martedì 29 aprile 2014

pietro morando: un canone per la sua riconoscibilità

Pietro Morando è un artista che non può essere facilmente etichettato. Se esiste un suo “marchio”, uno stilema che lo caratterizza, esso va ricercato nella rappresentazione di quei personaggi spigolosi, in quelle caricature di uomini che raccontano un mondo di umili, un sottoproletariato che fa assumere ala sua pittura una precisa connotazione e riconoscibilità.


Le opere di questo tipo – da collocare su un ampio arco cronologico, forse già dai tardi anni Trenta e sicuramente fino  alla sua morte nel 1980 – hanno quasi sempre come sfondo un  paesaggio. Esso è evocato attraverso i tratti di un albero o da una scansione di edifici: sono elementi decisamente scenografici, fondali chiusi da un orizzonte netto, una linea orizzontale, talvolta ondulata dal corrugarsi collinare, su cui è collocata la presenza di uno o più personaggi. Le loro fisionomie sono standardizzate, anonimi privi di identità, con pochissimi particolari di differenziazione. Esse sono frutto della rielaborazione di volti che appartengono alla tradizione, sono maschere antiche che eternizzano e compattano l’anonimato di tutte le generazioni di umili che si sono susseguite. Attraverso delle tracce invisibili, frammenti di memoria che appartengono alla collettività di una determinata comunità, si percepisce che quelle scene si collocano in luoghi che lasciano intuire presenze di Alessandria, citazioni di campagne piatte illuminate da luci zenitali.



È un mondo che ripete i propri gesti, un mondo privo di qualsiasi caratterizzazione idilliaca, quasi immobilizzato in una sua eternità. La deformità fisica e l’appartenere a una comunità povera, rende questa pittura dolorosa. Ma assieme al dramma collettivo di questi umili, collocati dal proprio destino ai margini della Storia, Morando ne rappresenta la dignità. La sua pittura è una sorta di testamento lasciato da persone che devono affrontare i cambiamenti, le paure, l’isolamento, il rifiuto. Sono immagini che spesso lasciano intuire la propria fisicità: sono infatti gli uomini e le donne a riempire gli spazi, con la loro forza e la loro consapevolezza. È una pittura carica di pathos, non propriamente pessimista, anche se l’unica manifestazione di speranza che si intuisce è offerta da brandelli di ingenua spiritualità religiosa, priva di speculazione, mai diversa da quella che si raccontava nelle cascine e nelle soffitte abitate dai vinti di tutti i tempi.

lunedì 21 aprile 2014

1976/1981: cinque anni di ricerca artistica di gianni baretta

Si tratta di una serie opere prodotte da Gianni Baretta nel quinquennio 1976/1981, opere che permettono di riflettere sul rigore di questo artista, per certi versi libero e autonomo, la cui ricerca sul segno appare come uno dei più evidenti motivi conduttori del suo lavoro. Ma non si tratta soltanto di questo, poiché si scopre anche quanto sia fondamentale l’attenzione per l’aspetto luministico, il valore della materia e la suggestione poetica e musicale che si trova alla base di alcuni suoi lavori e che si traduce in epifanie di geometrie ben definite.


Lasciando da parte i lavori in cui Baretta ridefinisce i rapporto con la cultura mitteleuropea (soprattutto Klee, Kandinskij e Kubin), si intuisce fin dai primi saggi pittorici datati 1976 il progredire del suo lavoro. Questi oli si impongono per l’estrema rarefazione pittorica, anche se non viene mai meno l’interesse per il segno strutturato in ritmiche sequenze.
Risultano però cariche di dramma le opere successive, opere in cui l’artista si pone di fronte alla materia. Baretta, pioniere in questo tipo di ricerca, costruisce delle superfici monocromatiche costituite da una compatto stato di carta pestata. Egli riduce il foglio di giornale a un magma che assume una corporeità murale, sembra diventare parte di un arriccio, con una tattilità ruvida che nel suo palpitante aggetto costruisce un’epidermide sottilmente increspata, carica di poetica vitalità. È allora che questa sensazione prettamente tattile si evolve, aggiungendo elementi di ispirazione musicale, descrizioni di arpeggi che trasportano l’osservatore a contatto con segni liquidi che si dilatano sulla superficie per definire l’echeggiare di una nota. È una pittura “sospesa” che sembra ripetere all’infinito quell’attimo in cui la musica jazz sussurra la sua sofferenza.



Seguendo idealmente queste note, si perfezionano le opere che nascono come citazione storico/artistiche e poetiche. Il grande “Trakl-Klimt” del 1981, in pasta di carta, permettere di comprendere quale grado di unione possa mettere in relazione la poesia di Trankl alla pittura di Klimt, un’ideale convivenza culturale che trasforma la poesia in colore e il colore in sensazione.

lunedì 14 aprile 2014

la natura morta di piero gilardi

L’idea di Piero Gilardi è forse quella di offrirci la percezione di frammenti di natura. C’è qualcosa di idealizzato nelle sue composizioni, egli sembra donarci un artefatto che appare ai nostri occhi come qualcosa di completo e di perfetto, una piccola porzione di spazio naturale che viene replicato a un diverso grado di semplificazione plastico, una sorta di citazione che non rifugge dall’imitazione.



Sono composizioni di grande impatto emotivo che potremmo tranquillamente definire “nature morte”. Le sue teche, dal vago carattere museale, sono l’ultimo passaggio della riflessione su un genere che ha radici assai profonde. Gilardi propone un prodotto carico di coerenza strutturale ma fondato su una sostanziale illimitata trama di combinazioni. La sua è una produzione di cose inanimate che esclude la presenza diretta dell’uomo e si concentra sulle forme e i volumi degli oggetti, sul loro colore, sulla luce.



Gilardi è per questo un autore profondamente realista poiché il suo obiettivo principale è quello di suscitare un’emozione estetica attraverso l’ammirazione dell’effetto di verisimiglianza, in modo del tutto analogo a quello che poteva avvenire di fronte a una tela proponente proprio una natura morta. Gilardi si pone in questo modo al vertice di un’evoluzione artistica che insiste sulla volontà di rappresentare la realtà. Attraverso la mimesis egli ricorre all’espediente “scultoreo” fornendo un lavoro completo, del tutto aderente agli standard estetici di questo genere.



La natura morta è fatta per il godimento privato, e in Gilardi si riesce a cogliere questa voglia di eclissarsi dagli aspetti eclatanti dell’esposizione monumentale. Le sue sculture sono autentici componimenti poetici, sono citazioni di paesaggi pascoliani nelle quali si percepisce qualcosa di meditato, una riflessione che ci permette di cogliere qualcosa che, pur appartenendo alla quotidianità, diventa evento eccezionale, degno di essere rappresentato e ricordato. I suoi spazi palpitanti, creati con materiali perfettamente posseduti e manipolati, ci offrono l’opportunità di un rifugio al quale accedere per distaccarsi dal selvaggio consumismo della nostra società.

lunedì 7 aprile 2014

ettore consolazione: progettare la scultura

Ettore Consolazione è uno dei più importanti scultori autori di monumenti  italiani attualmente in attività. La sua concezione artistica è ben salda e può essere intuita attraverso la considerazione di almeno due piani di sviluppo. Il primo, prettamente visivo, mette i suoi lavori in relazione con lo spazio che li circonda. Il metallo diventa l’interlocutore di un dialogo continuo con la realtà, affermando una propria identità visiva che determina una novità nella fruizione dell’area cui la scultura si sottopone. L’ambiente con il quale l’oggetto si confronta risulta trasformato in una piccola porzione di spazio carica di dramma, configurata in una sua eterna istantaneità.



Il secondo livello di sviluppo è prettamente materico. Consolazione porta la materia a definire una struttura che si lega alla reiterazione di un modello estetico/spirituale che affonda le sue radici nell’antico. Il bronzo rappresenta proprio la volontà di riferirsi alla tradizione, alla valorizzazione di un’azione che nella mente dello scultore prende corpo per gradi, fino a diventare una manifestazione di quell’immagine che inizialmente appariva esclusivamente come sospensione poetica.




La fase progettuale, rimandando a un’idea ben solida nella critica, potrebbe già avere una sua completezza, in quanto Consolazione, anche a livello di bozzetto, propone ciò che diventerà scultura monumentale in modo già vitale e poetico. La sua elaborazione ha anche in questa fase un qualcosa di totale che, inoltre, riesce a chiarire altri aspetti del suo lavoro. Egli elabora non più solo teoricamente il colore, insiste con materie malleabili combinando insieme carta e legno, arrivando a proporre un rapporto diretto tra artista, opera e fruitore. Le sue opere – che solo in seguito e spesso non necessariamente saranno tradotte in bronzo – sono disposte sulla parete elaborando gli elementi costitutivi in modo emozionale, quasi a voler offrire la possibilità di una visone dall’alto, un punto di vista “altro” che conduce l’immaginazione dell’osservatore a confrontarsi con una fase dell’elaborazione dell’artista. In questo caso, l’opera è la miniatura di una grande installazione, ovviamente non più legata al concetto di strutturazione architettonica che invece appartiene all’opera che si realizzerà, denunciante la volontà dell’artista di rifiutare una situazione emotivamente stabile nella quale l’immagine diventa struttura.