domenica 31 maggio 2015

garbi, bruckmanss e goffi: ipotesi di messinscena

La fotografia è un mezzo espressivo attraverso il quale si possono fare numerosissime sperimentazioni con altrettanti esiti. Le ipotesi proposte da Roberto Goffi, Martin Bruckmanns e Cinzia Garbi in questo allestimento, costruiscono una sorta di dialogo incentrato sulla messinscena, o meglio, su quel modo di inventare delle situazioni per le quali il soggetto fotografato si presta a offrire una sorta di interpretazione della realtà interagendo con essa.



Cinzia Garbi pone la sua modella di fronte a un’opera d’arte con cui crea un rapporto simbiotico. L’esito, attraverso un’azione meta-artistica, permette alla fotografia – che assume una propria connotazione artistica – di citare l’opera d’arte che viene utilizzata come elemento creativo di completamento e ridefinizione dell’opera fotografica.



Martin Brukmanns ricava le sue immagini estrapolandole da una pellicola in Super 8. Esse rivelano all’osservatore qualcosa di inaspettato poiché esplicitano una realtà che si cristallizza in un determinato particolare. Esso, all’occhio, sarebbe di fatto invisibile, in quanto la nostra mente avrebbe solo potuto intuirlo in una serrata serie ininterrotta di sequenze. Bruckmanns propone invece immagini isolate, fredde con colori sgranati e innaturali, quasi degli scatti che, all’epoca dell’analogico, i dilettanti ottenevano puntando l’obiettivo dal finestrino di un’auto in corsa.




Roberto Goffi costruisce il suo percorso lavorando sui gessi bistolfinai del Museo Civico di Casale Monferrato. Ciò che ricava è estremamente vicino all’estetica dell’artista casalese, dotato di quel carico di drammaticità che appartiene all’idea stessa di quel tipo di scultura. La pellicola di Goffi è capace di far emergere come dei bassorilievi le immagini di Bistolfi attraverso il sapiente gioco di luci e ombre che esalta scenograficamente i volti liberty modellati dallo scultore casalese.

domenica 3 maggio 2015

le sculture architettoniche dei bonzanos

La produzione di sculture architettoniche e installazioni del Bonzanos Art Group cattura l’attenzione per l’efficacia del percorso creativo. I Bonzanos Art Group procedono su due livelli: il primo è prettamente bidimensionale e può essere identificato come una forma di elaborazione fotografica; il secondo è plastico e verte sulla realizzazione di corpi umani – o di parti di essi – con sottili e malleabili fili di rame.



Il primo nucleo produttivo sembra affondare le sue radici nell’arte tardo rinascimentale. I Bonzanos sembrano riflettere su quel tipo di produzione concettista che tendeva a evocare qualcosa attraverso la mistificazione. Nei loro lavori nulla è mai quello che sembra poiché le forme che compongono le figure si modificano a seconda del punto da cui le si osserva. Esse possono sembrare dapprima trame di tessuti che successivamente si evolvono in altre figure che determinano diversi approcci alla realtà.




La scultura tout court si compone di parti che illusionisticamente si assemblano creando strutture complete. L’illusione è determinata dalla volontà di appoggiare la parte di corpo su uno specchio che offre una parvenza di diafanità e permette il dilatarsi della forma fino a comporne un’altra più completa. Il corpo così creato si carica di numerosi elementi ideali, ponendosi come cristallizzazione di movimento di una danza che trasmette fisicità e armonia. In queste sculture, come affermato da Linda Kaiser, composte di fili di rame intorno a corpi senza scheletro, si può afferrare un equilibrio leggero, la ricerca di una metà ideale da ricomporre nelle lastre specchianti di acciaio.


giovedì 16 aprile 2015

bersezio e ivaldi, dialogo tra materie

È un dialogo estetico di grande interesse e equilibrio quello tra Enzo Bersezio e Carlo Ivaldi, un dialogo tra elementi poderosi che, pur mantenendo la loro connotazione materica, riescono idealmente a compenetrarsi creando una visione complessa che nasce all’interno di una cultura che vuole sviluppare l’opera d’arte totalmente, facendo leva su dei materiali che tradizionalmente sono legati o alle cosiddette arti minori, o a branche dell’arte diverse da quelle pensate come propriamente plastiche. Bersezio e Ivaldi sembrano allora interagire per creare un progetto logico di giustapposizioni che trasformano lo spazio espositivo in un’area in cui le forme si modellano come segni di legno e ferro.



L’opera di Bersezio, forse anche per le caratteristiche intrinseche del legno, materiale sul quale si è ultimamente sviluppata la sua ricerca, tende a insistere sulla verticalizzazione. Il grande tepee, per esempio, è molto di più che una citazione della cultura nativa americana, poiché fa riferimento al mondo nella sua totalità. Lo scheletro della capanna è un asse che regge il mondo e che congiunge il cielo alla terra e che rende possibile la comunicazione fra essi, conducendo fino al sole. In più la materia stessa adoperata da Bersezio, levigata come se avesse vissuto il destino di un relitto trasportato dalle onde, ci rimanda al senso stesso del passare del tempo, al modellarsi delle cose che si adattano a nuova vita completando un circolo di grande valore evocativo.




Carlo Ivaldi inserisce i suoi lavori in una sorta di percorso che prende inizio all’aperto. Queste sono opere adagiate sul terreno, quasi a mimetizzarsi con la natura. Sono opere che hanno il colore della terra e che appaiono come frammenti di antichi interventi umani. Per questo, anche il lavoro di Ivaldi ci riporta al relitto, a qualcosa che è stato adoperato e che ha lasciato sulla sua “pelle” il segno del trascorrere del tempo. Sono opere che hanno subito delle perdite, si sono alleggerite talmente da trasformare in elemento compositivo anche  quel vuoto che circonda di materia. Per questo esse possono sollevarsi sfidando la forza di gravità, non più sospese a fili invisibili, ma appoggiandosi a sottili steli o assottigliandosi fino alla diafanità.


mercoledì 1 aprile 2015

inclusioni di renata boero

La stratificazione culturale del genere umano si forma attraverso vari tipi di esperienza. Probabilmente, la più formativa è il viaggio, e il viaggio può avvenire o attraverso il proprio movimento fisico, spostandosi da un luogo a un altro, o attraverso le immagini che altri ci forniscono. In questo caso l’esperienza non sarà propriamente fisica, ma avrà una connotazione totalmente spirituale. Comunque sia, alla base di entrambe le operazioni c’è la volontà di concretizzare un processo mnemonico che ha come fine ultimo la nostra crescita.



Questa premessa per spiegare che alla base del lavoro artistico di Renata Boero c’è una riflessione sul viaggio e sulla lettura di testi pseudoscritti e di immagini che li compongono. Per comprendere questo processo comunicativo conviene concentrasi sulla straordinaria installazione costruita all’interno dell’aula della Sinagoga casalese. Per prima cosa è il nostro olfatto che entra in contatto con l’opera d’arte: esso percepisce il diffondersi e il mischiarsi di aromi che come sinestesie si associano a dei colori. A questo punto sono i colori a diventare protagonisti dell’opera, colori che si dispongono attraverso le forme rettangolari come parti di rotoli di pergamena mimetizzandosi con le antiche modanature della Sinagoga, sostituendo suppellettili non scampate alla furia antisemita e evocando i riti della cultura ebraica.




È la Boero stessa a spiegare che ogni colore, ogni frammento di carta, ogni profumo è la pagina di un libro su cui è stato scritto qualcosa. Se lo specifico di questa operazione, continua l’artista, è la riflessione sul perpetrasi della tradizione religiosa, sulle vite che hanno scandito il tempo di intere comunità, più genericamente, è l’esistenza stessa di ciascuno di noi che si dipana simbolicamente su quelle care accartocciate e colorate. Insomma, conclude, si tratta di  frammenti di memoria che compongono le pagine di un libro che non deve e non può essere distrutto. Ecco allora che prendiamo coscienza di avere di fronte a noi un particolare “libro d’artista” che documenta una contaminazione scandita da una serie pressoché infinita di livelli percettivi.


giovedì 12 marzo 2015

la bugia di luciano bobba e luigi cerutti

"La Bugia" è un breve racconto di Luigi Cerutti. Si tratta di una storia di inganni, o meglio di autoinganni, durante la quale una famiglia, durante tre generazioni, si illude di possedere un tesoro sottoforma di una statuetta di porcellana di una "donnetta". Racconto piacevole, curioso, che nel finale svela una verità che appare ovvia fin dall'inizio, una verità che si ci fa capire l'inganno dell'arte, l'illusione di possedere qualcosa di immenso valore e che invece, assai spesso, cozza con la meno prosaica realtà dei fatti.



Sulla base di questo racconto si è costruito un interessante progetto che ha coinvolto Luciano Bobba, fotografo sperimentatore, che ha, di fatto, illustrato questa breve storia. Bobba è sempre stato interessato dalle nuove tecnologie fotografiche, ha ricercato dapprima gli effetti dell'analogico e successivamente del digitale. Ora lavora esclusivamente con i dispositivi offerti dagli Iphone, costruendo percorsi progettuali di grande interesse estetico.




Lavorando con attenzione e intelligenza, le sue fotografie finiscono per assumere una connotazione pittorica, quasi travalicando il più puro spirito dello scatto. Il suo procedere – in poche parole – è impostato sulla resa degli effetti che il pixel può avere nella restituzione del'immagine, sullo sgranarsi sottile delle cose che si sovrappongono ossessivamente come ricordi sfocati. Quello di Bobba è prima di tutto un lavoro sul tempo, sul fissasi del ricordo che non appare mai nel nitore del presente. Eppure, in questo gioco di riflessi sovrapposti si crea il tessuto di una storia che, in questo caso, riesce a dipanarsi come un film. La gerarchia parola/immagine si mischia, non si riesce più a chiarire quale delle due azioni intellettuali sia subordinata all'altra, se la parola abbia bisogno dell'immagine o viceversa. Le due azioni restano autonome, aggiungendo però preziose informazioni al procedere dei discorsi. Se una delle intenzioni di Cerutti era di "dare concretezza alla bugia", lo ha fatto con l'intenzione evocativa del suo racconto sull'inganno dell'Arte; Bobba invece ha dato concretezza alle parole, imponendo una sua visione che, grazie al suo sguardo, diventa universale.

venerdì 20 febbraio 2015

luci e ombre nell'opera di luigi toccacieli

Non importa come costruisca le sue opere. La sintassi di Luigi Toccacieli è rigorosa. Continuando a adoperare una metafora letteraria, i suoi discorsi sono strutturati in una serrata paratassi in cui ogni segno, ogni colore si coordina perfettamente al resto del lavoro. In questa maniera le sue opere appaiono come dei testi cui non manca nulla.



Nelle incisioni prende corpo in fitto reticolo che sembra intercettare tutti gli spazi. Il senso di profondità, il cambiamento di spessore di singole aree del foglio, è determinato dalla quantità di ombra che si adagia sulla carta. È un’ombra particolare che esalta le parti luminose e abbaglianti dell’incisione, e che sembra volersi ritrarre accettando un ruolo marginale di comparsa. La luce si propone evocando una valenza tellurica, si fa strada come un magma nel reticolo ombroso aprendosi dei varchi che offrono quegli sprazzi di bianco su cui finisce per concentrarsi lo sguardo dell’osservatore. La vista indugia così sul segno che si crea con l’epifania luminosa, lo segue definendo la forza del percorso e l’ineluttabilità di un equilibrio che appare così perfetto, così assoluto.




La pittura è per Toccacieli un ulteriore campo di sperimentazione. Come nell’incisione, egli si pone in primo luogo di fronte al problema della connessione tra il segno e lo spazio. A rendere più esaltante la ricerca estetica dell’artista di Urbino è la possibilità di adoperare concretamente il colore, di concepire un rapporto visivo che, se non condotto con attenzione e criterio, rischia di non arrivare agli esiti voluti. I frammenti di varia natura posti sul supporto (carte sottili, fogli di giornale, cartoni colorati)  sembrano essere sottoposti a una forza centrifuga che potrebbe segnare la loro scomparsa dalla superficie della tela. Alla fine, in un ipotetico percorso in divenire, i colori si dissiperanno nell’universo e ne risulteranno aree monocrome coperte solo da un reticolo: qualcosa di simile al risultato ottenuto con le incisioni, con equilibri differenti ma proiettati, in entrambi i casi, a esplicitare la spiritualità di un percorso di grande valore.


lunedì 2 febbraio 2015

l'evoluzione di enrico francescon

Confrontata con i lavori di qualche anno fa, l’attuale produzione di Enrico Francescon risulta decisamente più “leggera”. I cementi ,realizzati durante il precedente decennio, erano evidentemente più legati alla componente materica e si caratterizzavano come esplicitazione di una forza tellurica che determinava una percezione di decisa corporeità.



Gradatamente ridimensionata questa esigenza, Francescon ha cominciato a ricondurre i suoi lavori in un ambito di maggiore essenzialità giungendo addirittura all’eliminazione della materia nella serie degli acquerelli. In questi,  su sottilissime stesure monocromatiche, sono tracciati dei segni che insistono sulla rielaborazione di evidenti forme geometriche. Se poi si dovesse cercare una costante nel lavoro di Francescon, essa apparirebbe nel dato evidente della pressoché continua citazione del quadrato. In generale, si tratta di una figura dalla ricca simbologia, da mettere in relazione la terra, alla conoscenza razionale. Francescon lo identifica invece come elemento equilibrio, che, internamente alla sua opera, gli evita di far prevalere una dimensione all’altra.




In realtà, escludendo dalla riflessione la serie degli acquerelli, altro elemento che caratterizza l’arte di Francescon è la profondità. In tal caso il quadrato si trasforma in un cubo – o almeno in una sua porzione – e finisce per consolidare la componente costitutiva della sua poiesis. La materia occupa quindi parte dello spazio emergendo compattamente dal fondo e, in particolare in certi lavori, assume una connotazione organica, simile a un magma ribollente bloccato in un preciso equilibrio di forze. Al contrario, nella sua produzione scultorea tout court, Francescon insiste sulla compenetrazione di forme, creando delle piccole strutture che si sviluppano verticalmente. A ben guardarle esse sono un ulteriore sviluppo della riflessione segnica sulla quale sembra si stia direzionando la ricerca di Francescon. Infatti, le piccole composizioni plastiche sono riconducibile a una base astratto/geometrica nella quale la figura subisce un controllo fortemente impostato sul segno, segno che, come si è detto,  rappresenta la base per l’affermazione di un canone dagli imprevedibili sviluppi costruttivi.