venerdì 30 agosto 2013

giovanni saldì: G.M.A. Genetically Modified Asphalts

Il materiale che adopera Giovanni Saldì è l’asfalto. Egli lo elabora in forme ibride, rievocando parti di volti e di corpi umani. C’è qualcosa di classico nel suo lavoro, qualcosa che però si mischia a una visione estremamente contemporanea dell’arte e che crea una situazione estetica di grande impatto emotivo.



Nel suo lavoro si percepisce un duplice aspetto: da una parte la volontà di far riflettere sulla vanità del controllo della natura da parte dell’uomo; dall’altra l’idea che, in qualche modo, la rinascita dell’uomo debba passare attraverso un “rapporto di collaborazione” con i materiali che appartengono alla natura, quegli stessi materiali che possono abbellire e migliorare o deturpare irreversibilmente il paesaggio.
Alla luce di questa riflessione si comprende l’ulteriore significato della produzione artistica di Saldì. Lo scultore parte dal presupposto che bloccare la sua scultura in uno spazio chiuso rischia di limitare il carico di pathos dei suoi lavori. Egli, allora, definisce uno spazio aperto e inserisce gli asfalti integrandoli con il preesistente, con ciò che già contraddistingue determinate porzioni di paesaggio, quasi a volerli fare emergere dall’ambiente urbano stesso. In questo modo lo spazio diventa un palcoscenico e l’opera d’arte si confonde con lo spazio. L’effetto è drammatico, in quanto l’opera comincia a esistere quando inizia la performance che coinvolge l’artista e un gruppo di aiutanti. Sono proprio questi ultimi che quasi magicamente conducono l’osservatore a concentrarsi sull’opera. Essa viene, di fatto, svelata, viene proposta attraverso l’atto di danzare, attraverso il movimento dell’uomo che si conclude con l’immobilità della scultura. È un processo totemico, quasi sacro, per il quale l’azione assume il valore di un’evocazione.


Alla fine dell’azione le cose rimangono immobili, subendo, in prospettiva, l’attacco del tempo e dell’ambiente, come i monumenti che caratterizzano i nostri spazi quotidiani. Arte profondamente urbana, rispetto alle precedenti esperienze, essa appare sempre più convincente, cruciale nella crescita di questo artista: il gesto e l’azione diventano parte dell’opera, consentendo una fruizione collettiva e illimitata di un prodotto che in questo modo risulta particolarmente complesso.

domenica 18 agosto 2013

schmimo e il volto di un piccolo centro

Quanti sono stati gli artisti che nei decenni passati, hanno valicato le Alpi e, percorrendo l’Italia, hanno lasciato preziose documentazioni sugli usi e costumi di questa nazione? Quante volte ci siamo soffermati a osservare un’incisione, un dipinto, un acquerello che descriveva un paesaggio noto, un angolo del nostro quotidiano bloccato in uno sguardo capace di renderlo eterno? Appunti, fogli sparsi, album, piccoli capolavori  di un’arte minore che serve a far riflettere, serve a porre le basi per la creazione di altre opere, opere per le quali questi frammenti sono un’essenziale base mnemonica.
Non si discosta da questa tradizione Regine Schmidt-Morsbach, meglio conosciuta negli ambienti artistici tedeschi e europei con lo pseudonimo di Schmimo. Anche lei è reduce da vari soggiorni in Italia e ha somatizzato in parte lo spirito di questo paese… in parte, però, perché il suo sguardo ha mantenuto quella capacità di stupirsi, di meravigliarsi di fronte all’aggregarsi chiacchierone delle persone, ai cambiamenti di umore del paesaggio, all’ampio gesto delle braccia capace di sostituire parti di discorsi, ai silenzi che riempiono le vie e le piazze dei piccoli centri urbani e collinari. Schmimo, infatti, sembra preferire, almeno per quanto riguarda l’Italia, non le realtà metropolitane, anche se non mancano delle sue incursioni all’interno delle grandi città, ma la più pacata atmosfera della provincia, l’ambiente meno dinamico nel quale il ritmo quotidiano ha mantenuto quel carattere tradizionale, in cui le cose sembrano ripetersi con consolidata ritualità.
Schmimo ha dunque la capacità di rendere queste situazioni, di riprodurle ricorrendo a forme di espressionismo molto personalizzate, che ai nostri occhi sembrano rielaborare gli atteggiamenti di Otto Dix o di George Grosz . I personaggi di Schmimo sono resi sempre con un taglio particolare, talvolta si allungano come delle ombre, si ammassano come se si mettessero in posa per una fotografia  e si sciolgono in un caleidoscopio di colori sovraccarichi e leggeri nello stesso tempo, degli acquerelli che riescono a offrire delle immagini di grande impatto che si bloccano nella memoria di chi osserva.
Non è un caso che di fronte a questi lavori sia d’obbligo fare riferimento alla fotografia e si abbia la sensazione di avere di fronte proprio degli scatti fotografici. L’artista tedesca ricorre infatti a questo strumento, alla fotocamera, almeno in una prima fase del suo lavoro di ricerca, vale a dire quando si sofferma su un particolare di una persona o su qualcosa che la riesca a identificare e a differenziare. Dopo lo scatto riproduce questi uomini e donne isolandoli, li decontestualizza collocandoli su sfondi neutri e compatti, privi di qualunque rifermento cronologico o topografico, li isola nella loro unicità trasformandoli in tante unità che costituiscono una singolare aggregazione. Ciò che spicca di costoro è comunque sempre il volto che ritrasforma il soggetto dipinto in un personaggio perfettamente inserito nella realtà in cui è stato colto. Ciò è un valore assoluto, ma che può essere esteso anche ai risultati artistici del soggiorno conzanese di Schmimo, un soggiorno che ha trasformato in Storia la vicenda individuale delle persone che hanno avuto la fortuna di capitare nell’area visiva delle sua attività.

mercoledì 7 agosto 2013

carlo pace: l'opera grafica

È una parte della produzione artistica di Carlo Pace poco conosciuta, anche se perfettamente ascrivibile allo spirito di sperimentatore dell’artista alessandrino. Infatti, anche i lavori di grafica si collocano in tal senso all’interno della sua sterminata produzione, fatta di tante fasi che, in estrema sintesi, lo hanno portato a indagare i segreti della materia, quasi fosse un alchimista che cercava di estrapolarne il contenuto più nobile.
Dunque, anche in questi lavori si palesa il carattere di Carlo Pace. Ancora una volta, assume un ruolo da protagonista il segno, tracciato con angosciata maestria, un segno che arriva dalla terribilità tellurica delle spine dorsali, dal silenzioso fluttuare in densi liquidi amniotici del fonema. In queste incisioni – forse sarebbe più opportuno parlare di graffi, di unghiate tracciate con forza sulla lastra di metallo – quasi tutte realizzate durante gli anni Ottanta (gli stessi dei fonemi), oltre all’elemento specifico del segno, rilevabile ad una più immediata lettura dell’immagine, si notano dei particolari che inducono a confrontare questi lavori all’interno della propria produzione, rilevando che, in fondo, il proposito di Pace era quello di operare una sorta di astrazione che desse una risposta al modo in cui la forma diventa superficie, trasformandola in struttura organica.
In questi termini si evidenzia un lavoro che ha almeno due fasi di sviluppo, due fasi tradizionali in cui il pittore elabora mentalmente una situazione per poi rappresentarla nell’incisione secondo una sua particolare sensibilità. La forza di queste opere sta proprio nel fatto che esse vengono realizzate badando soprattutto alla volontà di dare un’immagine percettiva della realtà di Pace. Essa viene evocata come complesso di forme che danno un’idea di una forma di riferimento. Chi osserva cerca di individuare dei riferimenti tranquillizzanti all’interno di un gorgo materico. All’istintivo tentativo di cercare una sicurezza nell’attaccarsi alla leonardesca teoria delle forme, si sostituisce un fluttuare in un universo le cui dimensioni non possono essere messe in relazione a nulla.

lunedì 5 agosto 2013

sei fotografi (argentiero, bergallo, bobba, donaggio, goffi, luparia) a conzano

Si tratta di sei percorsi differenti, basati su altrettanti modi di affrontare la fotografia. Se si dovesse pensare a un legame tra i vari autori, forse si potrebbe venire in mente il paesaggio, ma questo metterebbe a margine ciò che ha proposto Roberto Goffi. Il fotografo torinese, infatti lascia spazio alla ritrattistica, attraverso una sperimentazione che relega la fotografia a un particolare, senza dubbio fondamentale, ma comunque meno visibile nel complesso della sua realtà propositiva.  Esaminando, per esempio, il doppio ritratto di Herzog, ne viene fuori una curiosa interpretazione che sovrappone due immagini frontali del volto del regista in altrettanti momenti  della sua vita. Un sottile spazio tra l’acetato della foto e il gesso della cornice/lapide sembra evocare il tempo che divide l’Herzog trentenne da quello attuale, un tempo che sembra non avere valore fisico ma solo metafisico.

Franco Donaggio si trincera dietro un raffinato monocolore per documentare il paesaggio della laguna veneta. Sono i luoghi a lui cari, i luoghi della sua esistenza che vengono sublimati in immagini di grande valore poetico. Sorprende la capacità di intercettare il segno nel nulla dello spazio. La fotografia di Donaggio si colloca su un piano prettamente mnemonico, evidenziando frammenti  di spazio abitati da invisibili presenze.
Su un piano analogo si colloca la ricerca di Renato Luparia. Le sue immagini propongono scorci paesaggistici immersi in un algido licore bianco. Sono immagini fredde in cui un particolare si staglia su un nulla privo di qualsiasi connotazione fisica. È probabilmente l’interpretazione di un sogno, di un frammento che emerge dalle campagne e trasforma tutto in ectoplasmi che scandiscono il tempo.
La New York di Luciano Bobba è lontana da quella più didascalica cui siamo abituati. Egli lavora osservandola da terra, guardando la strada e cercando di cogliere l’unicità della città attraverso i riflessi delle vetrine. In questo modo documentato dal fotografo casalese, noi non vediamo direttamente lo spazio, ma ne percepiamo la sua esistenza, è quasi un lavoro metafotografico quello di Bobba, nel senso che è la fotografia che cita se stessa sfruttando un espediente che le permette di replicarsi come in uno specchio, cioè fotografando una cosa per offrirne alla vista un’altra.
Se Bobba per certi versi lavora sulla luce, Claudio Argentiero insiste invece sull’ombra. Si tratta in ogni caso di sottigliezze perché l’ombra altro non è che la mancanza della luce, “il lato oscuro della luce”, pertanto la differenza sta solo nel punto di partenza e, come dice Yann Arthus- Bertrand, è comunque la miscela di luce e ombra a dare la forma alle cose. La città di Argentiero è spesso un frammento di essa, un tratto di paesaggio urbano che si perde nelle varie ore del giorno, ripetendo la sua unicità. Sono ritratti di spazi, luoghi che appartengono a un esistente e che non ha ancora subito l’attenzione dell’osservatore e che, per questo, si trasformano in non luoghi carichi di efficacia comunicativa.
Fulvio Bergallo, unico a proporre qualcosa di nuovo rispetto alle precedenti esperienze espositive, prosegue la sua ricerca affrontando il tema della luce a contatto con la natura. Egli non lavora su paesaggi “tradizionali”, sottopone la realtà a doppie esposizioni affrontando coerentemente il tema del tempo e della sua diversità. Ovviamente il ricorso a una tecnica del genere sottintende la capacità di saper osservare lo spazio che lo circonda, il variare delle luci con il variare delle ore e delle stagioni. Un albero non è mai lo stesso, ma è la fusione di veri momenti che lo determinano. Bergallo riesce a dare questa sensazione.


venerdì 2 agosto 2013

bolcato/ferrigno - eros/thanatos

Eros & Thanatos, con la “e commerciale”, come se si volesse evocare una società per azioni, un consorzio che intende mettere in vendita amore e morte. È un po’ questa l’idea che ha unito due artisti, Stefano Bolcato e Max Ferrigno, in un dialogo che mette a confronto il loro lavoro, sia dal punto di vista formale, sia da quello tematico. L’elemento che li unisce è invece quello stilistico, infatti, entrambi sono tra i massimi rappresentanti della Pop Art contemporanea, di quella forma d’arte che molti conoscono come Pop Surrealism e che ha avuto un incredibile successo negli ultimi anni. È quell’arte che riprende certi temi “low brow”, come la fumettistica, il cartoon, il film d’animazione, e lo rielabora trasformandolo in un ironica e graffiante icona dei nostri giorni.
Il tema abbracciato da Bolcato è Thanatos. L’artista, con ironico cinismo, racconta la cronaca nera italiana degli ultimi anni in una sorta di frames fotografici che cristallizzano l’evento cruento. Non ci sarebbe nulla di stano se Bolcato si affidasse a un iperrealismo secco e indiscutibile, al contrario egli trasforma i protagonisti di queste scene di ordinaria violenza quotidiana in pupazzetti del Lego®, con un evidente carico di apparente scanzonata ironia. In realtà, dietro a queste scenette l’autore mostra in tutta la sua evidenza il rimosso freudiano che conduce l’infanzia a somatizzare inconsciamente la morte e, una volta adulti, a accettarla come qualcosa con cui convivere, nascondendola dietro la dolcezza di questi piccoli personaggi di plastica.
A Max Ferrigno spetta invece la rielaborazione di Eros. Egli lo fa con la sua consueta capacità pittorica, insistendo su personaggi che si presentano agli occhi dell’osservatore pieni di perversa e caramellosa sensualità. Sono ninfette innocenti, delle maliziose Lolite che lasciano trasparire qualcosa di conturbante. Infatti, Ferrigno si ispira al mondo dei cartoon giapponesi, e più precisamente degli “anime”, cartoni importati in Italia per i bambini ma che in origine erano destinati a un pubblico adulto. In essi, e Ferrigno insiste proprio su questi elementi, si possono leggere simbolicamente quelle fantasie sessuali, quelle provocazioni che forse condizionarono i giovanissimi spettato tori e che tracciarono il solco per la spregiudicata comunicazione sessista dei media contemporanei.

giovedì 1 agosto 2013

carlos ferrando i bellés - condizionale presente

Carlos Ferrando i Bellés, artista di origine spagnola, ormai da anni redente in Italia,  dichiara gli esiti di una ricerca che sta portando avanti da molto tempo. Essa si concretizza in una singolare installazione che sembra gridare con rabbia tutta l’angoscia del mondo.
Probabilmente egli parte con una riflessione  sulla quantità di immagini cui siamo quotidianamente sottoposti. Tutto ciò che vediamo si sedimenta in incontrollabili stratificazioni che ogni tanto lasciano emergere qualche frammento. Se supponiamo di quantificare – e di immagazzinare – la totalità di ciò che vediamo, per esempio, nell’arco di un anno, ci accorgeremmo che per contenerla occorrerebbero migliaia di gigabite di memoria virtuale. Al contrario, il  nostro cervello è in grado di percepire tutto e di selezionare le informazioni più importanti, compattando quella massa di elementi e riducendoli a specie di flash che possono essere richiamati costantemente.
In estrema sintesi, è proprio questo che ha realizzato Ferrando. Egli, per concretizzare il contenuto della nostra memoria, ha cominciato a fotografare lo schermo della sua televisione, pensando che proprio  questo elettrodomestico potesse essere una specie di finestra in grado di sintetizzare ciò che può essere visto sul pianeta.
A quel punto la macchina fotografica si è trasformata nel simulacro dell’occhio umano e ha cominciato a ridare quei frames che sono stati elaborati e assemblati in un mosaico estremamente eterogeneo, un album di istanti decontestualizzati che riescono a trasmettere un sottile senso di inquietudine. Credo sia proprio il fatto di non capire che cosa si nasconda dietro a quei volti, a quelle situazioni, che ci induce a soffermarci con preoccupazione su un particolare, su un riquadro scelto a caso, nel tentativo di inseguire la verità che si cela in quello spazio. Purtroppo però tutto può essere solo interpretato soltanto con la fantasia, si può inseguire un’ipotesi di racconto, una storia che avrà avuto un suo senso, ma dal quale siamo assolutamente esclusi. Ecco che allora si profila la percezione della terribile condizione cui è costretta l’umanità, una condizione che si fonda su una sostanziale incomunicabilità e solitudine.