lunedì 30 dicembre 2013

vettor pisani e l'eterno divenire dell'opera

La biografia di Vettor Pisani è stata intrigante, soprattutto per il fatto che egli, in quanto conoscitore delle scienze esoteriche, ha saputo convogliarle nella sua opera, affascinando la mente del fruitore di fronte all’impenetrabilità di certi segreti che possono essere svelati soltanto adoperando la giusta chiave di interpretazione.

Ma non sono solo l’esoterismo, i riti alchemici e le simbologie dei Rosacroce e della Massoneria a colpire l’immaginazione di chi osserva. La sua opera è qualcosa di più, è una sorta di continua drammatizzazione della realtà, di un perpetuo ricorso a certi misteri che affondano le loro radici nella storia delle genti e nei miti che loro appartengono. Non è un caso che Pisani definisse la propria arte come un teatro filosofico/conoscitivo della storia dell’Europa moderna. Il mito cui ricorreva più frequentemente era quello di Edipo. Particolarmente affascinato dalla figura della Sfinge, egli la ritieneva una metafora del labirinto col quale si ha un rapporto regressivo, impostato sul tentativo di ritornare in esso per trovare l’identica protezione che si aveva all’interno del ventre materno.

Per questo motivo spiccano nell'eterno divenire dei suoi lavori le oscene figure femminili che ostentano la propria natura: non si tratta di qualcosa di urtante, Pisani intendeva far vedere una “porta” che permette l’ingresso all’utero, richiamando una precisa simbologia esoterica che fa riferimento a una delle tante prove che l’iniziato deve superare.

Per Vettor Pisani, uomo di enorme cultura storico artistica, letteraria e teologica, l’arte diventava il mezzo per creare delle scenografie sullo sfondo delle quali vengono mostrati gli archetipi dell’immaginario collettivo. È in questo senso che devono essere lette le sue installazioni a carattere religioso. L’artista campano non intendeva provocare dissacrando: dietro il suo lavoro si nascondeva la precisa volontà di ripercorrere il cammino dell’arte, inserendo motivi che di volta in volta assumono connotazioni diverse. Vettor Pisani insisteva sull’instabilità delle cose, sulla diversa percezione di esse. “La Spada di Hermes”, opera di grande fascino romantico, può assumere qualsiasi connotazione simbolica quando è associata a un qualunque altro oggetto. Per questo artista non esisteva il “finito”, il suo lavoro era continuo, non esisteva il concetto di “opera conclusa” relativamente alla sua produzione, perché ogni elemento era parte di un universo che si modificava in continuazione. Pertanto, per questo maestro che ha partecipato a sei Biennali, che ha avuto riconoscimenti in tutto il mondo, era normale intervenire pesantemente in fase di allestimento, manipolando la materia e ottenendo altro.

martedì 24 dicembre 2013

breve introduzione al paesaggio dell'ottocento

La pittura di paesaggio  dell’Ottocento affonda le sue radici in un ambito culturale risalente a almeno un paio di secoli prima. Credo infatti che essa possa essere messa in relazione alle esperienze maturate in ambito romano da Poussin e Lorrain, autentici capofila di una tendenza che formulerà degli stilemi che saranno ripresi successivamente, sia dal Vedutismo settecentesco, sia dalla pittura romantica.


Lasciando da parte l’esperienza illuminista, esperienza che si sviluppa su direttrici documentaristiche legate a precise esigenze civili o militari, sarà proprio il Romanticismo a dare un’impostazione più definita al paesaggio del XIX secolo. La prima fase della produzione in tal senso si incentra sulla descrizione di Roma, delle sue rovine, insistendo su quel carattere “pittoresco” di determinati luoghi. Riveste una notevole importanza Massimo D’Azeglio che, oltre alla propria valenza di artista, avrà il merito di emancipare la produzione pittorica di aristocratici come lui da quel carattere dilettantesco che risultava imprescindibile. Inoltre, lo stesso D’Azeglio sarà esemplare per la realizzazione dei cosiddetti “paesaggi istoriati”, autentici sfondi per la rappresentazione di episodi di ispirazione storico/letteraria.
Quella del paesaggio romantico è un’esperienza assai interessante, che darà origine a quella koiné che avrà come elementi costanti alberi contorti e scheletrici, vette aspre, roccioni strapiombanti, nubi, elementi che dovranno anche essere letti come metafora dello stato d’animo dell’artista.



Il cambiamento di situazione storico/culturale lascerà spazio a una visione più autentica del paesaggio, non più idealizzata: inizierà la stagione verista, durante la quale si assisterà a una quotidianizzazione delle situazioni dipinte. Il paesaggio diventerà totale e riconoscibile, a garanzia di una richiesta determinata da un sempre più diffuso collezionismo borghese. Il soggetto umano sarà relegato ai margini e l’ambiente montano, studiato dal vero e dotato di una propria plausibilità, diventerà, con titoli che enunciano con chiarezza l’identità geografica dei luoghi, argomento di numerosi dipinti.
L’ultima fase della produzione paesaggistica ottocentesca inizierà con il 1870, quando a un tipo di pittura analitico/calligrafica, si insisterà, quasi allo stesso modo di chi fa poesia, per  offrire all’osservatore la condivisione di una sensazione (fondamentale in tal senso sarà l’influenza della neonata pittura impressionista). Ma ciò che ci viene proposto dalle opere di Reycend o Delleani risulta eccezionale nell’esito, il naturalismo pittorico portava già in sé i germi della decadenza di questo genere. Infatti, come ai tempi del Romanticismo il paesaggio diventa proiezione del mondo interiore e finisce per assumere una valenza prettamente simbolica e, addirittura, con il Decadentismo il paesaggio diviene ideista. Nel 1895 viene aperta la prima Biennale di Venezia e, attraverso il confronto con gli esiti proposti da altri autori europei il paesaggio si evolve in qualcosa di differente e pertanto non può più essere definito un genere a sé stante.

lunedì 16 dicembre 2013

tesori d'arte a valenza

C’è un bellissimo libro di Simon Shama che spiega come la ricchezza, cessata di essere fine a se stessa, si trasmuti in arte. Lo studioso inglese ha formulato questa ipotesi in realazione alla situazione che si era creata nell’Olanda del XVII secolo, ma il riferimento potrebbe estendersi a tutti quei microcosmi nei quali singoli comportamenti si amalgamano nella mentalità collettiva.


A Valenza è successo qualcosa del genere: dopo aver costruito delle ricchezze attraverso l’utilizzo artistico/artigianale dei materiali preziosi, qualcuno ha cominciato a acquistare opere d’arte.  È  difficile stabilire quale autentica esigenza si nascondesse dietro il moltiplicarsi delle collezioni, ma, in ogni caso, ecco che si afferma una volontà di investire in un piacere edonistico, un piacere che fa cresce anche la volontà di conoscenza, fa intervenire esperti e galleristi che garantiscono alla città una costante presenza di opere realizzate dai massimi artisti di varie epoche.


Ovviamente quelle opere sono di fatto invisibili ai più, si sa che esistono, talvolta sono prestate per essere esposte, come è avvenuto nelle sale di villa Scalcabarozzi. In questo caso si ha un’idea tangibile della qualità e quantità di queste collezioni. Esse si sono indirizzate alla raccolta di opere di grande pregio accanto alle quali non mancano veri e propri capolavori; insomma,  è stato messo insieme un piccolo percorso che garantisce una quasi completa visibilità degli sviluppi artistici italiani (e in parte internazionali) dalla fine dell’Ottocento alla più recente attualità.  È una mostra che suscita curiosità e appassiona, che costringe a spostarsi nelle varie epoche facendo comprendere come possa cambiare il gusto della società e il modo di approcciarsi alla realtà degli artisti. È chiaramente difficile enucleare come migliore di altri un nome o un periodo, credo si tratti di questioni fortemente personali, perché ogni autore o periodo presentati meriterebbero la medesima attenzione. In un banale tentativo di identificare qualche opera in particolare, si può dire che vi sia una sala dedicata all’Ottocento da antologia (con lavori di De Nittis, Boldini e Morbelli), che il Novecento sia rappresentato da opere di grande valore estetico (di Fontana, Corpora, Mathieu, tra gli altri) e che i lavori di Spoerri e Kounellis siano decisamente significativi per rappresentare le ultime tendenze dell’arte.

martedì 10 dicembre 2013

roger selden tra pop e razionalismo geometrico

L’attività artistica di Roger Selden si è sviluppata su due linee di riflessione ben precise. Da una parte, l’artista newyorkese ha elaborato un discorso estetico che affonda le sue radici nella cultura Pop. Questo legame può essere rilevato in particolare prendendo in considerazione l’aspetto cromatico dei suoi lavori, aspetto che sembra attingere alle idee in proposito di quel movimento. Dall’altra parte, egli insiste su modelli più razionali, su un concettualismo basato sull’elaborazione d’impianti geometrici che tendono a ripetere dei moduli capaci di scandire lo spazio con regolarità.


L’unione di queste due derivazioni culturali ha creato uno stilema artistico ben riconoscibile, che, se ben osservato è in grado di offrire notevoli spunti di riflessione. I lavori più recenti sembrano però  insistere maggiormente sulla valenza pittorica dell’opera: il colore si fa evocativo, all’interno di un’azione che tende a sovrapporre stratificazioni di realtà geometrizzate che offrono una sensazione di resa tridimensionale. Lo spazio di Selden diventa per questo una susseguirsi di frammenti regolari che si sviluppano in tutte le direzioni. In particolare sono le strutture verticali a offrire una precisa indicazione in tal senso. Esse appaiono concluse perché chiuse all’interno di un limite, ma la loro conclusione è solo un’illusione, un confine imposto dalla nostra idea di finito. I suoi moduli sono soltanto una presentazione di ciò che esiste, sono l’equivalente di ciò che potremmo vedere osservando un vetrino al microscopio, o un tratto di universo al telescopio.



Non è un caso che la visione di Selden sia almeno in parte “naturalistica”, proprio perché essa risulta tanto inoggettiva, quanto possibilmente legata a una rappresentazione “astratta” del vero. Nella sua arte si concentrano allora elementi di incredibile modernità uniti a una più tradizionale forza espressiva e drammatica. A testimoniare questa affermazione vi è la lampada a otto bracci che l’artista americano ha realizzato per il Museo dei Lumi casalese. Come ha scritto Elio Carmi, essa è l’unione di più linguaggi: patriottismo e iconicità americani, il medioevo ebraico in Italia e la cultura dei cenciaioli. L’opera è di fatto un racconto che, facendo riferimento anche alla storia personale dell’artista evidenzia lo spirito di accoglienza dell’Italia, il paese che ora lo ospita.

lunedì 2 dicembre 2013

le silenziose parole di marco porta

È un’arte silenziosa quella di Marco Porta e, nello stesso tempo, un’arte che ti costringe a ascoltare. Essa parte da un presupposto ossimorico, da una contraddizione che in poco tempo si scioglie, lasciando spazio a una serie di intuizioni che finiscono per far comprendere la preziosa estetica di questi lavorI.

La ricerca di Porta ha come epicentro l’uomo. Fin dalle sue prime prove era il corpo umano che veniva replicato in una sorta di mimesis naturalistica. Il corpo diventava parte di un sole, si proponeva in frammenti che, interagendo tra loro, costruivano delle entità pensanti, trasformavano in epica ciò che era un semplice racconto. Non è casuale, infatti, che almeno una parte della produzione di Porta possa essere idealmente unita all’arte dell’antica Grecia, ma, nello stesso tempo, porti con sé una componente che colloca lo scultore nel novero dei più attenti e originali artisti contemporanei.
Anche le strutture più asettiche (il pentacolo di “in una parola, sono già tre parole”, le figure geometriche di “togliere il nome alle cose”) se ben osservate rimandano anch’esse all’uomo. Il Pentacolo, proposto come un incrociarsi di rami coperti di spine, simboleggia la figura dell’uomo con le braccia e le gambe allargate, il microcosmo umano. In ogni figura geometrica può esserci un richiamo all’uomo, come nell’ottagono (il giorno della creazione dell’uomo) o il triangolo (l’uomo come corpo, anima e spirito).


Assolutamente particolari, invece sono le dieci piccole composizioni bronzee inedite. Esse si presentano come delle braccia che emergono dalla superficie del muro, che si staccano invitando l’osservatore a soffermarsi prima sull’oggetto poi su ciò che reggono, una sorta di moneta con un’iscrizione. Ne risulta una singola parola, poi su una frase, semplice, incisiva, densa di significati. Le parole di Porta compaiono magicamente. Non sono immediatamente visibili, bisogna soffermarsi e porre un minimo di attenzione. A quel punto essa emerge dal fondo compatto dalla faccia della piccola circonferenza, un graffio nel metallo. Poi ne compare un’altra, ed ecco che si compone quella frase che concretizza un pensiero dell’artista, che ci permette di condividere un attimo di meditazione, di accostare una sensazione per qualche tempo comune e che poi continua a fluttuare in un proprio universo.

martedì 26 novembre 2013

paolo borrelli, donne con i fiori nei capelli

Una tavolozza ridotta ai minimi termini per compiere una produzione monocromatica. Ciò che si nota immediatamente nella produzione più recente di Paolo Borrelli è questa essenzialità. Di fatto le sue figure, apparentemente semplici,  sono regolate su strutture geometriche dai rassicuranti contorni sinusoidali che si riempiono di un’insolita tonalità ricavata dall’elaborazione di un colore primario. Se il livello di giudizio si fermasse a questo punto si rischierebbe di non comprendere né la qualità estetica del prodotto di Borrelli, né la sua potenza simbolica.


Le sue figure emergono da un compatto fondo argenteo e sembrano distaccarsi tridimensionalmente da esso. In questo modo le forme sembrano prendere corpo, sembrano trasformarsi in citazioni di artefatti antichi. Esse diventano degli idoli cicladici dai ventri dilatati, veneri che richiamano la fecondità e la forza generatrice della natura femminile. È chiaro che questo discorso è condotto da Borrelli con una certa ironia poiché queste figure ornate (o forse impregnate) di fiori, sembrano delle ombre in cui si rispecchiano meraviglia e autocompiacimento femminile, esposizione di vezzi totalmente muliebri che si palesano in tutta la loro più pura evidenza.
La donna di Borrelli ci appare in tutta la sua sensualità, autentica protagonista di un gioco della seduzione che ci viene evocato anche dalla serie di opere dal titolo “Lingerie”. Non si tratta di citazione Pop, non c’è il carico esasperato di certa pittura provocatoria. Anche in questo caso l’artista sa comprendere che la forza dell’immagine sta nella sua ridotta essenzialità, nell’evocazione di una forma che ci riporta a dei segnali che noi percepiamo in tutta la loro composta finezza. Borrelli sembra richiamarsi a quelle figurine di cartone che le bambine amano coprire di vestiti dello stesso materiale: egli costruisce qualcosa di analogo, qualcosa che appare come le carte di un gioco da adoperare con sorridente malizia.


Ciò che egli produce non deve essere per forza letto come qualcosa di sequenziale. Egli, come è solito affermare, si avvale di forme e colori dispersi attorno a se stesso. Essi sono il suo bottino che trattiene e conserva, lo rimastica e lo ripete come una strofa. Sono forme che gli appartengono, nelle quali egli cade dentro, si impiglia, si appiccica.

giovedì 21 novembre 2013

la mostra di arte sacra a alessandria nel dicembre 1949 e alcuni episodi di censura

Nel dicembre 1949 sotto il patrocinio della Camera di Commercio di Alessandria e del Gruppo Artistico Provinciale(1) viene organizzata in Alessandria una Mostra Nazionale di Arte Sacra.
Cercando di ricostruire l’apparato iconografico della rassegna si evince che fossero presenti 123 opere divise tra pittura, scultura, ceramica, metallo e vetro. Chiaramente il tema dominante era quello religioso. Molte opere erano state realizzate da appartenenti al clero; tra queste viene ricordato un “Gesù” di Padre Angelico Pistarino, opera di maniera che sfrutta l’espediente dell’illuminazione del volto di Cristo, o un “Crocifisso” di Padre Fumagalli, assolutamente tradizionale nel segno e nella sostanza, come lo è pure l’”Annunciazione” di Padre Aldo Mei.
Più interessante, ma comunque costretta dalle indicazioni di un regolamento che cassava eventuali slanci interpretativi l’opera di un autore come Paolo Scapparone, che propose un “San Francesco rivive la crocifissione” nella quale si assiste alla spogliazione del poverello di Assisi in modo tale che possa identificarsi in Cristo e ricevere le stimmate. Un altro esempio positivo può essere ritrovato nell’“Ecce Ancilla Domini” di Gigi Morbelli, un dipinto nel quale si intravede l’ideale cristiano di contemplazione, analogamente al “Cristo deposto” e al “Cristo flagellato” di Gigi Cuniolo, anche se queste opere sembrano discostarsi dalla religiosità di facciata per valorizzare gli episodi in sé, accentuando gli aspetti prettamente pittorici. Infine le cinque ceramiche di Pippo Pozzi, autore capace di continuare il discorso del sacro con attenzione e acuto sentire. Oltre a questi pochi autori potrebbero essere citati Mario Baretta, Bruno Pruno, Gino Mazzoli, autore di una bella “Preghiera”, carica di contenuti realistici, Francesco Pasi, Nino Cassano, Gustavo Rossi, Mario Tassisto con una intensa “Crocifissione” e Gianni Patrone, autore di un affresco con la Sacra Famiglia che adornava il salone centrale chiuso da suggestive vetrate.



Nonostante la presenza di alcuni autori di buon livello – tra i quali anche Pietro Morando con il suo “Presepe” – il  risultato sarà assolutamente deludente come si può intravedere leggendo gli articoli in proposito pubblicati dalla stampa locale(2).
Il motivo dell’insuccesso della manifestazione – insieme a tutte le polemiche che hanno accompagnato questo evento – sono da attribuire soprattutto alla preoccupante e inopportuna intransigenza dell’allora vescovo di Alessandria. Monsignor Gagnor, il quale, attraverso uno dei suoi assistenti, impose delle regole molto severe relativamente alle opere da esporre, opere che dovevano rispondere esattamente ai canoni tradizionali dell’iconografia cristiana.
L’intervento del porporato alessandrino fu, per certi versi, devastante, in quanto provocò l’esclusione dalla mostra di artisti di rilievo nazionale. Per questo motivo e soprattutto in segno di solidarietà, alcuni pittori – tra i più importanti e conosciuti Felice Casorati – ritirarono le loro opere, con la conseguenza di impoverire notevolmente dal punto di vista artistico la manifestazione.
Sfogliando i giornali dell’epoca nel giudizio dei giornalisti traspare un evidente imbarazzato scoramento, senza mezzi termini si parla di “livello sconfortante” a proposito della mostra, si sottolinea che, nonostante l’enorme budget a disposizione il “risultato è palesemente negativo”, talmente negativo che pure l’onorevole Martino, allora sottosegratario alla presidenza del Consiglio, presente all’inaugurazione della mostra, rilevò nel suo discorso le notevoli carenze in proposito(3). Le motivazioni dell’insuccesso sono dovute soprattutto alla testardaggine della commissione religiosa(4) che con un atteggiamento censorio rifiutò un notevole gruppo di opere di grande valore. Oltre al già citato Casorati che quantunque non rifiutato scelse di ritirare il proprio lavoro, altri artisti avrebbero seguito il suo esempio portando via le loro opere se no vi fosse stato l’intervento di alcuni membri della commissione laica a dissuaderli. Le opere rifiutate furono sostituite da altri lavori, definiti “documenti di insipienza artistica”.
Fu questo, in sostanza, il motivo per cui la mostra fallì nel suo intento, fu dunque un attacco di censura ecclesiastica teso a impedire la liberta di espressione per valorizzare prodotti mediocri ma in linea con le direttive di una religione becera e oscurantista.
Tra gli interventi capaci di far riflettere quello di Pietro Morando(5) in una lettera pubblicata su Il Piccolo. L’intervento censura a sua volta l’operato della commissione ecclesiastica, unica colpevole delle esclusioni e solidarizza con gli artisti esclusi sottolineando la coerenza di un gesto come quello di Casorati. Ci si aspetterebbe, allora, un ritiro da parte anche di Morando, ma ciò non avviene perché Morando decide di partecipare alla Mostra d’Arte Sacra primeggiando sulle altre opere con il suo Presepio(6).

Fu dunque una pratica di censura preventiva quella operata dalla commissione del Vescovo Gagnor, una pratica che rappresentava il sistema più efficace per combattere la libertà di espressione, capace di indurre l’artista a un condizionamento tale da eliminare già alla fonte ogni situazione sgradita.
Soprattutto indirizzata contro le opere a stampa, la censura è ancora un mezzo per operare un ferreo controllo sul pensiero e sulla libertà di espressione, fatto di un sostanziale terrorismo, che un tempo si allargava a persecuzioni, incarcerazioni, torture e roghi.
La Chiesa ha sempre avuto un atteggiamento liberticida nei confronti di ogni manifestazione che in qualche modo potesse porre in discussione le proprie impalcature dogmatiche, ha sempre cercato di ricondurre la discussione non in chiave dialettica ma impostandola e imponendola come monologo.
Svolgere coerentemente e in libertà temi relativi al sacro è spesso operazione di impegno e di ingegno. È difficile essere innovativi di fronte a resistenze varie, spesso giustificate da un ottuso conservatorismo dettato più da motivi di opportunismo piuttosto che da autentici ideali estetici.
 Ne sa qualcosa il Caravaggio della prima versione del Matteo e l’angelo, una versione rifiutata dalla committenza perché il maestro aveva rappresentato il santo come un popolano analfabeta cui l’angelo guidava la mano durante la scrittura del suo vangelo(7), oppure Michelangelo la cui opera più famosa, il Giudizio Universale, ha subito la ricopertura delle parti più sconvenienti della nudità delle anime dei santi.
Un altro fatto significativo, e per certi versi esemplare, è avvenuto con l’elezione al soglio pontificio di Clemente VII nel 1592(8). Il 3 luglio dello stesso anno cominciò una visita nella basilica di San Pietro e poco dopo capitò davanti alla tomba del suo predecessore Paolo III che Guglielmo della Porta aveva completato nel 1574. La statua in bronzo del defunto pontefice era scortata da quattro statue marmoree di donne destinate a rappresentare le virtù che avrebbero illuminato il suo lungo pontificato: la Giustizia, la Prudenza, la Pace e l’Abbondanza. Tre delle quattro statue erano evidentemente discinte e, a giudizio di Clemente le virtù che dovevano simboleggiare non le difendevano dalla taccia di lascivia. Egli le giudicò indecenti e ordinò che fossero rimosse o almeno coperte. Così avvenne, anche se grazie all’intervento di Annibal Caro tre delle quattro statue rimasero come erano; soltanto  la più giovane delle figure femminili fu coperta da un pesante drappo metallico che ancora oggi è un tutt’uno con la statua del Della Porta.
Nel 1940 – 1941 Guttuso affrontò un tema che lo pose immediatamente a confronto con la raffigurazioni di figure di grandi dimensioni: la Crocifissione sul Gogota(9). Si trattava di una mansione ardua, ma il pittore vi lavorò con grande impegno che ne risultò un “quadro/manifesto”. Per sganciarsi dalla tradizione di questo motivo dipinto in mille modi diversi, all’inizio Guttuso penso perfino di ambientare la scena in un interno, per conferirle un impatto drammatico più originale possibile. Alla fine scelse lo spazio aperto, sfaccettandolo e stratificandolo, trasformandolo in un prisma spaziale che si rifletteva sulla superficie. Rappresentò le tre croci in diagonale, l’una dietro l’altra per sfaccettare e limitare i piani dello spazio. Poche figure secondarie: due cavalieri, tre donne piangenti una delle quali è la Maddalena che, nuda, si protende verso Cristo per pulirgli le ferite. La Crocifissione ebbe una risonanza straordinaria. Ottenne nel 1942 il secondo posto al prestigioso Premio Bergamo. Ma ciò ebbe come conseguenza l’alzata di scudi del mondo borghese e della Chiesa, che si indignarono per la figura della Maddalena nuda e stigmatizzarono l’artista siciliano come “pictor diabolicus”.
Ma quanti altri artisti sono stati colpiti da una sorta di censura? Quanti artisti hanno dovuto modificare la loro idea originaria subendo il ricatto della committenza? Quanta possibile creatività è stata contraddetta di fronte agli sguardi perplessi di chi ordinava l’opera d’arte? Ovviamente non c’è risposta, è possibile solo supporre, come ha fatto Marco Santagata, l’autore del Maestro dei Santi Pallidi, uno straordinario libro pubblicato da Guanda, vincitore del premio Bancarella 2003, nel quale il protagonista, un frescante attivo durante i primi anni del Quattrocento, ha un’intuizione straordinaria per affrontare in modo innovativo il tema dell’ultima cena, un’intuizione, quella di unire in un unico punto di vista Cristo e spettatore, che non viene compresa dalla committenza e viene interpretata come blasfema, sacrilega.

Per comprendere però l’atteggiamento della Chiesa è opportuno scendere ai livelli più bassi della dinamica sociale. L’arte spesso è un mezzo del mondo politico – dal quale non è assolutamente estranea nemmeno la Chiesa –  per ottenere consensi. Un fatto appariscente che non ebbe come protagonista diretto un appartenente al clero, per esempio,  fu relativo al comportamento del sindaco di New York Rudolph Giuliani che, durante la propria campagna elettorale, volendo dare l’impressione di una moralità ferrea, non esitò a censurare una Madonna di Chris Ofili perché conteneva immagini tratte da riviste porno e dello sterco e offendeva la sacralità del soggetto. Non stiamo a spiegare i significati simbolici dell’opera, assolutamente opposti alle paventate accuse di blasfemia urlate dal politico italoamericano: l’azione di Giuliani fu approvata dal clero, ma, come un boomerang, ritornò contro i detrattori dell’opera e favorì un enorme successo per l’autore di origine nigeriana e per la sua opera.
Usi simili della censura si sono avuti in altre numerose occasioni, dal “Piss Christ” di Andrea Serrano, un’opera in cui un crocifisso appare fotografato mentre fluttua nell’urina, alle fotografie dei membri eretti di Robert Mapplethorpe, alle opere di Maurizio Cattelan tra le quali è molto conosciuta la “nona ora” nella quale Giovanni Paolo II è steso a terra colpito da un meteorite.
È chiaro che la censura varia, da luogo a tempo e ultimamente la Chiesa presta ancora molta attenzione nell’oscurare il lavoro di certi artisti, anche se, nello stesso tempo, si dimostra assai più cauta. Soprattutto ai giorni nostri, colpendo un’opera ci si mette contro ben poca gente e si rischia di fare la felicità di qualcuno, cioè dell’autore, del gallerista, dei collezionisti, del curatore della mostra, grati di tanta pubblicità. L’arte, poi, conserva un valore simbolico imprescindibile, è un veicolo di un modo di pensare, di uno stile. Censurare, per la Chiesa, significa indicare quali valori ritiene importanti e non intende permettere di trasgredire. Infine, censurare un’opera d’arte è un’azione “a buon Mercato” perché colpisce un pubblico molto piccolo, ma la risonanza rischia di essere enorme, con il rischio di un ritorno mediatico che permette di ottenere per qualche giorno gli onori della cronaca e addirittura dividere la stampa tra favorevoli e contrari, con le conseguenze del caso.
La verità è che ogni epoca ha una sua censura e delle precise dinamiche legate a essa. In ogni caso, nonostante l’atteggiamento apparentemente benevolo,  dettato più da opportunismo di facciata piuttosto che da autentici propositi dottrinali, sembra che la Chiesa non voglia comunque lasciar spazio a un’interpretazione artistica che possa mettere in discussione, anche solo per un attimo, le sue monolitiche istituzioni. Per cercare una spiegazione è solo possibile fare delle supposizioni. La paura della Chiesa è probabilmente il sacrilegio, un sacrilegio multiforme, difficile da individuare,  nel quale è possibile individuare soprattutto un neanche troppo malcelato contenuto sessuofobico. 
Ormai, comprendendo che censurare è comunque favorire la diffusione di un determinato prodotto, la Chiesa si rivolge soprattutto alla difesa di se stessa e dei suoi simboli, come si evince da questo fatto di cronaca, un fatto che esplicita un’azione censoria che travalica i vecchi confini della censura e agisce direttamente sull’informazione, con la connivenza dei media, stroncando preventivamente e inopinatamente qualsiasi tentativo di discussione. L’11 novembre 1993 Giovanni Paolo II, ricevendo in udienza alcuni pellegrini, cade improvvisamente lussandosi una spalla. Dopo alcuni minuti i funzionari vaticani sequestrano tutte le pellicole dei reporter presenti e a nessun giornale viene consentito di pubblicare quelle foto. Il motivo addotto è che ciò arrecherebbe un grave danno al prestigio della Santa Sede. In questo atteggiamento si riesce a percepire, quasi estremo, il senso del sacrilegio, della profanazione di una persona che riveste un’auctoritas superiore, emanata direttamente da Dio(10).


(1) Il Gruppo Artistico Provinciale (GAP) si costituisce alla fine degli anni ’40 con l’intenzione di riunire in una sorta di consorzio tutti gli artisti attivi nella Provincia. Il gruppo è accessibile ai soli artisti, ma in modo pressoché indiscriminato, poiché, badando più agli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi, vengono ammessi sia artisti dilettanti, sia artisti professionisti; per questo il livello medio del gruppo è piuttosto basso. Il GAP raggiungerà la soglia dei 250 iscritti. Non è un caso che dopo poco tempo, alcuni artisti come Botta, Bruno, Canestri, Scapparone, Sassi, Taddei e Vignoli usciranno dal GAP per fondare un nuovo gruppo in onore di Pelizza da Volpedo (GPdV) capace di difendere la professionalità degli artisti di fronte allo scadimento qualitativo del GAP.
(2) Il Piccolo, dicembre 1949 e gennaio 1950.
(3) Tra le parole dell’onorevole Martino è importante riportare questo stralcio del suo discorso: “...negli ultimi secoli l’arte sacra è diventata dolciastra “arte alla saccarina”. Purtroppo tale decadenza è una realtà tangibile alla quale hanno contribuito (come causa accidentale) coloro i quali dovendo scegliere opere a sfondo religioso esigevano dall’artista bozzetti riproducenti temi già noti creati dai giganti dell’arte, producendo in tal modo pessimi plagi”.
(4) Per la scelta delle opere da esporre fu istituita una commissione giudicatrice composta da membri “laici” e membri “ecclesiastici”
(5) ) Il Piccolo, gennaio 1949.
“ci sentiamo in dovere di chiarire il grosso equivoco provocato dagli organizzatori della Mostra d’Arte Sacra. Ci è spiaciuto che artisti di fama nazionale siano stati rifiutati dalla commissione ecclesiastica. Il gesto ha sminuito il valore della rassegna d’arte e ha provocato anche il ritiro delle opere di un grande pittore quale è Felice Casorati. Un fatto simile non credevamo potesse avvenire in Alessandria, città che vanta una grande e nobile tradizione artistica. Nella provincia di Giovanni Migliara, di Medardo Rosso, di Pelizza da Volpedo, di Angelo Morbelli, di Cesare Tallone fino a Carlo Carrà, l’atto ha rasentato l’offesa all’arte. Noi ci sentiamo il dovere perciò di manifestare la solidarietà con gli artisti ingiustamente esclusi e protestiamo anche se qualcuno dei nostri amici non ha voluto, per la buona riuscita della mostra, imitare il giustamente risentito gesto di Casorati. E vogliamo dire al pubblico alessandrino che gli autori rifiutati sono artisti di grande valore.
(6) Dino Molinari, Appunti per una storia del collezionismo alessandrino, nel più vasto quadro della nostra cultura figurativa del ‘900, in Rivista della Camera di Commercio di Alessandria, parte seconda, n. 1, 2002. a proposito di quest’ultimo episodio conclude ironicamente il suo scritto dicendo: “questa è una perla di un’antologia tutta da scrivere sulla ordinaria extra-vaganza alessandrina”.
(7) Episodio riportato da parecchi saggi su Michelangelo Merisi. In proposito due interventi paiono decisamente più critici: R. Bassani, F. Bellini, Caravaggio Assassino, Donzelli, Roma, 1994 e D. Fo, Caravaggio al tempo di Caravaggio, Franco Cosimo Panini, Modena, 2005.
(8) R. Zapperi, la leggenda del papa Paolo III, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
(9) W. Haftman, Guttuso, Giunti, Firenze, 2005.
(10) P. Marazzanio, la Chiesa che censura, Massari Editore, Bolsena (VT), 1995.

lunedì 18 novembre 2013

alberto boschi: oltre il nero oltre il colore

Due aree nettamente separate dello spazio espositivo ospitano un significativo numero di opere di Alberto Boschi; da una parte gli esiti della grafica, dall’altra i lavori pittorici. Ma la divisione tra i due gruppi di opere è solamente tecnico, poiché, dal punto di vista spirituale e estetico i soggetti trattati da Boschi sono gli stessi.


Boschi ama rielaborare ciò che gli offre la natura che lo circonda. Egli è un pittore che interagisce con la realtà, si lascia penetrare empaticamente da questa per donare alla vista un prodotto di altissima qualità pittorica. L’avvicinamento alla sua opere avviene attraverso la percezione della ricchezza cromatica della sua tavolozza che egli adopera totalmente, costruendo le migliaia di sfumature alla base dei suoi componimenti. A volte, come avviene in alcune opere grafiche, i colori sono dei lampi che riescono a equilibrare dinamismi centrifughi infine costretti a situazioni di calma primordiale; a volte, come invece appare più evidente nel lavoro pittorico, i colori sono parte di un processo in divenire, un immergersi ravvicinato nella ciclicità stagionale alla quale Boschi partecipa con tutto se stesso. In questo caso il colore che appare dapprima confuso, sembra poi mischiarsi in densi gorghi magmatici che si dissolvono in apparizioni di forme che finiscono per costruire parti di universo assolutamente riconoscibili.



Il secondo step percettivo è indirizzato a far comprendere l’elemento segnico. Si tratta di un processo consequenziale a quello cromatico, poiché la stesura stessa del colore sulla tela o, per la grafica, l’incisione della lastra di zinco, determina una sottile linea di confine tra una tinta e un’altra, tra un’area più marcata e un’altra. È proprio questa linea di confine che diventa immediatamente quel segno su cui Boschi comincia un’azione gestuale che dimostrerà l’adattabilità della materia. In questo modo la materia è costretta di volta in volta a assottigliarsi fino alla diafanità o a raggrumarsi fino alla tridimensionalità. Le superfici tendono così a modificarsi, dando l’impressione di potenti variazioni telluriche, di innalzamenti e sprofondamenti, di un filosofico trascorrere del tempo che per Boschi diventa elemento essenziale nella descrizione del sua straordinaria realtà.

lunedì 11 novembre 2013

chine di enrico colombotto rosso per giorgio panelli

La motivazione alla base di questa piccola rassegna è sostanzialmente quella di continuare a mantenere viva la memoria presentando dei lavori, possibilmente inediti, di Enrico Colombotto Rosso. In questi termini, la sede di Villa Vidua di Conzano (che Colombotto Rosso definì “un punto di arrivo”) si accinge a diventare luogo privilegiato in tal senso, con l’intenzione di proporre con appuntamenti più o meno fissi, testimonianze della poliedrica attività di questo autore.
Nel 2008 Piergiorgio Panelli completò una propria silloge di componimenti poetici. Era un periodo difficile della sua esistenza, durante il quale senti l’esigenza di descrivere queste sue sensazioni avvalendosi anche del testo poetico, oltre che di quello pittorico, più tradizionalmente legato alla suo modo di esprimersi. Trascinato da un sincero legame di amicizia chiese a Enrico Colombotto Rosso di illustrare alcuni suoi testi: alla fine nacque questa raccolta di quindici chine che offrono un’interpretazione ulteriore a i versi di Panelli.
Oltre al valore estetico di questi lavori è opportuno sottolineare che ogni disegno si connette perfettamente al testo di Panelli. L’operazione di Colombotto Rosso non fu “di maniera”, egli produsse qualcosa che si legava indissolubilmente al testo e che faceva emergere quegli aspetti più cupi del momento immortalato da Panelli, aspetti rinchiusi tra le pieghe delle parole, che il pittore torinese è riuscito a cogliere grazie alla sua straordinaria sensibilità.
Questi lavori potrebbero essere fruiti anche se separati dal testo per il quale nacquero, ma, nonostante tutto, perderebbero parte della loro forza, di un’energia che riesce a spiegarne tutta la grazia oscura e goyesca; questi lavori non perderebbero nulla della loro bellezza anche se dovessero essere osservati separatamente, ma sicuramente diventerebbero simili a esercizi di stile, frasi compiute che però non riuscirebbero a completare il senso di un discorso più ampio.
Forse, anche sulla scia di questa esperienza, Colombotto Rosso cominciò a lavorare all’illustrazione dei “Fleurs du mal” di Baudelaire. Ne venne fuori un libro di alcune centinaia di pagine in cui egli raccoglieva frammenti di versi del poeta francese e ne mostrava un significato, proprio attraverso i suoi disegni. Forse  un piccolo testamento spirituale che potrebbe offrire un ultimo dato di interpretazione alla genialità dell’ultimo surrealista.

lunedì 4 novembre 2013

gioco a bra_palazzo mathis

È una mostra particolare, di difficile giudizio critico. Per questo è impensabile soffermarsi sull’opera di un singolo artista (tutti attivi in Piemonte soprattutto nel Novecento), per questo bisogna considerare la rassegna alla luce dello sviluppo di un tema, quello del gioco, e concentrarsi solo su questo. Qualsiasi altra operazione risulterebbe discutibile.
Sicuramente il lavoro del curatore, Gianfranco Schialvino, è stato imponente, soprattutto nel momento in cui ha dovuto individuare i percorsi capaci di valorizzare dei lavori che, decontestualizzati dal corpus di un artista, appaiono quasi spauriti. Eppure, vi è qualcosa che funziona e ci porta a comprendere l’assetto di un discorso polifonico che si afferma per il suo carattere complessivo. Ne risulta una commistione di stili, scrive il curatore, progetti e provocazioni che accentua le disparità più evidenti per invogliare a individuare le affinità, le concordanze e le intenzioni, sorprendentemente parallele quando non addirittura convergenti.
L’attenzione al mondo del gioco ha fatto sì che molti artisti, fin dall’antichità raccontassero qualcosa di questa intrigante attività. Il gioco è fatto per lasciare spazio alla libertà di esprimere se stessi e la propria fisicità, per far confrontare il proprio intelletto con quello degli altri, per rispettare delle regole. È in questi termini che devono essere lette molte di queste opere. Però, se da un lato si può facilmente percepire l’aspetto “documentaristico” di molti artefatti, dall’altro, l’azione interpretativa è sicuramente più ardua. Allora, ecco che entra in gioco – metafora quanto mai opportuna – l’arte, nella sua accezione ludica. In fondo, alla base di moltissime opere si percepisce la precisa volontà da parte dell’artista di “divertirsi”, di giocare con la sintassi figurativa per creare combinazioni di frasi. In questo senso devono essere percepiti molti dei lavori esposti, come, per esempio, le due terrecotte dipinte di Enrico Colombotto Rosso. Infatti, già la particolarità del materiale, insolito per questo pittore, è da pensare come un’indicazione ludica, cui si aggiunge l’accesa cromia che costruisce la struttura fisica dei volti, altro dato insolito che testimonia l’idea di giocare con i colori e la materia in un lavoro assolutamente suo.


lunedì 28 ottobre 2013

harari - alper: obiettivo sulla musica

Seguendo il pensiero di Charlotte  Cotton, importante critico fotografico contemporaneo, le foto di Guido Harari e Joe Alper, relative alla documentazione di “ambienti musicali”, si potrebbero collocare a metà strada tra la narrazione storica e la descrizione delle relazioni emotive. L’attività dei due fotografi  (Alper è morto nel 1968 a 43 anni) è messa a confronto in una interessante rassegna al Labirinto di Casale Monferrato, nell’ambito del festival Book & Blues, e questo confronto ci permette di comprendere che la forza della loro arte sta nel fatto che entrambi cerchino di porre i propri soggetti su un piano “umano”, sfrondando le loro esistenze di quegli aspetti che invece vorrebbero collocarli all’interno di una percezione totalmente idealizzata.


Attualmente, afferma Guido Harari, è impossibile operare una documentazione non ufficiale, non controllata da un sistema che ci tiene a conservare un’immagine iconica e trascendentale della star. Fare fotografie come quelle che egli scattò tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, quelle che noi apprezziamo maggiormente perché descrivono l’esistenza di un musicista nella sua quotidianità lavorativa, nei suoi affetti, nel suo lato meno ponderato e più casuale, è ormai impossibile.  


La sequenza dinamica, quasi famigliare di certi servizi (memorabile quello sul giovanissimo Bob Dylan di Alper, del 1962) diventa una sorta di diario di intimità umana. È quasi come se il fotografo raccontasse anche qualcosa di sé, esplicitando un rapporto di conoscenza che va al di là della semplice esperienza di lavoro. Harari racconta che è anche per la sua amicizia con Lou Reed e Laurie Anderson se è stato possibile concludere degli scatti che ritraggono i due musicisti in una luce priva di drammaticità, esplicitandoli in una sensazione immaginativa priva di grande importanza, ma assai efficace emotivamente.
In questo senso, gli scatti di Harari e Alper si collocano nella nostra memoria, invitandoci a diventare consapevoli di ciò che vediamo, concentrandoci su sul senso profondo di queste fotografie che danno forma alle nostre emozioni e alla nostra visione del mondo. Non facciamo fatica a comprendere la profondità dell’elemento culturale di questi documenti visivi che, a volte, ci appaiono come frammenti di film degli anni passati che noi cominciamo immediatamente a leggere come storie evocate dalle immagini.

lunedì 21 ottobre 2013

la leggerezza della scultura_VIII edizione

L’idea di esporre delle sculture in uno spazio aperto, a contatto con la natura, nasce dall’esigenza di dare a questa particolare tipologia di opera d’arte una collocazione “organica”: l’opera, più direttamente a contatto con gli elementi esterni, subisce un processo di deterioramento che, anziché impoverirla, la arricchisce. Ne consegue una trasformazione che conduce lo scultore a dover operare anche una riflessione sul tempo, o meglio, sulla capacità della scultura di resistere, oppure no, ai secoli, eternando quella  forza misteriosa che mette in relazione lo scultore alla materia adoperata.
Si può dire che l’artista abbia un ruolo privilegiato per compiere questa operazione, perché dotato di una maggior capacità percettiva, una sensibilità che però gli impone un’azione forte e rispettosa. Infatti, l’opera d’arte suscita più emozione se si percepisce proprio l’atteggiamento di rispetto dell’artista nei confronti dei materiali che costituiscono la sua opera e del consequenziale rapporto che egli ha nei confronti dell’ambiente nel quale la colloca. 
La natura è ai nostri occhi casuale, il suo disegno è imperscrutabile, dotato di una bellezza selvaggia che difficilmente possiamo afferrare nella sua totalità. L’uomo si pone razionalmente nei suoi confronti, sfruttando ciò che gli è stato messo a disposizione e lavorando in modo da ordinare ciò che ordine non ha. Dunque, dare un ordine, rispettare il rapporto tra l’ambiente e l’artefatto è ciò con cui gli artisti che partecipano alle varie edizioni della “Leggerezza della Scultura” devono fare i conti. La natura è un contenitore di difficile gestione e il rischio è quello di non riuscire a trovare un codice per compiere un dialogo di sicura efficacia. Tenendo però conto della qualità dei lavori esposti e della caratura degli artisti, l’attuale edizione, decisamente più internazionale rispetto alle altre, ha risolto brillantemente questo “problema”. Chi, come Tornquist, Kasimir, Roasio e Mirashi, utilizza un cromatismo amimetico; chi, come Contiero, Santini, Biasi e Ghinzani, adopera un segno in palese e voluta disarmonia con ciò che lo circonda; chi, come Medina-Campeny, Liberatore e Porta, integra il proprio lavoro con lo spazio naturale usandone gli elementi; chi, come Benetta, e Borthwick, crea un riferimento altro, evocando però lo spazio e il tempo di un’azione.

lunedì 14 ottobre 2013

claudio olivieri: le carte degli anni '50

Ciò che colpisce dell’opera recente di Claudio Olivieri, opera con la quale abbiamo avuto vari e importanti incontri, è la sua capacità di adoperare il colore per raccontare lo spazio, per modulare, attraverso una pura operazione spirituale, una sorta di suono che fluttua nell’infinito, fino a perdersi e a confondersi nelle sfumature poste ai margini di quelle campiture diafane, private completamente di consistenza materica.

Ora scopriamo qualcosa che ci avvicina ai suoi esordi, qualcosa che ci fa comprendere l’evoluzione di un artista attraverso una serie di piccoli lavori, tutti risalenti ai tardi anni Cinquanta del secolo scorso. Si tratta di disegni e tempere in cui il nucleo è formato da velature di colore, velature tanto inconsistenti quanto evidenti, talvolta completate da tracce di pastello che offrono una parvenza volumetrica alla diafanità delle composizioni. È sicuramente un lavoro complessivo che ha alla base la volontà di compiere una ricerca sulla luce, sulla fisicità brumosa della realtà, realtà che assume una forma nel momento in cui è il rapporto tra colore e segno a dargliela.
In queste opere appaiono già le tracce della futura ricerca di Olivieri, vale a dire, riducendo il concetto a una valenza elementare, il colore e la luce che divengono segno. Talvolta riuniti in uno stesso lavoro, oppure separati, questi elementi danno conto di un ritmo costante, regolato da pause che apparentemente  sembrano offrire alla lettura di questi fogli una sorta di casualità. Al contrario, la realtà si fa sequenziale, alternandosi a materiche increspature della carta, in una pittura che sembra sciogliersi come neve al sole, in tempere dai toni ineffabili, ricche di un’informalità che appare come una nuvola gonfia di vapore. 

Queste opere sono però legate a una poetica cosciente che si lega a una rappresentazione priva di materia, in cui la leggerezza risulta assumere un rilievo da protagonista. In questo senso l’Olivieri di quegli anni si discosta dall’Informale: la fisicità di questi lavori sarà soprattutto nel segno che si fa regola operativa, nel controllo di una dimensione che cerca di convogliare in un attimo un universo di vita.

lunedì 7 ottobre 2013

carlo pedenovi tra pittura e scultura

Se fossimo chiamati a ricordare ciò che caratterizzò principalmente la vita di Carlo Pedenovi, credo che molti di noi lo rammenterebbero nella sua attività di alpinista. Ma, la sua attitudine non fu solo questa, non si limitò alla qualità delle scalate in montagna, poiché fu altrettanto valida la sua produzione artistica, che quasi parallelamente ne condizionò lo spirito, rappresentando il mezzo espressivo con il quale, forse, riusciva a eternare e concretizzare questa sua passione.
Le opere di Pedenovi hanno qualcosa di arcaico e di misterioso. Esse sono ridotte a quell’essenzialità che appartiene a chi possiede la chiarezza della progettazione, a chi sa collocare i suoi prodotti artistici all’interno di una tradizione che non può essere considerata solo modello, ma anche una ricerca da portare avanti instancabilmente. La sua produzione alterna pittura e scultura, insistendo su alcuni temi (i cavalli, i ritratti, le vele, gli abitanti delle montagne), ma, mentre nell’opera pittorica le tensioni spaziali e strutturali sembrano placarsi, come se fossero avvolte in una bruma che tende a contenere le figure per trasformale in ectoplasmi per i quali viene annullato ogni rapporto con il tempo, nella scultura egli raggiunge esiti di altissima espressività. 
Nelle sue composizioni plastiche, sempre rigorosamente organizzate in ritmi lineari molto nitidi, l’immagine diventa struttura. Il suo stile, soprattutto nelle opere non prettamente ritrattistiche, nelle quali si intuisce una ricerca di equilibrio protorinascimentale di martiniana memoria, è estremamente dinamico e la descrizione del profilo diventa un tema dominante. La forza della linea determina una composizione limpida, scandita da un ritmo che si impone e diventa omaggio alla storia dell’arte. Il chiaroscuro che talvolta divide nettamente le superfici delle sculture giunge dalla rielaborazione della monumentalità antica, dal pacato incedere dei kouroi arcaici. Essi, assunti a simbolo generico del lavoro dello scultore, nell’idea conclusiva di Pedenovi, si alleggeriscono staccandosi dalla materia e divengono trasfigurazioni collocati in un eterno presente, trasfigurazioni che si caratterizzano per l’intensa forza lirica dell’immagine e, appunto, per l’essenzialità della forma.

lunedì 30 settembre 2013

il segno dipinto

Potrebbe essere definito un piccolo “movimento di gusto”, parafrasando un’affermazione di Lionello Venturi, nel senso che questa iniziativa artistica, dall’interessante carattere retrò, rappresenta un riflesso della cultura del proprio tempo, un’apparizione di quella varietas che appare assai vitale a chi vive e affronta quotidianamente la “provincia”.
Di fatto, si è assistito a un’esperienza espositiva che ha sancito la formazione di un gruppo, un gruppo non solo tenuto insieme da rapporti di amicizia, ma anche caratterizzato dalla solida preparazione tecnica che ha eletto il “segno dipinto” come elemento di affermazione della libertà culturale, di disponibilità delle espressioni d’arte per raffigurare senza retorica la loro realtà.


Percorrendo i lavori di questi artisti si riescono a trovare dei caratteri comuni che, quasi immediatamente, vengono accantonati, superati da identità proprie che individuano le radici di un’espressività fatta di stratificazioni, di contatti reiterati e di discussioni. La loro però è un’esperienza di “arrivo”, in quanto ciascuno ha già maturato un proprio percorso che sembra avere in questo momento più il carattere di un confronto, una comparazione per  sottoscrivere una sorta di manifesto capace di far riflettere su determinate scelte estetiche.
Pertanto, i lavori di Antonio Barbato, aspri e essenziali, apparentemente privi di movimento ma impostati su spazi che tendono alla drammatizzazione, di Pio Carlo Barola, calati in atmosfere idilliache piene di simboli vagamente onirici, di Gianpaolo Cavalli, in cui dominano figure bruno-rossastre spesso risolte con pacata linearità, di Luigi Corteggi, nei quali le immagini si trasformano fino a diventare fantastiche e astratte, di Mauro Galfrè, che lasciano intravedere palesi elementi decadenti e che esprimono l’ambiguità di uno stato di sogno che filtra la realtà e di Gianfranco Penna, che sembrano concentrarsi  su quegli elementi lirici che trasformano le sue immagini in inquietanti  presenze, devono essere percepiti non tanto come il risultato di un’esperienza comune, ma come parti di un discorso che mira a creare una tendenza in grado di reinterpretare il valore spirituale dell’opera d’arte.

domenica 15 settembre 2013

la realtà di nadir montagnana

Un’arte aspra e particolare. Il lavoro di Nadir Montagnana potrebbe essere sbrigato con questi due aggettivi: il primo evidenzia una linearità rugosa in cui le tinte sono mischiate con sapienza per ottenere particolari effetti stranianti; il secondo fa riferimento alla collocazione stilistica, a metà tra il figurativo e il segnico/informale. A questa seconda affermazione è però doveroso aggiungere un’ulteriore riflessione, in quanto, in quelle linee che sembrano descrivere dei profili  di paesaggi, Montagnana non intende rintracciare un’immagine riconoscibile, ma proprio per il fatto che egli si impone di non rintracciarla, di fatto, la realizza a livello di sostanza, in un contesto di visibilità che percepiamo immediatamente.



La sua è un arte di ricerca, caratterizzata da una replica di soggetti analoghi gestita con enorme acume. L’artista propone nell’effetto casuale una correzione di quella prevedibilità che ci si potrebbe aspettare. Possiamo pensare a un’arte statica, un’arte controllata che fa emergere oscuri frammenti di realtà. Sicuramente si possono intravedere questi elementi, ma non bisogna dimenticare l’aspetto simbolico di questi lavori, aspetto tanto più problematico da percepire quanto più aderente a ciò che si lega alle emozioni e ai sensi di ciascuno di noi. La realtà di Montagnana porta a una visione del mondo particolare, probabilmente carica di vitalismo. Per cui, almeno l’ultima fase della produzione di Montagnana deve essere vista e interpretata come una rappresentazione organica del mondo visibile. La sua drammatizzazione si muove all’interno di un’indagine tellurica in cui vengono evocati i momenti di sconvolgimento terrestre. Pur priva di una fisicità materica, ciò che è ottenuto da questo pittore è comunque calato proprio nel campo del percepibile, poiché esso vive di forme che possono essere ricondotte al mondo lacerato della rappresentazione oggettiva. La sua è un’arte fortemente contemporanea, tra le poche che riescono a capire che la nostra realtà ha iniziato un fatale riflusso dal mondo degli oggetti e cerca di opporgli attraverso l’elemento apparentemente casuale della forma e del colore, l’unico “muro visibile” della semplicità di un profilo che da sempre circonda i nostri spazi.

lunedì 9 settembre 2013

enrico colombotto rosso: alcune riflessioni sulla sua opera

L’opera di Enrico Colombotto Rosso si snoda su un arco di tempo di quasi mezzo secolo, indicativamente, dagli anni ’50 al primo decennio del 2000. Probabilmente, il periodo migliore della sua produzione fu quello dei primi decenni del suo operare, fino al momento in cui – negli anni Ottanta – cominciò gradatamente a abbandonare l’olio la tela e quella tavolozza satura e “decadente”, per dedicarsi all’utilizzo della tempera, della china e, quasi in modo consequenziale, alla produzione su carta.

È chiaro che con ciò non si vuole affermare un venir meno della valenza estetica della sua opera, ma sicuramente la potenza espressiva di quella prima fase lasciò spazio a una seriazione  più marcata che determinò un ovvio mutamento dei valori artistici dei singoli prodotti.

È per questo che la mostra di Casale Monferrato diventa esemplare. Si tratta infatti di un’esposizione che racconta la grandezza di Enrico Colombotto Rosso attraverso quei quadri e degli assemblaggi in contenitore (scatole che si riempiono di oggetti e che determinano curiose e svariatissime composizioni) di quei primi decenni, quelli che lo fecero diventare il “poeta del fantastico” che tutti conosciamo. La sua produzione si incentra sulla drammatizzazione di personaggi che spesso si stagliano su sfondi indefinibili, degli eroi solitari che appartengono a universi in cui domina il dolore. Sono esseri malati sui quali si riflettono le nostre angosce e meschinità. Sono apparizioni oniriche, delle rielaborazioni degli incubi romantici che animano le nostre notti.

L’arte di Colombotto Rosso però non fa paura, non suscita sentimenti di repulsione. Essa è magnetica, ci attira come se stessimo riflettendo la nostra immagine in uno specchio e potessimo comprendere tutto l’orrore del nostro esistere, un orrore che, come nel Dorian Gray di Wilde, ci permette di mantenere quell’aspetto più umano per poter convivere con i nostri simili. È dunque una pittura d’atmosfera, leggera e densa di citazioni colte. Infatti, nella produzione pittorica di Colombotto Rosso sono evidenziabili alcune componenti letterarie che, in modo del tutto generico, potrebbero appartenere al fantastico, a quel mondo grottesco intorno al quale sembra ruotare tutto il suo universo poetico.



venerdì 6 settembre 2013

enrico colombotto rosso e il suo mondo fantastico

Chissà se è mai esistito il ragazzo di Edimburgo e ora, quanti anni avrebbe? Sarà ancora vivo o avrà già raggiunto l’eternità? Quando chiesi a Enrico Colombotto Rosso qualcosa relativamente a quel dipinto mi disse che aveva colto il movimento di uno studente e lo aveva riprodotto, come si fa in una scena di genere. Lo dipinse nel 1956, rappresentando su un fuligginoso sfondo dorato due inquietanti figure, due esseri malati che si stanno rincorrendo. La figura in primo piano sembra, colta da improvvisa angoscia, precipitare in un abisso, risucchiata dal bordo inferiore del quadro; il ragazzo di Edimburgo (che dà il titolo al quadro), proposto a figura intera, ha qualcosa di innaturale nella sua corsa, è scomposto, ma, inesorabilmente andrà pure lui verso l’abisso. È un lavoro magnetico, dotato di una misteriosa forza, bello nella sua essenzialità e nel suo compatto equilibrio formale.



Anche di fronte a un’opera come questa, si comprende che Enrico Colombotto Rosso è stato  uno dei più accattivanti, misteriosi, affascinanti artisti piemontesi attivi in Europa durante la seconda metà del scolo scorso. Latore di un’arte vicina al Surrealismo ma obiettivamente di difficile catalogazione, nel lavoro del pittore torinese si rileva comunque una traccia dell’estetica di culture antiche e di citazioni che hanno travalicato le barriere del tempo. In questo modo si può capire che ciò che ha prodotto per tutta la durata della sua vita non ha origine, e, teoricamente, potrebbe essere ascritto a qualunque momento della vicenda storico artistica di ogni dove.

La sua pittura è inquietante, è spesso esibizione di monstra che appaiono vomitati da chissà quale inferno. Le sue figure sono freaks malvagi, demoni anoressici che tentano una difficile metamorfosi, un impossibile cambiamento. Il loro stato non è definibile, sono esseri pallidi, creature notturne che popolano mondi malati, mondi nei quali è l’urlo ad imprimere l’unica possibilità di comunicazione. Sono esseri rantolanti che appaiono all’improvviso, vampiri che, simili ad immondi parassiti, ti svuotano di ogni energia vitale. Sono creature che vivono nelle periferie di città deturpate dall’orrore, nei video di Marylin Manson, nelle tavole di certa fumettistica, sono creature che strisciano negli incubi e si nascondono nell’ombra delle cantine.

Ma l’arte di Enrico Colombotto Rosso non può essere solo questa, sarebbe estremamente riduttivo limitarsi a queste considerazioni. Infatti, osservando meglio i soggetti delle sue tele, avendo il coraggio di penetrare nel quadro facendosi assorbire dai traslucidi riflessi delle tinte assolute adoperate dal pittore per determinare queste figure, ci si rende conto della densità estetica di questi lavori.

Oltre al valore pittorico in senso assoluto, ciò che noi percepiamo durante l’osservazione di queste opere si trova ai limiti di una realtà fenomenica ancora intrisa di romanticismo, un’aura di ineffabile perversione che ci porta all’interno di situazioni cariche di macabro, al cospetto di personaggi che si muovono sullo sfondo del tardo racconto gotico. Infatti, nella produzione pittorica di Colombotto Rosso sono evidenziabili alcune componenti letterarie che potrebbero appartenere al fantastico, a quel mondo grottesco intorno al quale sembra ruotare tutto il suo universo poetico. L’eroe colombottiano è un personaggio solitario nel quale si riflette la nostra solitudine, ciò che ci permette di esaminarci dentro. Le deformazioni delle immagini sono l’equivalente delle nostre deformazioni interiori di sensazioni e sentimenti, le ferite dell’animo tradotte in figure che qui sembrano avere una valenza terapeutica. Inoltre, come ebbe modo di evidenziare qualche tempo fa il critico Janus, per giustificare l’essenza fantastica del lavoro di Colombotto Rosso, in esso si ripetono alcune situazioni estreme: “...c’è uno sposalizio, ma è spesso uno sposalizio con la morte, c’è un connubio tra l’umano e l’animalesco, c’è la notte avvolgente come la ragnatela e c’è l’elemento macabro, luttuoso, che non conduce necessariamente alla morte ed invece apre uno spiraglio verso il mistero che circonda le vicende dell’umanità, la crudeltà della vita, la perversione inconscia o consapevole del bello.”

È chiaro a questo punto il manifestarsi dell’elemento catartico proprio della pittura di Enrico Colombotto Rosso. Le sue immagini sono quelle di esseri che hanno subito una trasformazione. All’inizio erano un’altra cosa, erano forse esseri peggiori, assai più raccapriccianti di quanto non siano adesso ed hanno subito il cambiamento che permette loro di diventare icone di un’arte di raffinata e perturbante bellezza, dal mondo al trascendente, dallo stato umano a quello di larva, da angelo a demone. Chiaramente è un mutamento con dei limiti di purificazione oggettivi, ma è pur sempre un mutamento. Ora, chiarita nella sua essenza, la difficile arte di Colombotto Rosso appare meno terrificante, anche se le sue figure sono drammaticamente assurde, spesso le posture sono ingobbite, storte, curve, dolenti, forme collocate in una sorta di aldilà dantesco. Eppure, esse risultano estremamente poetiche, in quanto si tratta di osservatori attoniti, che guardano l’orrore del nostro quotidiano e si esprimono come conseguenza di ciò per cui sono state elaborate.