giovedì 27 dicembre 2012

pietro morando pittore di guerra

ASPETTI REALISTI NELLA PITTURA DI GUERRA DI PIETRO MORANDO.

I termini di realismo, realista, realtà hanno nell’arte “...un’utilizzazione corrente, ma assai delicata: essi possono, in effetti, definire molteplici gradi di riferimento del reale. Spesso essi sottintendono semplicemente l’osservazione scrupolosa fatta dall’artista del modello rappresentato sia esso figura, viso o natura morta, anche se questo studio conduce ad una composizione allegorica o religiosa. Tuttavia il termine realismo s’impiega più appropriatamente quando l’artista mescola nelle sue opere alla resa fedele delle cose la nobilitazione del mondo quotidiano”[1].
Se queste precisazioni sono assai utili per comprendere il fenomeno del realismo, esse non possono separarsi dal fatto che nella storia della pittura, ogni volta che si parla di realismo, si intende riferirsi sostanzialmente ad un’osservazione diretta della realtà.
Nel secolo appena trascorso la corrente realista trovò alcuni dei suoi momenti esemplari in quei movimenti che, opponendosi a un certo processo di dissolvimento dell’arte, si sono richiamati con forza alla realtà sociale. In Germania sorse negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale il movimento della Nuova Oggettività il quale, in alternativa al processo di destrutturazione formale dell’espressionismo, tendeva a rappresentare la realtà oggettiva nella sua essenzialità con intenti ora di denuncia, ora di satira sociale, ora di fotografica e acritica “oggettività”.
Come esempio di realismo epico/popolare è da ricordare il fenomeno del muralismo messicano. Questo è stato il movimento di rinnovamento della pittura messicana ed ha praticamente dominato la vita artistica del paese fra le due guerre.
Con l’espressione realismo magico, espressione coniata verso la metà degli anni ’30, si designano in generale quelle opere in cui si notano certe influenze del surrealismo. Queste opere hanno di solito in comune una tecnica di riproduzione minuziosa della realtà, resa sconcertante dall’inserzione in un contesto banale di oggetti o di eventi strani o insoliti.
In URSS il realismo socialista non fu solo uno stile e un movimento, ma anche una dottrina estetica ufficiale di Stato a partire dal 1934, in pieno regime staliniano. Questa dottrina fu polemicamente contrapposta alla precedente arte d’avanguardia degli anni 1919/20 e rendeva l’arte uno strumento di propaganda fondato su norme strettamente descrittive e aneddotiche e su una tecnica di tipo accademico.
In Italia è da ricordare in particolare il movimento del Neorealismo che, opponendosi all’arte astratta, affermò la necessità di ricondurre l’arte a forme di immediata comunicazione e a contenuti storici più attuali, come le lotte di lavoro o gli episodi della Resistenza.

Di fronte a quanto affermato sembrerebbe difficile inquadrare in senso realista l’arte di Pietro Morando[2], sembrerebbe difficile dimostrare i contenuti realistici del suo operato. Infatti, riflettendo sugli elementi estetici che hanno caratterizzato l’arte italiana del Novecento, e volendo, per assurdo, dare un’etichetta all’opera e alla vita di ogni artista, è obiettivamente difficile trovare in Italia un movimento di tipo realista paragonabile alla Nuova Oggettività tedesca o al Realismo Socialista sovietico nel quale inserire Morando. Eppure, osservando un certo gruppo di suoi lavori, Morando sembra essersi addentrato – più o meno consciamente – in quel tipo di produzione realizzando opere che possono essere incluse in un più ampio discorso realista europeo.

Possiamo pensare che Pietro Morando negli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si cimentasse anche con dei soggetti realisti. Scorrendo la puntuale biografia di Francesco Sottomano[3] si rileva che il pittore alessandrino, nel 1913, fosse a Milano ospite, dopo un soggiorno all’Albergo Popolare, di Angelo Morbelli. Era il Morbelli paesaggista, ormai lontano dalla produzione sociale, un Morbelli che comunque discusse con Morando, dandogli delle indicazioni tecniche e, probabilmente, dei riferimenti etici che, tenendo conto del carisma del maestro, formarono la personalità di Morando. Non è dunque sbagliato ammettere che Morando si dedicasse alla rappresentazione e al racconto della vita sociale contemporanea. Nel 1915 si aggiunse prepotente, il tema del racconto della guerra. Fu un interesse che accomunò tutti i paesi coinvolti nel conflitto, dall’Italia[4], Francia, Germania e Gran Bretagna.
Morando, come tanti altri artisti/soldato impegnati sui vari fronti, disegnava in piena autonomia nei momenti di libertà dal servizio[5], impostando il suo lavoro secondo un cliché realista ben riscontrabile in una sorta di “genere” che caratterizzò analoghe produzioni sparse su tutti fronti[6]. L’osservazione delle opere di Morando – i disegni del fronte, e il corpus di 300 disegni prodotti nei mesi della prigionia – evidenzia quel rapporto dialettico tra “realtà” e “ideale” che ha alla base la domanda “come dovrebbe essere rappresentata artisticamente la guerra”. La guerra è una tragedia di terribile e solenne monumentalità che ha pure una sua parte di miserie. “L’artista che sa sentire la tragedia dovrebbe trovare in esse l’ispirazione per un’arte del genere più alto; l’uomo che riesce a vederne soltanto l’aspetto miserabile non ci restituirà che orrori.”[7]. L’anonimo redattore che scrisse questa frase probabilmente pensava alla mancanza di ideali di alcuni artisti, pensava ad una produzione di immagini legate a quelle miserie da realtà quotidiana. Però, nel caso della guerra non furono gli artisti a darsi un tema, fu il tema ad imporsi, e i punti di vista dei singoli artisti, su cui influivano forti motivazioni politico-ideologiche, accanto a ragioni estetiche o di poetica, portarono alla messa a fuoco di una quantità di soggetti all’interno del tema stesso, soggetti espressi con linguaggi differenti che evidenziavano ora il sentimento che spingeva i soldati a combattere, ora a rappresentare documentaristicamente, in modo più o meno brutale, fatti particolari.
Morando del conflitto aveva avuto un’esperienza diretta. È probabile che anche per lui – come per molti altri – tale esperienza modificò certe idee iniziali sulla guerra e agì sul modo di esprimerle. I disegni del 1916[8] presentano un realismo essenziale, quasi illustrativo cui si aggiungono, negli anni successivi del conflitto, elementi più duri, più freddi, più oggettivi. Dal punto di vista stilistico, come ha anche osservato Albino Galvano[9],  in questi disegni è ossessiva la presenza del filo spinato. Esso è percepibile come un sottile filo astratto, dove esso diventa simbolo della disumanità distruttrice. Della sperimentazione delle avanguardie, questo nuovo realismo morandiano conservava soprattutto il senso della semplificazione geometrizzante, della sintesi formale, dell’individuazione acuta degli elementi forti di ogni immagine. Il tutto sembra essere svolto in funzione narrativa, dove un certo distacco dall’oggetto della rappresentazione, da testimone oculare, non sempre riusciva a nascondere un’intensa partecipazione emotiva. Tra i temi spesso affrontati da Morando ci fu quello della solitudine dell’uomo soldato immerso nella guerra, momento in cui l’uomo sembra confondersi con il paesaggio sconvolto dalla guerra, diventando mucchio di terra, reticolato o brandello esploso.
È stato probabilmente l’acume, l’osservazione da un punto di vista privilegiato, a determinare il successo di critica per i disegni del 1916/1918, esemplari prodotti di un artista isolato che, per certi versi, in Italia, potrebbe essere considerato uno dei pochi autentici pittori della Prima Guerra Mondiale.

Nel 1937 Pietro Morando realizza dieci affreschi nella cappella sottointerrata della Casa del Mutilato di Alessandria[10]. Si tratta di una serie di santi guerrieri e un trittico nel quale è rappresentato la partenza del soldato, il combattente, il ritorno del mutilato[11]. In queste opere sembra di ravvisare almeno due riferimenti: il primo relativo al muralismo messicano, le cui opere furono probabilmente osservate direttamente dal pittore durante il suo viaggio del 1928[12]. Il secondo alle esperienze che Mario Sironi, durante tutti gli anni Trenta del Novecento, impegnò nella decorazione murale[13].
Quello di Morando fu un impegno cui si dedicò con fermezza e coraggio, affermando, proprio in chiave sironiana, una sua propria concezione di unità delle arti. Si trattava di un’esperienza che altrove aveva già trovato larga applicazione. Nel Messico, come già affermato, tre pittori, David Siqueros, Diego Rivera e José Orozco, dopo aver proclamato “di non voler richiudere le proprie opere nei musei dove solo che ha tempo può andarle a vedere, ma non certo la gente che lavora”, avevano deciso di operare in tutti i “posti dove si raccoglie la gente che lavora”[14], affrescando ampie superfici di pareti di palazzi pubblici con motivi della storia e del folklore del proprio paese.
È chiaro che l’Italia del 1937 era ben differente dal Messico degli anni Venti, e il discorso ideologico che affrontò Morando partiva da presupposti assolutamente divergenti. Morando, in fondo, non faceva che riprendere dei soggetti che aveva già elaborato vent’anni prima. Egli rievoca quello stesso mondo nel quale si trovò a vivere durante la guerra, riprende gli stessi temi mondandoli di quei contenuti brutali più autentici e sentiti, per approdare ad una situazione idealizzata nella quale però resta un realismo di fondo, come appare più evidente soprattutto nella parte del trittico nella quale è affrescato il ritorno del mutilato. In questo lavoro, dunque, non è tanto il modo di rappresentare la situazione che si presta ad una valutazione in chiave realista, quanto l’evocazione di una situazione che individua nell’evento bellico un motivo di disagio e – se vogliamo – una sorta di mea culpa della società.
Morando, per la concezione generale dell’opera, si è ispirato ala tradizione italiana, medievale e primorinascimentale. Dal lavoro emerge una vena narrativa significativa, un altro modo per affermare di essere realista in quegli anni. Il tenore della rappresentazione degli eventi di guerra è spostato ad una dimensione privata, sommessa, lievemente stupefatta, di fronte alla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei comportamenti normali in una situazione di assoluta eccezionalità. Morando, nonostante il clima gonfio di retorica, risulta interprete sottile, privo di fierezza patriottica. In quest’opera, la Grande Guerra non è vista come guerra moderna, è un evento senza tempo i cui protagonisti sono gli uomini e le donne, o meglio, i figli e le madri, tema che il pittore alessandrino riproporrà a più riprese nella produzione successiva[15].


[1] Therese Burollet, voce Realisme, in Petit Larousse del la Peinture, vol. II, Parigi, 1979.
[2] Pietro Morando nasce ad Alessandria il 5 giugno 1889. Nel 1910 partecipa per la prima volta ad un’esposizione pubblica e poco tempo dopo entrerà in contatto con Angello Morbelli: sarà un periodo interessante per la formazione di Morando, un periodo che lo avvicinerà ad artisti come Cesare Tallone, Emilio Ranzoni e Gaetano Previati. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si prodigherà nella propaganda per l’arruolamento. Egli stesso partirà volontario, gli sarà dato il grado di sottotenente di complemento nei reparti d’assalto.
Al ritorno dalla guerra, ha già prodotto una serie di disegni di argomento militare, disegni importanti che sembrano sottolineare una nuova sensibilità molto meno “interventista”.
A partire dal 1921 si susseguono le mostre a lui dedicate, mostre importanti che delineano il profilo di un artista a tratti complesso, ma molto coerente nella produzione. Da segnalare nel 1937 la realizzazione di dieci affreschi per la Cappella della Casa del Mutilato di Alessandria. Altri eventi biografici rendono sempre più importante la presenza nel mondo dell’arte di Pietro Morando, un’importanza purtroppo limitata al contesto provinciale, forse determinata da una cattiva pubblicità di se stesso, o più verosimilmente all’incombente presenza di consiglieri e di falsi amici che, approfittando del maestro hanno fatto circolare una quantità spaventosa di opere – spaventosa anche dal punto di vista estetico –  dei disegni orribili che, solo firmati da Pietro Morando, hanno finito spesso per vanificare un discorso artistico decisamente superiore.
Muore ad Alessandria, il 24 settembre 1980.
[3] Francesco Sottomano, Pietro Morando, 1889-1980. Vita e opere, in: catalogo della mostra Omaggio a Pietro Morando, opere dal 1920 al 1970, Alessandria, maggio/luglio 1999.
[4] Tra gli artisti italiani, oltre ai Futuristi, si ricorda soprattutto Romano Dazzi coi sui disegni del 1918, eseguiti sulla base di cartoline, fotografie o filmati d’epoca.
[5] Francesco Sottomano, op. cit. “Morando si arruola volontario nel corpo speciale degli Arditi e sarà ufficiale di complemento di fanteria e nei reparti d’assalto. Combatte sull’Isonzo, a Gorizia, sul Carso, dove viene ferito due volte, a Oslavia, Sabotino, San Marco, San Michele. Gli vengono conferite tre medaglie al Valor Militare. Nel luglio 1918 viene fatto prigioniero sul Piave e deportato nel campo di concentramento di Nagjmegjer in Ungheria. Tenta la fuga insieme con 42 ufficiali italiani, viene ripreso in territorio rumeno e condotto nel campo di punizione di Komarom.
[6] Antonello Negri, il Realismo. Da Courbet agli anni Venti, Laterza, Bari, 1989.
[7] Antonello Negri, op. cit.
[8] Albino Galvano, Per Pietro Morando, in: Pietro Morando (opera Grafica), Acqui Terme, 1972 (già introduzione della cartella edita in Biella da Sandro Maria Rosso, 1965, un’edizione che per la prima volta ha raccolto e pubblicato una serie di questi disegni). Galvano specifica che questi disegni furono realizzati tra il 1915 e il 1918. Essi, sempre secondo Galvano, furono visti per la prima volta nel 1924.
[9] Albino Galvano, op. cit.
[10] Gli affreschi furono staccati dalle pareti della cappella negli anni Settanta, e ora sono custoditi presso i depositi della Cassa di Risparmio di Alessandria.
[11] Francesco Sottomano, op. cit.
[12] Nell’articolo di Luigi Carluccio per il catalogo della mostra torinese di Palazzo Lascaris del 1976 viene sottolineato che:”...nel 1928 inizia un lungo viaggio oltre Oceano, negli Stati del Sud e poi nel Nord America”.
[13] Mario Penelope, Sironi. Dal Futurismo al Dopoguerra, Il Cigno Galileo Galilei, Roma, 1990.
[14] C. Brook, Orozco, Rivera, Siqueiros. Muralismo messicano, Giunti, Firenze, 1994.
[15] Luigi Carluccio, op. cit. Il critico ricorda il riquadro dal titolo la Radice del Male, “dove una donna, che ha perduto in guerra il compagno o il figlio, esprime la rabbia di tutte le spose e di tutte le madri e spacca il fucile sulle sue ginocchia, con un gesto antico e famigliare di chi spacca un legno morto da gettare nel fuoco”.

domenica 23 dicembre 2012

divertissement su mario fallini e napoleone

DIVERTISSEMENT di Carlo Pesce
La guerra è molto semplice diretta e spietata.
Per farla ci vuole un uomo semplice, diretto e spietato.
George Patton

E il signor Bonaparte se ne sta seduto sul trono
e realizza gli auspici dei popoli. Ciò è entusiasmante!
Lev Tolstoj, Guerra e Pace.

Introduzione
Supponiamo che questo scritto non appartenga a questa epoca. Supponiamo che esso serva a descrivere due opere che vengono ritrovate per caso. Supponiamo che queste due opere trattino un medesimo argomento, cioè Napoleone.
Corpo
Il ritrovamento in uno spazio sotterraneo, posto alla base di un’abitazione che stava per essere abbattuta, di alcune opere d’arte appartenenti  all’epoca della prima crisi economica, permettono di aggiungere un altro tassello  per approfondire la conoscenza di uno dei più interessanti artisti piemontesi di quell’epoca: Mario Fallini. Vissuto a cavallo del secondo e terzo millennio, Fallini, a fronte di una produzione assai vasta[i] ha verosimilmente lasciato soltanto due lavori che appartengono a questo progetto. I primi interventi di diffusione della scoperta hanno cercato di collocare criticamente le due opere. Secondo le prime interpretazioni, l’idea di Fallini era quella di citare attraverso un discorso allegorico di non immediata decifrazione, i momenti salienti della carriera di Napoleone Bonaparte, un condottiero vissuto tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo. Di questo personaggio storico, un tempo assai celebrato, si ricordano ormai solo alcune imprese, e si fa riferimento al fatto che, per alcuni anni, egli diffuse gli ideali della Rivoluzione francese in Europa, nel tentativo di estirpare i privilegi di alcune classi sociali delle quali adesso si ha una vaga memoria.
Questa interpretazione, però, risulta abbastanza opinabile. Infatti, per comprendere le peculiarità dei lavori di Mario Fallini, è necessario capire che cosa vogliono effettivamente rappresentare. In alcuni antichi documenti si capisce che questo autore facesse riferimento a artifizi retorici, risolvendo le sue opere soprattutto con allegorie, ossimori e metonimie.
Per il primo lavoro, è opportuno il confronto con una vecchia fotografia che mostra una località a pochi chilometri da quella che un tempo veniva chiamata Alessandria. Lì, intorno alla metà del XIX secolo, finanziata da un ammiratore del condottiero, fu costruita una villa che successivamente fu adibita a museo per ricordare una battaglia che si svolse nelle campagne di un luogo chiamato Marengo.  Fallini dà una rappresentazione di quello spazio con un’ardita geometrizzazione dell’area. Essa, con i suoi colori Pop,  appare quasi metafisica, scandita da gruppi di linee che rievocano la struttura della dimora, con al centro l’inquietante raffigurazione statuaria di uno dei protagonisti di quella giornata, il generale Desaix[ii].
Il secondo lavoro è composto da un disegno di Napoleone collocato all’interno di una struttura che evoca una gabbia. Probabilmente, decifrando alcune lettere del titolo, sembra se ne possa intuire il riferimento all’esilio nell’Isola di Sant’Elena[iii] cui fu costretto il condottiero dopo la definitiva sconfitta di Waterloo.
Date le notevoli differenze stilistiche, non si può affermare con certezza se i due lavori appartenessero a una stessa serie. Se così fosse esisterebbero – e sarebbero da cercare almeno a livello documentario –  altri momenti capaci di focalizzare la parabola dell’Imperatore (per esempio, la campagna di Russia, o al citata battaglia di Waterloo), dei quali, al momento, non rimane traccia. Si può allora supporre che le due opere non fossero all’interno di una stessa serie, ma fossero eseguiti per due differenti progetti. Alla luce di questa idea, è lecito affermare che, probabilmente, i due lavori furono prodotti un due momenti differenti, a distanza di alcuni decenni l’uno dall’altro. Ciò spiegherebbe l’evidente differenza stilistica. Il fatto che siano stati ritrovati insieme potrebbe essere messo in relazione al fatto che essi siano stati esposti contemporaneamente all’interno di una mostra tematica dedicata a Napoleone. Fallini, d’accordo con il curatore, propose al pubblico i due lavori lasciando spazio all’ironia. L’autore avrebbe fornito in questo modo il pretesto per creare una sorta di dittico con il quale avrebbe unito il momento in cui ebbe inizio la gloria del condottiero, a quello che sancì la sua “sparizione” della storia, insomma, l’inizio e la fine della sua parabola. A questo proposito vengono in mente gli oscuri versi di un rimatore vissuto all’epoca di Napoleone che, in un’ode dedicata al condottiero[iv], fa spesso riferimento al rapporto tra splendori passati e miserie presenti.


[i]  Mario Fallini fu l’autore di alcuni interessanti progetti concettuali. Attraverso un lascito dell’Università di Pisa si è recentemente scoperto che al suo nome è legata la realizzazione del Theatro della Memoria di Camillo, una sorta di contenitore di tutto lo scibile umano. Fallini fu l’unico artista a portare a termine un progetto elaborato quasi quattrocento anni prima, utilizzando le primissime forme di RAM. Accanto a questo egli è segnalato come autore di alcune opere, tra la quali la riproduzione del Milione di Marco Polo (Genova, Museo della città) e Il Nome della Rosa di Umberto Eco (Area metropolitana padana, Collezione privata). Un frammento cartaceo firmato da un certo Carlo Pesce ritrovato in un collage del XXI secolo, spiega che Fallini avesse ricopiato a mano. Un testo del Milione è conservato alla biblioteca del Cairo.
[ii] Di questo personaggio si sa pochissimo. Sembra che comandasse un’ala della cavalleria dell’esercito francese e che, quando ormai sembrava che l’armata napoleonica capitolasse, egli piombasse sul disordinato esercito avversario, rovesciando le sorti della battaglia, ma pagando con la vita la sua impresa. Ricordiamo il nome di questo militare francese grazie alla didascalia della stessa cartolina che ci permette il confronto con l’opera di Fallini.
[iii] L’isola di Sant’Elena è uno dei misteri della vicenda napoleonica. Lo sconvolgimento degli oceani con la conseguente scomparsa di molte terre impedisce di capire dove si trovasse l’ultima dimora del Bonaparte. Un gruppo di studiosi dell’Università di Parigi sostiene che si sarebbe potuta trovare al centro dell’Oceano Atlantico, non al largo delle coste italiane come affermano moltissimi storici.
[iv] Il componimento in questione è “Il 5 maggio” di Alessandro Manzoni.

lunedì 17 dicembre 2012

channukah alla sinagoga di casale monferrato

Channukah è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci, infatti essa è caratterizzata dall'accensione dei lumi di un particolare candelabro ad otto braccia chiamato chanukiah. La festività dura 8 giorni e la prima sera è quella che inizia al tramonto dell’8 dicembre.
La storia, riportata nel Talmud, racconta che dopo la riconquista del Tempio era necessario tenere accesa la Menorah con olio d’oliva puro. Purtroppo nel Tempio venne trovato olio che sarebbe bastato solo per una giornata. Si preparò lo stesso una Menorah di ferro e stagno e si accese comunque il lume. Nonostante la scarsa quantità di combustibile,  quel poco olio durò il tempo necessario a produrre l'olio puro, proprio gli otto giorni che diedero inizio a questa tradizione.
Channukah a Casale è anche l’occasione per l’esposizione delle nuove acquisizioni del Museo dei Lumi. Si tratta delle lampade che gli artisti donano a questa istituzione. Le lampade caratterizzano una creatività che deve concentrarsi sulla realizzazione di un candelabro a otto bracci più quello dello shammash, creatività che si sposa perfettamente con la sintassi stilistica di ciascun artista. Infatti, le risposte rispecchiano chiaramente la fase del percorso che essi stanno affrontando. Relativamente a quanto è avvenuto quest’anno, qualcuno ha risposto in modo da dimostrare immediatamente il legame con la tradizione ebraica, come nel caso di Mario Borgese, Dario Canova, Riccardo Dalisi, Arianna Inglesi, Omar Ronda e Luigi Viale. Altri artisti hanno elaborato dei progetti in cui l’elemento tradizionale risulta chiuso all’interno di interessanti allegorie, come nel riferimento alla natura di Maria Grazia Dapuzzo, oppure alla netta geometria dei legni di Lorenzo Piemonti. Diverse le scelte di Max Ferrigno  e Danilo Seregni. Il primo gioca sulla figura di Krasty il clown al centro di un coloratissimo vassoio di dolcetti pop surrealist; il secondo con una struttura a forma di pesce dalla cui coda scendono otto fili cui sono appesi i lumi.
Piergiorgio Colombara, infine, realizza un’opera in ottone, una vera e propria architettura in cui lo shammash trova posto all’interno dell’installazione. Un’apertura ovoidale che evoca l’infinito e la visibilità da ambedue i fronti fanno di quest’opera un notevole esempio di estetica plastica.

lunedì 10 dicembre 2012

novità a "ridisegnare napoleone a ovada"

È opportuno ricordare che questa mostra ha avuto un precedente a Serravalle durante la scorsa estate. A Ovada molti lavori sono gli stessi, qualche artista, invece, ha messo a disposizione una seconda opera, componendo una sorta di curioso dittico che sembra assumere una più concreta dimensione narrativa. È il caso, per esempio, di Mario Fallini, che al suo “Napoleone a Sant’Elena” affianca a una prospettiva che evoca la figura di Napoleone a Marengo, costruendo l’intera parabola del condottiero attraverso l’inizio e la fine della sua gloria. Oppure di Max Oddone che, ironicamente, adopera la stessa figura di David per comunicarci attraverso due distinti giochi di parole, qualcosa di Napoleone.
Al gruppo originario (leggermente ridotto per vari motivi) si sono aggiunti i lavori di Luca Crescenzi, autore di una raffinata rilettura di una parte del ritratto di Napoleone a cavallo che varca le Alpi di David; di Gaspare Sicula che ha realizzato una piccola scultura che gioca su alcune forme geometriche che rimandano all’abbigliamento dell’imperatore; di Enrico Francescon che ha costruito con la matrice di una sua xilografia un convincente dittico che si compone sia dell’incisione ottenuta, sia di un assemblaggio che, con la matrice al centro, si trasforma in un’immagine della bandiera francese. Anche per Gianni Cella “le drapeau” diventa il supporto citare il suo “Basso impero” di Serravalle. Altro artista che partecipa a questa rassegna, non presente a Serravalle, è Antonio Marangolo che propone una visione concettuale di un campo di battaglia. Antonio Laugelli rielabora la sua installazione arricchendola con elementi trasparenti che rappresentano le isole che hanno scandito alcune tappe dell’esistenza del Bonaparte. Completano la rassegna le opere di Gianantonio Abate, Alessandro Beluardo, Angelo Bertoglio,Vito Boggeri, Roberto Bonafé, Giò Bonardi, Corrado Bonomi, Stefano Borasi, Pietro Casarini, Edilio Cavanna, Franca Cultrera, Simone Ferrarini, Concetto Fusillo, Alessandra Guenna, Carlo Ivaldi, Francesca Liotta, Giovanni Maccioni, Mirco Marchelli, Ezio Minetti, Giorgio Panelli, Paolo Petrangeli, Andrea Pollastro, Angelo Pretolani, Giancarlo Soldi, Ania Tomicka e Salvatore Vessella.

giovedì 6 dicembre 2012

ruggeri_saroni_soffiantino: il ritorno del liceo saracco

Durante l'estate scorsa, dopo un anno di assenza è ripresa la tradizionale rassegna d’arte al Liceo Saracco di Acqui, una rassegna importante, dedicata alla fase informale di tre autori piemontesi di primo piano, vale a dire Piero Ruggeri, Sergio Saroni e Giacomo Soffiantino. Costoro furono alcuni di quei giovani che si raccolsero intorno alla figura del critico Luigi Carluccio, direttore dalla storica galleria “La Bussola”, l’autentico punto di incontro e di dibattito dell’Informale torinese, la cui attività espositiva fu largamente incentrata in questo senso.
Ormai è risaputo che l’Informale è stato un momento fondamentale per gli sviluppi dell’arte contemporanea, un momento che però già nella prima metà degli anni Sessanta aveva esaurito il suo carico rivoluzionario. Con questo non si vuole dire che l’Informale cessi di esistere dopo quella data – e ne è riprova, per esempio, l’attività in tal senso nei decenni successivi  dei tre autori in mostra – ma sicuramente deve essere ridefinito in modo da evitare l’idea di un ripetersi di modi che, obiettivamente, non può e non deve essere considerato tale. Ciò lo si evince riflettendo anche sul titolo della rassegna “oltre il confine dell’Informale”, un titolo che spiega l’effettivo dilatarsi di uno “stile” che però travalica un confine e diventa “altro”.
Piero Ruggeri ancora negli ultimi anni della sua vita si è lasciato trascinare dal fascino della materia pittorica operando un’indagine sulla natura che ha assunto connotazioni completamente differenti rispetto a quelle degli esordi. Le sue immagini più recenti , per esempio, richiamano alla mente riflessi di vegetali su compatti specchi d’acqua, indagando direttamente la natura e evitando di penetrare nel gorgo magmatico che invece apparteneva alla sua produzione degli anni Cinquanta.
Diverso è il discorso relativo a Sergio Saroni. La sua produzione informale degli anni Cinquanta è caratterizzata da due tipologie di azione: da una parte egli pone spessi strati di materia pittorica che si raggruma in contenute strutture geometriche dense di colore; dall’altra vi è la presenza di un segno che si compone in una raffigurazione sintetica che evoca situazioni reali. Si tratta di una dicotomia che nella riflessione artistica successivi vedrà Saroni optare per lo sviluppo di un segno che addirittura, almeno in alcuni lavori degli anni Ottanta, diventerà espressione di un evidente naturalismo.
Il Soffiantino degli anni Cinquanta emerge con una ricerca di conformazioni dai tratti delicati che sembrano talvolta fluttuare nella nebbia. È un insieme di macchie e segni  che sembrano dare una visione del mondo dall’alto. È una pittura morbida, flessuosa, con un uso costante del segno, senza mai velocizzarlo. Il gesto di Soffiantino è carico, ma si stempera e si appiana. È un qualcosa che evoca un ricordo lontano, un tormento della memoria che prende corpo mentre lo si cerca. I lavori successivi, quelli realizzati dalla fine degli anni Sessanta, mantengono qualcosa di quella ricerca, ma diventano più appagati, più immobili, come se l’autore avesse agguantato il senso essenziale del reale.

domenica 2 dicembre 2012

enzo esposito alla galleria vigato di alessandria

Enzo Esposito è uno dei più interessanti artisti astratto/materici attivi nell’Italia meridionale. Nella sua opera si odono gli echi di varie esperienze estetiche, soprattutto quelli dell’Espressionismo astratto, rielaborato con una cromia decisamente più ricca, più calda, più mediterranea. Nei suoi lavori si assiste al pulsare della materia, attraverso dei segni che connotano fortemente la sua tela. Sono campiture di colore tracciate con vigore, aree che lasciano intuire dei “paesaggi”, delle strutture urbane immerse in una luce potente che le confonde. È una luce che le rende quasi invisibili, palpitanti nel loro disgregarsi negli sfondi, sfondi che a loro volta sembrano avvinghiarsi alle strutture segniche poste in primo piano, per creare una sorta di impressione mnemonica che identifica un frammento di percorso attraverso il mondo.
C’è qualcosa di particolare in queste pitture, qualcosa che sembra voler accogliere l’osservatore, che desideri farlo entrare a contatto con una realtà interiore che sembra voler essere esplicitata senza riserve. Esposito non si cela dietro a un’allegoria, non si pone nell’ottica di voler nascondere l’autentico significato della sua opera. Egli si cimenta con la rappresentazione di un processo che tende solamente a trasfigurare una propria esperienza di vita. Esposito crea delle luminescenze ectoplasmatiche che si richiamano a emozioni dalle quali l’autore è completamente pervaso. Nelle sue opere si concretizza l’esperienza di un corpo a contatto con il mondo, un corpo che deve fare continuamente i conti con la propria memoria per dimostrare di essere ciò che è. Allora si fa spazio un’intuizione dalla quale ricaviamo la sensazione di un piacevole distacco, di un procedimento di purificazione che identifica l’artista con una guida che sembra volerci condurre a afferrare il senso  della concretizzazione di un sogno. Gli spazi che egli ci offre sono il saggio di un’ineffabile spiritualità che ci trattiene a contemplare il nostro essere. È però un essere che talvolta vuole sfuggire alla sua condizione di potenziale eroe e che, invece, tende a restare in una situazione di miseria, aspettando pazientemente di esplodere per illuminare coi propri frammenti la vita degli altri.