martedì 26 febbraio 2013

sergio acerbi, esseri di luce

La pittura del tortonese Sergio Acerbi si presenta attualmente come il frutto di una costante e sentita evoluzione. Cercando di sintetizzare i termini del suo percorso, si possono scorgere almeno quattro momenti che precedono i risultati di questa mostra milanese. Le prime opere possono essere avvicinate all’idea di un paesaggismo noldiano, con la realtà distorta in colorazioni irreali. In seguito i suoi soggetti si fanno più sintetici, evocando strutture orizzontali nelle quali è ancora percepibile la divisione terra/mare + cielo. I colori sono stravolti, accesi e accentuati dall’essere immersi in una sorta di origine dell’universo. È in questo momento che si sviluppa una dimensione mistica che prenderà consistenza nella produzione più recente, soprattutto nei cosiddetti “punti di luce” nei quali l’elemento religioso si palesa con l’identificazione di Dio con la luce, rielaborando in chiave contemporanea uno dei fondamenti della filosofia medievale.
Oltre al contenuto filosofico, la grossa novità rilevabile nei “punti di luce” è l’affiorare di frammenti di tridimensionalità, quasi si palesasse la superficie di un pianeta primordiale, una forma di vita che sta prendendo la propria corporeità. La percezione è quella di un caos che sta cercando un suo ordine.
Era importante riassumere gli esiti della precedente attività di Acerbi, per afferrare il senso dei lavori ascrivibili all’ultima fase della sua produzione. Quello che prima appariva come un timido accenno plastico ora si palesa con forza diventando protagonista della risoluzione estetica, sublimandosi in “essere di luce”. È un compatto grumo di materia, la concretizzazione di frammenti ectoplasmatici che fluttuano su rugose superfici coperte da muffe e licheni. È una pittura fortemente intimistica, l’esplicitazione di un mondo interiore fatto di meditazioni nelle quali l’oggetto è ormai scomparso del tutto e la composizione è stravolta da un dinamismo di cui l’artista cerca di afferrare le leggi. L’arte di Acerbi mira a edificare un ordine percettivo non arbitrario, parallelo a quello naturale e capace di dare forma agli aspetti più oscuri e tormentati del nostro essere. Si ha di fronte una visone che non ostenta la propria bellezza, ma la fa comunque affiorare come forma misteriosa e ineffabile.

domenica 24 febbraio 2013

matilde izzìa di ricaldone "a rebours"

Matilde Izzìa di Ricaldone è una pittrice di notevole livello, eppure sono ben pochi a conoscere la sua opere. Essa ha esposto un’ultima volta a Venezia negli anni Ottanta, all’interno di una importante collettiva di pittori che gravitavano intorno all’asse culturale torinese. Era una mostra che avrebbe potuto darle una maggiore riconoscibilità, offrirle una visibilità che avrebbe, a mio avviso, meritato. Decise però di chiudere con le esposizioni, dipingendo solo per se stessa o per pochissime persone che la conoscevano. Potremmo azzardare un motivo di questa scelta, supporne  un’eventuale ragione, ma tutto ciò risulterebbe vano e pretestuoso.

A distanza di otto anni dalla sua morte, Cecilia Prete ha costruito un percorso capace di farci conoscere, almeno in parte, questa pittrice, un percorso che copre infatti solo un ventennio della sua attività, quello compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Degli anni precedenti, quelli della formazione, per intenderci, non è emerso nulla. Pertanto ci troviamo di fronte all’opera di un’autrice che ha già consolidato il suo stile, che ha già completato il proprio discorso formativo. Ne emerge una personalità forte, capace di mediare gli stimoli culturali del proprio tempo e in grado di raffigurare il circostante con un’espressività moderna e aggiornata.
La sue opere sono monumentali, anche quando si sofferma su particolari semplici e quotidiani. Non si apre all’astrazione, ma la cita con un valore metapittorico, rappresentando un quadro nel quadro. Le sue figure, specie quelle femminili, ci riportano a composte forme ancestrali, espresse con una tavolozza estremamente variegata, che in alcune parti del dipinto gioca sulla sfumatura che si attenua fino a diventare velo per poi esplodere, in altre parti, con un colore che si raggruma assumendo una connotazione materica. Il tutto è contenuto da un segno marcato che costruisce la figura dandole una precisa identificabilità. I contorni diventano gravi strisce di nero e affermano una poetica che cerca di dare corpo a una rappresentazione ovviamente bidimensionale  la cui forza scaturisce dal soggetto, sempre immerso in un silenzio metafisico che riesce a imporsi sulla realtà come autentico co-protagonista di queste opere.


mercoledì 13 febbraio 2013

giovanni saldì "grass-bag"

L’installazione “Grass-bag” si colloca all’interno di una riflessione che Giovanni Saldì ha iniziato circa due anni fa. Tutto è nato osservando l’azione della natura su una serie di manufatti posti casualmente da mani ignote nell’ambiente, non necessariamente rovine o cose abbandonate, ma tutto ciò che in qualche maniera si è trovato – e si trova – a rivestire una funzione pratica nel quotidiano umano. La natura, agendo secondo precise meccaniche chimiche e fisiche, diventa un mezzo creativo da apprezzare e controllare e, in questo caso, si pone come prosecutore dell’azione avviata dall’artista, all’interno della quale la natura (che ci appare come una sorta di assistente dell’artista) aggiunge lentamente degli elementi che costringono l’oggetto a cambiare il proprio volto, apportando modifiche sostanziali che però non compromettono assolutamente la struttura estetica intrinseca all’opera d’arte.
Anche “Grass-bag” deve essere inteso come momento di questo percorso creativo, perché, ancora una volta, ci troviamo di fronte a un lavoro che, oltre a distinguersi per il proprio valore artistico, assume interessanti valenze simboliche. La carcassa di una Fiat 500, ridotta al suo esoscheletro scrostato e ammaccato, sembra aver appena fermato la sua corsa in seguito a un incidente, facendo esplodere un air-bag erboso, un fiorire di graminacee che occupano ogni spazio disponibile. È un’opera accattivante, quella di Saldì, che deve essere osservata anche come un invito a vedere che se si vuole sopravvivere, non ci può che essere un ritorno alla natura, natura che con la sua azione protettrice ci fa comprendere che essa non ci tradirà. L’auto è giunta alla fine di un ipotetico viaggio allegorico, in cui il progresso gestito in modo non intelligente e la volontà di sfruttare ogni risorsa del pianeta hanno ridotto l’uomo a desiderare solo il guadagno. L’incidente è inevitabile, sta a noi sapere adoperare correttamente l’air-bag  oppure lasciarsi travolgere da un incontrollabile testacoda.

martedì 12 febbraio 2013

max ferrigno alla davico di torino

“Freaks” è un film di Tod Browning che racconta una triste storia di diversità ambientata in un circo. Freak, infatti, è un termine che identifica una persona con grosse deformità fisiche, deformità che in qualche maniera lo collocano a metà strada tra l’umano e l’animale, lo rendono di fatto un mostro da esibire in un baraccone.
La carrellata di personaggi che Max Ferrigno ha elaborato potrebbero fare parte di questo mondo di marginali, potrebbero accoglierci per uno spettacolo al limite del credibile, illuminati al centro della pista da riflettori che esaltano i loro colori acidi, i loro abiti sgargianti, i loro sguardi ineffabili. Ferrigno ci dice che tutti questi personaggi appartengono a un mondo gioioso, nel quale egli ama rifugiarsi. È come se raccontasse una fiaba dove tutti sono ciò che appaiono. Il suo mondo è lontano dalla realtà, e ciò è dimostrato dalla scelta espressionista, dal ricorrere a figure che appartengono all’universo dei cartoon, figure che vengono rielaborate in modo da renderle esemplari della cultura Pop Surrealist, cui l’artista attualmente appartiene.
Rispetto ai lavori precedenti, nei quali egli insisteva maggiormente sull’elemento pop, l’ultima fase del lavoro di Max Ferrigno è sottolineata da un deciso ricorso alla pittura. Le opere precedenti si distinguevano per  un’esplosività contenuta, sorprendevano per la capacità di creare delle situazioni oniriche, quasi fumettistiche. Adesso i suoi personaggi sono assoluti, risultano completi nel loro isolamento, appaiono come statue di un museo dell’effimero, irriducibili nel ruolo che devono svolgere. Sono personaggi malati, contorti e deformati, autentici freaks di un carrozzone senza tempo. La grandezza della pittura di Ferrigno, al di là dell’essere all’interno di una delle correnti più aggiornate, è quella di rappresentare situazioni prive di qualsiasi rifermento fisico, sono opere che raccontano mondi lontani, non-realtà nelle quali tutto può succedere e nelle quali convivono esperienze di cartoon-vite differenti. Ferrigno omette volutamente qualunque intento sociale, non vuole distogliere lo sguardo dall’essenza ludica del suo apparato. L’unica deroga è per gli “A.L.F.” (animal liberation freak), un acronimo nel quale il pittore colloca la sintesi di un pensiero animalista condiviso, un pensiero che cozza con la realtà e che preferirebbe gli animali liberi e non costretti nelle gabbie.

lunedì 4 febbraio 2013

paolo guasco al triangolo nero di alessandria

Si tratta di un artista che sorprende e che lascia intravedere una singolare capacità pittorica confermata da scelte estetiche di sicura efficacia. Paolo Guasco si formò nel vivace contesto artistico torinese, individuando immediatamente un proprio percorso artistico. Nelle prime opere, raffinati esercizi con acque che si sciolgono sulla carta, la sua azione crea di un reticolo di punti e linee che evocano la trama di un tessuto. Più realista, ammesso che questo termine possa avere una credibile valenza esplicativa, risulta nella lavorazione dei paesaggi. Per un determinato gruppo di opere si fa riferimento all’area geografica langarola. Lo spazio è gestito in modo da offrire una visione lussureggiante, piena di luce solare. Gli elementi vegetali sono proposti con spessi tratti di matita grassa che creano un reticolo nel quale sono chiusi tutti i possibili elementi del paesaggio.
Nello stesso periodo, intorno alla fine anni Sessanta, Guasco si concentra anche sulla creazione di liquidi paesaggi cosmici, pianeti che fluttuano in un universo fatto di campiture cromatiche che rimandano ancora una volta alla tipologia delle geometrie dei paesaggi piemontesi, quasi a voler identificare l’unicità di un disegno naturale che racchiude tutta l’essenza dell’universo. Ugualmente interessanti sono i lavori che sembrano richiamarsi all’elettronica – forse anticipazioni di progetti plastici – nei quali fili e transistor  appaiono come componenti di futuristiche sistemazioni urbane.
Il periodo successivo è per Paolo Guasco un immergersi nella politica. Il suo impegno si concretizza con la realizzazione di una serie di manifesti e di illustrazioni che evidenziano il suo pensiero progressista. Il ritorno alla pittura, alla fine degli anni ’90, è poco convincente, con elaborazioni che riprendono elementi pop. Al contrario, quasi a chiudere un cerchio che lo connette alle creazioni degli esordi, l’inizio del secolo segna un ulteriore cambiamento, con la resa di osservazioni microscopiche di innesti vegetali, costruzioni che coinvolgono l’uomo e la natura. È un momento minimale, regolato da un’attenzione quasi scientifica per ciò che egli vede all’orto botanico, una pittura silenziosa e frammentata, che conclude la vicenda di un personaggio coerente e di grande spessore culturale.


venerdì 1 febbraio 2013

livio bourbon al labirinto di casale monferrato

Chi conosce l’induismo sa che Kumbh Mela è una delle sue feste religiose più importanti. Migliaia di pellegrini si recano ogni tre anni dove oggi sorgono le quattro città sacre, Haridwar, Nasik,Ujjain e Allahabad, per purificarsi nelle acque del Gange attraverso un bagno rituale che lava ogni peccato. Si tratta di un avvenimento straordinario, sicuramente quello più capace di rendere la dimensione spirituale di questa religione. Questo avvenimento di fede è stato oggetto di un intenso reportage fotografico di Livio Bourbon.
Livio Bourbon, reporter dell’agenzia spin 360, è conosciuto per la sua attività di documentazione fotografica, documentazione di viaggi, di imprese sportive estreme, di avvenimenti che raccontano esperienze collettive. La sua professione non deve essere scambiata con quella di un fotografo d’arte, egli rifiuta questa etichetta, perché, ci spiega, agisce “artigianalmente”, muovendosi con l’intento di raccontare qualcosa che, di volta in volta, varia di fronte alla prospettiva del viaggio che sta compiendo.
Kumbh Mela è nato per caso. Non c’era un’intenzione particolare, perché Livio Bourbon si è trovato in India con scopi didattici, assieme a un fotografo che voleva imparare le tecniche del reportage. Pochi di noi potrebbero essere preparati a sopravvivere in un contesto così dispersivo, immersi in un mare di persone vocianti, tra colori e profumi, tra uomini e donne che, lentamente, salmodiando, si avvicinano alle acque del Gange. Credo che l’abilità del reporter sia proprio questa: fermare in uno scatto la sensazione di un momento, capire quale sguardo privilegiare, in modo da universalizzare l’unicità di una situazione che mai più potrebbe ripetersi. Nelle foto di Bourbon è racchiusa la forza di un attimo, all’interno di un percorso che deve essere somatizzato da chi osserva gli scatti. In questo caso, come in altri lavori analoghi – e sta in questo il valore artistico del reportage – non bisogna cercare di addentrarsi nella retorica interpretativa, perché ciò che si vede è quello che deve essere visto, senza ulteriori elementi aggiuntivi. Alla luce di ciò, credo che il miglior atteggiamento da tenere di fronte a una rassegna come questa, sia quello di un’oggettività assoluta. Infatti, spiegare questo tipo di foto risulterebbe operazione priva di senso che snaturerebbe il lavoro tecnico del reporter.