martedì 11 agosto 2015

picasso, disegni e incisioni a acqui terme

Pablo Ruiz Picasso è stato sicuramente uno dei più famosi artisti di tutti i tempi. Dapprima inventore insieme a Braque di un’avanguardia capace di rivoluzionare il modo di pensare la pittura e la scultura, poi, nonostante l’indiscussa bravura, ripetitore di un sistema  che non nasconde la precisa volontà di diventare brand si se stesso. In effetti, nessun artista ha mai suscitato tanto dibattito sulla sua opera, e ancora oggi non è ancora stato espresso un giudizio definitivo.



L’interesse per la mostra acquese sta nel fatto che si proponga soprattutto un percorso nell’incisione. Picasso conosceva l’incisione, conosceva bene le sue tecniche e sosteneva che tra i metodi comunemente adoperati, il più nobile e il più ricco fosse l’acquaforte. Ma la sua vocazione di sperimentatore lo porta a rivolgersi al linoleum, tecnica che procede attraverso un metodo più artigianale, meno raffinato, che però viene nobilitato attraverso “l’innesto” di elementi presi proprio dall’acquaforte o aggiungendo il colore.
I temi trattati sono quelli tipici dello stile di Picasso, la tauromachia, il corpo umano in genere, la riflessione sulle radici delle culture africana e occidentale, argomenti che vengono risolti riflettendo sull’esito del segno, su come il gesto dell’incidere possa essere basilare per accedere a delle composizioni di grande valore plastico, in particolare su quelle opere scultore e pittoriche tout court.




Il confronto con l’olio su tela risulta così chiarificatore del sistema segnico picassiano esaltato dall’incisione, attraverso l’esecuzione di un soggetto  risalente agli anno ’60, un soggetto importante che riflette direttamente sulla pittura. “El pintor y el su modelo”  pone il pittore all’interno della tela nel momento in cui si accinge a eternare parte di una realtà fornita di straordinaria vitalità rappresentata dalla modella. Come racconta Hélène Parmelin, per ottenere un esito che lo convincesse su questo tema, Picasso lavorò con estrema frenesia, aggiungendo particolari, spostando i personaggi, riflettendo sull’esito del rapporto segno/forma, sul colore. Alla fine ottenne qualcosa di definitivo che, quasi cinematograficamente, rappresenta la conclusione di un percorso intellettuale che, semplicemente, unisce il pittore all’osservatore.


giovedì 6 agosto 2015

food icons (antonio de luca, enrica borghi, benedetta ubaldini, florencia martinez)

Non esiste un simbolo, un’immagine generica che possa dire che cosa è il cibo, è un discorso troppo complesso. Eppure ogni cibo, ogni cosa che mettiamo in bocca con lo scopo di nutrirci ha una sua precisa valenza evocativa. È chiaro che più un cibo è antico, più il suo valore simbolico è complesso. Uva e fichi, ben radicati nella quotidianità mediterranea da vari millenni definiscono una quantità di riferimenti pari al numero di volte nelle quali sono stati citati. La banana, icona della modernità warholiana, assume invece un valore esclusivamente graduale, richiamando dapprima alla mente la copertina del disco dei Velvet e successivamente, attraverso precise implicazioni soggettive, altri oggetti, disperdendosi nell’universo di immagini cui siamo continuamente sottoposti.



Ovviamente questo non ne censura la dignità di rappresentazione. Chi può stabilire, infatti, che cosa sia giusto rappresentare? L’arte non è certo un mondo nel quale non si possa osare, non si possa provocare. Le opere esposte in questa mostra ci riportano con la mente a epoche affascinanti nelle quali il desiderio di astrazione e di attrazione per il “pittoresco” faceva costruire tavole imbandite e raccontava il cibo allo stato puro, nel momento che ne precedeva la trasformazione. Ma ora siamo di fronte a quattro artisti che lavorano secondo i canoni dell’estetica più aggiornata, la loro opera ci conduce a riflettere sulla nostra essenza, sulla vaghezza del nostro modo di pensare, sull’approccio prettamente edonista al cibo.



È stata una trasformazione epocale quella che si è verificata a partire dal secondo dopoguerra, dal “cibarsi per vivere” siamo passati al “vivere per cibarsi”. Il sottomondo raccontato dal Pulci nel “Morgante” nel quale sembrava che il procurarsi il cibo fosse la priorità assoluta degli sgangherati cavalieri del suo poema, è stato sostituito dall’oscenità televisiva di decine di trasmissioni che ci propongono la seriale variazione della cotoletta, per poi portarci all’autocommiserazione di fronte all’inesorabile aumento del girovita. Allora ecco che il nostro appetito viene compensato dall’ideale accomodarsi a una mensa che offre nutrimento allo spirito – sarà banale a dirsi – attraverso il comporsi di questo progetto che indaga il cibo attraverso una serie di opere diversissime sintatticamente ma legate dal comune intento di rendere il cibo soggetto di performance artistica.



Gli artisti presenti nella mostra dal titolo Food Icons, Enrica Borghi, Antonio De Luca, Florencia Martinez e Benedetta Ubaldini, si muovono su percorsi suggestivi, capaci di tramutarsi in inedite associazioni visuali con cui l’immaginazione e il carico culturale di ciascuno di noi riesce a comporre una ragnatela di intriganti riferimenti. Le immagini plastiche proposte da Benedetta Ubaldini conducono a una riflessione sul rapporto passato presente, su quelle suppellettili che adornavano le antiche dimore, quei trofei di caccia che rappresentavano l’orgoglio di un diritto che era riservato a poche famiglie di possidenti. Il contenuto di questi lavori scandaglia un mondo di ostentazione, trasformato adesso in chiave pop, esasperato nei colori così fortemente innaturali, un richiamo all’arroganza di chi ha fatto della sopraffazione il proprio credo, cancellando quella forza naturale che alberga nell’animale che in queste straordinarie sculture rimane soltanto elemento di citazione.
Enrica Borghi crea un’installazione nella quale il materiale risulta avere un ruolo importantissimo. La sua idea è quella di parafrasare alcune opere di Aldo Mondino, richiamando a livello essenziale la forma dei cioccolatini attraverso la ricopertura con carta stagnola di palline di polistirolo. Questi elementi mimetici sono i tasselli di strutture più complesse, strutture decorative policrome di forma esagonale, che costruiscono sulle superfici murarie dei mosaici modulari che evocano l’arte orientale nelle sue più raffinate espressioni.
Le opere di Florencia Martinez richiamano alla memoria determinati momenti che scandiscono la vita e i suoi rapporti. Spesso ci siamo sorpresi a fotografare il cibo che stiamo per mangiare per condividerlo immediatamente sui Social. La mappatura della Martinez ha qualcosa di simile: le apparizioni di frammenti di fotografia sono delle epifanie di realtà che si cristallizzano nel nostro essere. Sono apparizioni che ci inducono a riflettere sulla sedimentazione dei nostri ricordi, sui desideri che si nascondono dietro l’accaparrarsi di un gusto, trasformando il mondo che ci circonda in una serie di istantanee dalle quali emerge una possibile risposta a qualcuno dei nostri dubbi.

Antonio De Luca costruisce attraverso alcuni simulacri di cibo una convincente interpretazione della natura morta. C’è qualcosa di rituale nella proposta delle sue ceramiche e dei suoi oli, qualcosa che sembra giungere dall’antichità, dagli Xenia romani. L’apparizione del cibo nel piatto, o semplicemente del cibo, evoca gesti conviviali, richiama l’intimità di spazi privati nei quali la natura inanimata è fonte di ispirazione attraverso le sue forme, i volumi, il colore, la reazione alla luce. Da raffinato pittore, De Luca compone i cibi secondo un disposizione estetica, descrivendoli con gusto illusionistico e con la volontà di costruirne un possibile percorso simbolico.