venerdì 1 aprile 2016

al margine delle macerie

Esiste un’immagine che possa diventare emblema di questo inizio di secolo? Sono passati più di 16 anni da quel giorno e la velocità con cui si muove il mondo ci rende difficile ricordare anche quello che è accaduto solo poco tempo prima, ci impedisce di mettere a fuoco la successione degli eventi che dal capodanno del 2000 a oggi ha segnato le nostre esistenze.



Quanti sono quelli che hanno applaudito l’avvento del primo giorno del terzo millennio e ora non ci sono più? Quanti sono quelli che non erano ancora nati e adesso stanno cercando di dire la loro? Quanti sono quelli che hanno visto le loro esistenze cambiare? Quanti sono quelli che hanno lasciato situazioni prive di speranza per cercare qualcosa di meglio per se stessi e per i loro familiari? Seguendo il filo di queste domande si profila dunque un’immagine che potrebbe essere il simbolo di questi anni. Un barcone affollato in mezzo al Mediterraneo, volti pieni di perplessità, con negli occhi un’altra domanda: “che ne sarà di me?”.




Soffermarsi su questi volti, cercare di adoperare l’arte per dare una nuova dignità a chi ha messo in gioco tutte le proprie certezze per offrire le proprie forze a una nuova comunità, ecco il senso profondo dell’installazione di Ruben Esposito e Ernesto Fidel. Si tratta di un percorso nei quali i volti sono carichi di drammaticità, e ciò che viene evocato assume connotazioni epiche. I lavori dei due artisti, dei mezzibusti in materiale litico per Esposito e oli su tela per Fidel, lavori che non interagiscono tra loro e che rimangono isolati nella loro essenza, pensati come una risposta che Ruben dà a Fidel, quasi a voler evocare la freddezza e la distanza di chi, convinto delle proprie sicurezze, forte del suo essere cittadino di un mondo pieno di privilegi, dovrebbe accogliere e comprendere, creano gli elementi per una narrazione della vita reale: alcuni di essi sono scampati, sono dei sopravvissuti assorti nei loro pensieri, indifferenti l’uno all’altro, dei nuovi Odisseo che vorrebbero raccontarci le loro storie; altri sono quelli che non vogliono ascoltare, che non riescono a capire che è impossibile fermare la Storia . Ma forse non è necessario che arrivino a tanto, infatti questi volti sono talmente chiari da diventare essi stessi messaggi emotivi – come direbbe il fotografo August Sander –. Le immagini di questi migranti rappresentano il dolore e la sofferenza che hanno subito a causa della cattiveria gratuita e l’ignoranza della gente comune scolpita da Ruben. Forse anche per questo i due artisti non ci presentano le persone a figura intera, essi non lo sono ancora, forse lo diventeranno. Inoltre, Ernesto Fidel realizza dei volti secondo dei precisi crismi accademici, adopera l’oro come nella pittura medievale; Ruben è espressionista, i suoi mezzibusti sono volutamente sgraziati, caricaturali, sono scolpiti nel marmo delle colonne delle chiese. Dal punto di vista estetico, ecco che alla vista si afferma la bellezza somatica e la dignità del “nuovo”, a discapito dell’antico, un rovesciamento di prospettiva che dà un potente ulteriore messaggio all’installazione.


mercoledì 30 marzo 2016

outsider art

Outsider art è una tipologia di arte che, come intuito dal critico Roger Cardinal, identificava certi percorsi estetici collocabili fuori dagli schemi, allontanandosi volutamente dalla prassi dei movimenti e del circuito corrente. Spesso, per sottolineare la peculiarità dell’Outsider art,  si è insistito sulla spontaneità dei percorsi psichici che sono alla base della creazione per paragonare i lavori prodotti a forme di espressione prive di qualunque sovrastruttura e, per questo, assai vicine all’essenza originaria della realtà percepita.



Ovviamente l’idea fondante di questa ricerca estetica nacque grazie all’intuizione di Jean Dubuffet, artista profondamente anticonformista che si è sempre mosso all’insegna della negazione. Infatti l’Art Brut, piattaforma culturale sulla quale si fonda l’esperienza Outsider, si contrappone alle Arts Culturerels, alla “sublimità delle attività superiori”, per giungere infine a qualcosa di non consueto.




Riflettendo sul caso di Dubuffet, quasi spontaneamente, nascono delle domande sulla creatività, sulla realzione “ambigua e complessa –  come afferma il critico Giorgio Bedoni –  tra l’essere umano e la sua opera”. Per questo il percorso proposto nelle sale del Castello Paleologo di Casale Monferrato si dipana tra opere che prima di tutto devono essere intese come fortemente ironiche, configurando un’intelligente testimonianza e una demitizzante rappresentazione della nostra epoca, epoca sempre proposta come un gioco e con uno spirito che, ricordando una definizione data all’opera di Enrico Baj, porterebbe anche questi lavori a essere definiti neodadaisti.


lunedì 18 gennaio 2016

il leviatano carnevalesco di paola bandini

Il lavoro di Paola Bandini è impostato sulla ripetizione di un modulo che, attraverso variazioni formali più o meno marcate, propone una casistica espressiva di notevole interesse plastico. Il singolo modulo, una maschera in ceramica bianca, rossa o nera, sul quale Bandini interviene, determina un volto che sembra richiamarsi a situazioni carnevalesche, e che assume una sua connotazione solo se visto nell’ambito di una installazione complessiva.



Infatti, la forza della sua scultura sta nell’assemblaggio di elementi che concorrono a creare un “uno” che è fatto di “molti”, una specie di Leviatano nel quale è possibile incontrare anche noi stessi. È una rappresentazione di stati d’animo, una piéce teatrale nella quale ciascuno di noi assume nello stesso tempo, sia il ruolo di comparsa che di protagonista.




La dimensione carnevalesco/teatrale sembra  ribadita pure dall’espediente di far scendere dal soffitto simulacri di nastri che ricordano le stelle filanti o i tendaggi di un palcoscenico. Ma la rappresentazione è lontana dal fasto rumoroso della piazza, il pubblico è silenzioso, l’opera è bloccata, è il volto di un mimo cristallizzato in un’unica espressione che, in quanto maschera, diventa immediatamente riconoscibile e universale.


mercoledì 13 gennaio 2016

il viaggio/ritratto di nicola bernardi

“Humans” è il titolo di un progetto fotografico di Nicola Bernardi che racconta un aspetto dei suoi innumerevoli viaggi. “Humans” è il ritratto di persone che vivono la loro quotidianità, è una sorta di reportage sulla vita di uomini e donne immersi in particolari universi  urbani.



Ciascuno di noi, in qualche modo, contribuisce alla storia del pianeta. Il fatto stesso di vivere, di lavorare, o di compiere qualunque attività, ci porta a essere parte di uno straordinario processo evolutivo. Nel discorso di Bernardi è l’uomo – e più in particolare chi fa arte – a porsi al centro dell’universo, è l’uomo con la sua fisicità e la sua spiritualità a trasformare le cose. L’obiettivo di Bernardi assume la connotazione di un occhio che osserva la forza che prorompe dal volto e dal gesto delle persone. Il fotografo, in questo caso, si assume il compito di cristallizzare con un’immagine l’essenza dell’uomo, diventando quasi iconografico e riuscendo talvolta a evocare i suoni e i profumi di un mondo lontanissimo nel tempo e nello spazio.




La figura umana appare così un’entità concreta che si muove all’interno di un percorso che si richiama ai valori del Rinascimento e, come in certe immagini di quell’epoca, diventa oggetto d’arte che è opera d’arte, in una esplosione di gesti che riescono a confermare l’unicità e la bellezza di un lavoro potente e intelligente.


martedì 29 dicembre 2015

il mondo di carlo cane

Esposizione di prestigio, quella cui partecipa Carlo Cane , alla Corey Herford Gallery di Los Angeles, esposizione che condurrà definitivamente l’artista, già fortemente apprezzato in Italia, a quel livello di internazionalità che merita assolutamente.



Il lavoro di Carlo Cane è conosciuto soprattutto perché propone un mondo futuribile, fatto di grandi costruzioni che si innalzano verticali su brumosi cieli senza tempo. Si tratta di un mondo nel quale le persone sono solo evocate, si pensa che esse vivano all’interno di quelle compatte abitazioni, silenziose e ieratiche, che sembrano esistere in un mondo appena successivo a una catastrofe, poco prima che la Natura si riappropri di quanto le apparteneva. La sua ricerca più attuale però sta conducendo l’autore valenzano verso nuove “esplorazioni”, verso luoghi in cui è proprio la Natura a essere l’assoluta protagonista delle tele, una Natura magnifica e magica che, come nelle opere presentate in California, è carica di forza misteriosa che inghiotte fantasmi di case vittoriane trasparenti immerse nella vegetazione.




Carlo Cane è dunque latore di un linguaggio pittorico estremamente moderno, etichettabile come realistico ma che contiene qualcosa di immaginario e simbolico. È una pittura visionaria che propone un mondo onirico al quale ci si avvicina sempre con stupore e interesse.

lunedì 7 dicembre 2015

l'arte di francesco casorati

Uno stile particolare, uno stile fatto di oggetti che si ripetono, che ritornano in molte composizioni e che creano un universo di fantasie richiuse all’interno dello spazio ben determinato del foglio o della tela. In fondo, il mondo di Francesco Casorati è questo, un mondo immerso in una sua personale immagine di natura, fatto da paesi di case squadrate chiusi da un mare solcato da bastimenti.  Si nota una certa ironia nelle sue opere grafiche, disegni e acquerelli, e negli oli, un’ironia sottile che appartiene totalmente anche  - e soprattutto – al personaggio Casorati.



Quando il pittore si raccontava si scopriva la forza della sua arte, un’arte giocata sul filo sottile della poesia, fatta di sospensioni di tempo e di situazioni assolutamente interiori.
Molti hanno definito Francesco Casorati un “pittore di favole”, insistendo sull’aspetto più narrativo e fantastico del suo lavoro.  In effetti, buona parte dei  suoi soggetti induce a pensare che ci si possa trovare di fronte qualcosa che sfugga alla logica e alla razionalità, ma è la forza della costruzione dell’opera d’arte, cioè il collocare ogni elemento nella giusta posizione,  a detenere una consistenza tangibile, una visibilità che inserisce i suoi soggetti all’interno di una struttura equilibrata e regolare.



L’inserzione del colore, la sua apparizione all’interno delle opere, è altrettanto meditata. È soprattutto la forza di una singola cromia a spingere l’osservatore a percepirla come frattura nella composizione e a notarla in quanto colore. Secondo Casorati non è necessario riempire lo spazio di tinte differenti per estrapolare la forza del colore: esso è molto più evidente se tracciato all’interno di una monocromia. Alcune incisioni sono utili per comprendere l’idea di Casorati di colore: a volte una sola linea rossa, sinuosa, spicca nel nero dell’acquaforte e appare come colore assoluto, a prescindere dal pigmento.
Un altro elemento interessante dell’opera di Francesco Casorati è la scrittura. In alcuni suoi lavori essa appare come sfondo, come elemento che circonda l’immagine. Essa non comunica nulla, in quanto ripulita di significati. Al pittore non interessa adoperare la scrittura come mezzo tradizionale di rapporti, ma come espediente grafico, come determinazione calligrafica che fuoriesce dalla matita e si genera come segno e non come suono.



“Finzioni della realtà” fu il titolo quanto mai appropriato di una mostra di qualche anno fa che mai come in quel caso aiutava a comprendere Francesco Casorati. Infatti, in una risposta data a Adriano Benzi, egli chiariva il significato di questi due termini e la loro possibile applicazione artistica, fingendo di essere un ingegnere che progetta le cose e un artigiano che le costruisce, macchine immaginarie inserite in contesti al limitare della realtà.

venerdì 6 novembre 2015

la luce come segno di vincenzo satta

La ricerca di Vincenzo Satta si è sviluppata su due differenti percorsi, uno più teso all’analisi delle geometrie segniche, l’altro inteso a indagare i rapporti tra realtà e luce. Le sue opere spiccano per la diafanità complessiva, per la resa di quel senso di impalpabilità che appartiene alla realtà fisica della luce.




La stesura di pigmenti che egli adopera sembra compenetrarsi allo spazio che circonda la sua tela, offrendo un mezzo che tende ad avvolgere chi osserva. La sua opera risulta essenziale, limitata a pochi tratti che, apparentemente, compongono un’unica immagine. 



Eppure, trascinati da un vortice intenso e piacevole, quei segni che si staccano dal luminoso fondo monocromo, si trasformano in citazioni dotte provenienti da riflessione che il maestro ha compiuto sulle Storia dell’Arte.  infatti, gli spazi di Satta si aprono su visioni pierfrancescane e belliniane e dialogano con le più alte espressioni culturali umanistico/rinascimentali. In sostanza, queste forme risolvono in parte il problema dell’interpretazione della figurazione quattrocentesca riducendola all’essenzialità più estrema. Satta offre la sintesi di un discorso di enorme impatto emotivo che riesce a contenere la totalità di realtà intellettuale attraverso la sovrapposizione evocativa di intensi tratti cromatici.