di edifici: sono elementi
decisamente scenografici, fondali chiusi da un orizzonte netto, una linea
orizzontale, talvolta ondulata dal corrugarsi collinare, su cui è collocata la
presenza di uno o più personaggi. Le loro fisionomie sono standardizzate,
anonimi privi di identità, con pochissimi particolari di differenziazione. Esse
sono frutto della rielaborazione di volti che appartengono alla tradizione,
sono maschere antiche che eternizzano e compattano l’anonimato di tutte le
generazioni di umili che si sono susseguite. Attraverso delle tracce
invisibili, frammenti di memoria che appartengono alla collettività di una
determinata comunità, si percepisce che quelle scene si collocano in luoghi che
lasciano intuire presenze di Alessandria, citazioni di campagne piatte illuminate
da luci zenitali.
È un mondo che ripete i propri gesti, un mondo privo di
qualsiasi caratterizzazione idilliaca, quasi immobilizzato in una sua eternità.
La deformità fisica e l’appartenere a una comunità povera, rende questa pittura
dolorosa. Ma assieme al dramma collettivo di questi umili, collocati dal
proprio destino ai margini della Storia, Morando ne rappresenta la dignità. La
sua pittura è una sorta di testamento lasciato da persone che devono affrontare
i cambiamenti, le paure, l’isolamento, il rifiuto. Sono immagini che spesso
lasciano intuire la propria fisicità: sono infatti gli uomini e le donne a riempire
gli spazi, con la loro forza e la loro consapevolezza. È una pittura carica di
pathos, non propriamente pessimista, anche se l’unica manifestazione di
speranza che si intuisce è offerta da brandelli di ingenua spiritualità
religiosa, priva di speculazione, mai diversa da quella che si raccontava nelle
cascine e nelle soffitte abitate dai vinti di tutti i tempi.
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