martedì 7 giugno 2016

le puntine da disegno di carlo pasini

L’arte di Carlo Pasini è sorprendentemente accattivante. Nel contesto di un discorso di sperimentazione che parte dalla fine degli anni Novanta del Novecento, essa costituisce uno dei più interessanti nuclei di sperimentazione plastica attualmente praticati in Europa. Mischiando elementi Pop e (iper)realisti, Pasini ottiene un prodotto che si colloca idealmente tra passato e futuro. Le sculture da lui proposte, realizzate su una base di poliuretano espanso ricoperto da puntine da disegno o frammenti di materiali colorati, perlopiù pietre o vetri, raggruppano una serie di animali che vengono proposti in atteggiamenti fortemente dinamici, in contesti che evocano i diorami dei musei di Storia naturale e che sembrano interpretare frammenti di video o immagini naturalistici a grandezza naturale.

                                                                                  (foto Sara Pasini)



Lasciando da parte le sculture di animali (attualmente a Palazzo Bottigella a Pavia), Pasini  realizza per la mostra presso i locali della Comunità ebraica di Casale  una sorta di installazione che comprende un tappeto che riprende il disegno della pelle di un serpente e, sempre un'immagine dell’uomo vitruviano. La sua azione artistica avviene posizionando delle puntine da disegno direttamente sul pavimento, seguendo un procedimento simile a quello di un mandala tibetano. L’opera sarà poi sottoposta all’azione dei visitatori che ne varieranno la struttura con interazioni casuali e non predeterminate, provocando rumori simili a quelli della coda del crotalo o di certi strumenti musicali. Inoltre, Pasini vuole invitare il pubblico a riflettere sul materiale stesso, sulla suo essere cromaticamente accattivante e nello stesso tempo capace di pungere, di fare male. Il secondo elemento dell’installazione è una serie di sedili ottenuti con strutture fatte in forma di puntine da disegno conficcate in strutture litiche, sedili sui quali sarà possibile sedersi e meditare sulle possibilità evocative che animano dell’arte di Pasini.


                                                                                            (foto Sara Pasini)

L'artista ha dichiarato che l'immagine dell'uomo vitruviano simboleggia la nostra esistenza e il nostro essere. In un momento di grande crisi e confusione, sembra doveroso riflettere su noi stessi e sul nostro operato, individuale e collettivo. L'uomo al centro dell'universo si è un po' smarrito. La pelle di serpente indica il mutamento, il cambiamento, la possibilità e la capacità che ha l'uomo di adattarsi per sopravvivere. lo scorrere della vita è ciò che siamo, ma soprattutto ciò che vogliamo essere.

martedì 17 maggio 2016

jacques pion idoumeni

Idoumeni è un luogo che è diventato famoso solo da poco tempo. Idoumeni è una località di confine tra la Grecia e la Macedonia; è un luogo dove una ferrovia si ferma creando un reticolo di binari che si allarga come un rivo d’acqua che incontra un ostacolo. Lì sono giunti e sono stati bloccati migliaia di migranti provenienti dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afganistan, gente in fuga da luoghi devastati dalla guerra. Lì hanno atteso che le frontiere venissero aperte per permettergli di raggiungere la Germania, la Svezia o altri posti lontani dall’orrore dal quale volevano prendere le distanze.




Ma Idoumeni non era molto meglio dei luoghi che lasciavano. Jacques Pion, reporter francese di fama internazionale, ha documentato la situazione dei migranti con una serie di scatti che sembrano illustrare più l’inferno dantesco piuttosto che una porta verso la speranza. Le immagini raccontano di un posto nel quale le tenebre si insinuano ovunque contendendo lo spazio ai fuochi allucinati accesi dai migranti. È dicembre e le ombre si stagliano nel freddo dei Balcani. Uomini, donne, vecchi, bambini si confondono diventando un’immagine che colpisce per il suo dinamismo caotico, denunciando una vergogna dalla quale nessuno può sentirsi estraneo.

venerdì 1 aprile 2016

al margine delle macerie

Esiste un’immagine che possa diventare emblema di questo inizio di secolo? Sono passati più di 16 anni da quel giorno e la velocità con cui si muove il mondo ci rende difficile ricordare anche quello che è accaduto solo poco tempo prima, ci impedisce di mettere a fuoco la successione degli eventi che dal capodanno del 2000 a oggi ha segnato le nostre esistenze.



Quanti sono quelli che hanno applaudito l’avvento del primo giorno del terzo millennio e ora non ci sono più? Quanti sono quelli che non erano ancora nati e adesso stanno cercando di dire la loro? Quanti sono quelli che hanno visto le loro esistenze cambiare? Quanti sono quelli che hanno lasciato situazioni prive di speranza per cercare qualcosa di meglio per se stessi e per i loro familiari? Seguendo il filo di queste domande si profila dunque un’immagine che potrebbe essere il simbolo di questi anni. Un barcone affollato in mezzo al Mediterraneo, volti pieni di perplessità, con negli occhi un’altra domanda: “che ne sarà di me?”.




Soffermarsi su questi volti, cercare di adoperare l’arte per dare una nuova dignità a chi ha messo in gioco tutte le proprie certezze per offrire le proprie forze a una nuova comunità, ecco il senso profondo dell’installazione di Ruben Esposito e Ernesto Fidel. Si tratta di un percorso nei quali i volti sono carichi di drammaticità, e ciò che viene evocato assume connotazioni epiche. I lavori dei due artisti, dei mezzibusti in materiale litico per Esposito e oli su tela per Fidel, lavori che non interagiscono tra loro e che rimangono isolati nella loro essenza, pensati come una risposta che Ruben dà a Fidel, quasi a voler evocare la freddezza e la distanza di chi, convinto delle proprie sicurezze, forte del suo essere cittadino di un mondo pieno di privilegi, dovrebbe accogliere e comprendere, creano gli elementi per una narrazione della vita reale: alcuni di essi sono scampati, sono dei sopravvissuti assorti nei loro pensieri, indifferenti l’uno all’altro, dei nuovi Odisseo che vorrebbero raccontarci le loro storie; altri sono quelli che non vogliono ascoltare, che non riescono a capire che è impossibile fermare la Storia . Ma forse non è necessario che arrivino a tanto, infatti questi volti sono talmente chiari da diventare essi stessi messaggi emotivi – come direbbe il fotografo August Sander –. Le immagini di questi migranti rappresentano il dolore e la sofferenza che hanno subito a causa della cattiveria gratuita e l’ignoranza della gente comune scolpita da Ruben. Forse anche per questo i due artisti non ci presentano le persone a figura intera, essi non lo sono ancora, forse lo diventeranno. Inoltre, Ernesto Fidel realizza dei volti secondo dei precisi crismi accademici, adopera l’oro come nella pittura medievale; Ruben è espressionista, i suoi mezzibusti sono volutamente sgraziati, caricaturali, sono scolpiti nel marmo delle colonne delle chiese. Dal punto di vista estetico, ecco che alla vista si afferma la bellezza somatica e la dignità del “nuovo”, a discapito dell’antico, un rovesciamento di prospettiva che dà un potente ulteriore messaggio all’installazione.


mercoledì 30 marzo 2016

outsider art

Outsider art è una tipologia di arte che, come intuito dal critico Roger Cardinal, identificava certi percorsi estetici collocabili fuori dagli schemi, allontanandosi volutamente dalla prassi dei movimenti e del circuito corrente. Spesso, per sottolineare la peculiarità dell’Outsider art,  si è insistito sulla spontaneità dei percorsi psichici che sono alla base della creazione per paragonare i lavori prodotti a forme di espressione prive di qualunque sovrastruttura e, per questo, assai vicine all’essenza originaria della realtà percepita.



Ovviamente l’idea fondante di questa ricerca estetica nacque grazie all’intuizione di Jean Dubuffet, artista profondamente anticonformista che si è sempre mosso all’insegna della negazione. Infatti l’Art Brut, piattaforma culturale sulla quale si fonda l’esperienza Outsider, si contrappone alle Arts Culturerels, alla “sublimità delle attività superiori”, per giungere infine a qualcosa di non consueto.




Riflettendo sul caso di Dubuffet, quasi spontaneamente, nascono delle domande sulla creatività, sulla realzione “ambigua e complessa –  come afferma il critico Giorgio Bedoni –  tra l’essere umano e la sua opera”. Per questo il percorso proposto nelle sale del Castello Paleologo di Casale Monferrato si dipana tra opere che prima di tutto devono essere intese come fortemente ironiche, configurando un’intelligente testimonianza e una demitizzante rappresentazione della nostra epoca, epoca sempre proposta come un gioco e con uno spirito che, ricordando una definizione data all’opera di Enrico Baj, porterebbe anche questi lavori a essere definiti neodadaisti.


lunedì 18 gennaio 2016

il leviatano carnevalesco di paola bandini

Il lavoro di Paola Bandini è impostato sulla ripetizione di un modulo che, attraverso variazioni formali più o meno marcate, propone una casistica espressiva di notevole interesse plastico. Il singolo modulo, una maschera in ceramica bianca, rossa o nera, sul quale Bandini interviene, determina un volto che sembra richiamarsi a situazioni carnevalesche, e che assume una sua connotazione solo se visto nell’ambito di una installazione complessiva.



Infatti, la forza della sua scultura sta nell’assemblaggio di elementi che concorrono a creare un “uno” che è fatto di “molti”, una specie di Leviatano nel quale è possibile incontrare anche noi stessi. È una rappresentazione di stati d’animo, una piéce teatrale nella quale ciascuno di noi assume nello stesso tempo, sia il ruolo di comparsa che di protagonista.




La dimensione carnevalesco/teatrale sembra  ribadita pure dall’espediente di far scendere dal soffitto simulacri di nastri che ricordano le stelle filanti o i tendaggi di un palcoscenico. Ma la rappresentazione è lontana dal fasto rumoroso della piazza, il pubblico è silenzioso, l’opera è bloccata, è il volto di un mimo cristallizzato in un’unica espressione che, in quanto maschera, diventa immediatamente riconoscibile e universale.


mercoledì 13 gennaio 2016

il viaggio/ritratto di nicola bernardi

“Humans” è il titolo di un progetto fotografico di Nicola Bernardi che racconta un aspetto dei suoi innumerevoli viaggi. “Humans” è il ritratto di persone che vivono la loro quotidianità, è una sorta di reportage sulla vita di uomini e donne immersi in particolari universi  urbani.



Ciascuno di noi, in qualche modo, contribuisce alla storia del pianeta. Il fatto stesso di vivere, di lavorare, o di compiere qualunque attività, ci porta a essere parte di uno straordinario processo evolutivo. Nel discorso di Bernardi è l’uomo – e più in particolare chi fa arte – a porsi al centro dell’universo, è l’uomo con la sua fisicità e la sua spiritualità a trasformare le cose. L’obiettivo di Bernardi assume la connotazione di un occhio che osserva la forza che prorompe dal volto e dal gesto delle persone. Il fotografo, in questo caso, si assume il compito di cristallizzare con un’immagine l’essenza dell’uomo, diventando quasi iconografico e riuscendo talvolta a evocare i suoni e i profumi di un mondo lontanissimo nel tempo e nello spazio.




La figura umana appare così un’entità concreta che si muove all’interno di un percorso che si richiama ai valori del Rinascimento e, come in certe immagini di quell’epoca, diventa oggetto d’arte che è opera d’arte, in una esplosione di gesti che riescono a confermare l’unicità e la bellezza di un lavoro potente e intelligente.