lunedì 5 agosto 2013

sei fotografi (argentiero, bergallo, bobba, donaggio, goffi, luparia) a conzano

Si tratta di sei percorsi differenti, basati su altrettanti modi di affrontare la fotografia. Se si dovesse pensare a un legame tra i vari autori, forse si potrebbe venire in mente il paesaggio, ma questo metterebbe a margine ciò che ha proposto Roberto Goffi. Il fotografo torinese, infatti lascia spazio alla ritrattistica, attraverso una sperimentazione che relega la fotografia a un particolare, senza dubbio fondamentale, ma comunque meno visibile nel complesso della sua realtà propositiva.  Esaminando, per esempio, il doppio ritratto di Herzog, ne viene fuori una curiosa interpretazione che sovrappone due immagini frontali del volto del regista in altrettanti momenti  della sua vita. Un sottile spazio tra l’acetato della foto e il gesso della cornice/lapide sembra evocare il tempo che divide l’Herzog trentenne da quello attuale, un tempo che sembra non avere valore fisico ma solo metafisico.

Franco Donaggio si trincera dietro un raffinato monocolore per documentare il paesaggio della laguna veneta. Sono i luoghi a lui cari, i luoghi della sua esistenza che vengono sublimati in immagini di grande valore poetico. Sorprende la capacità di intercettare il segno nel nulla dello spazio. La fotografia di Donaggio si colloca su un piano prettamente mnemonico, evidenziando frammenti  di spazio abitati da invisibili presenze.
Su un piano analogo si colloca la ricerca di Renato Luparia. Le sue immagini propongono scorci paesaggistici immersi in un algido licore bianco. Sono immagini fredde in cui un particolare si staglia su un nulla privo di qualsiasi connotazione fisica. È probabilmente l’interpretazione di un sogno, di un frammento che emerge dalle campagne e trasforma tutto in ectoplasmi che scandiscono il tempo.
La New York di Luciano Bobba è lontana da quella più didascalica cui siamo abituati. Egli lavora osservandola da terra, guardando la strada e cercando di cogliere l’unicità della città attraverso i riflessi delle vetrine. In questo modo documentato dal fotografo casalese, noi non vediamo direttamente lo spazio, ma ne percepiamo la sua esistenza, è quasi un lavoro metafotografico quello di Bobba, nel senso che è la fotografia che cita se stessa sfruttando un espediente che le permette di replicarsi come in uno specchio, cioè fotografando una cosa per offrirne alla vista un’altra.
Se Bobba per certi versi lavora sulla luce, Claudio Argentiero insiste invece sull’ombra. Si tratta in ogni caso di sottigliezze perché l’ombra altro non è che la mancanza della luce, “il lato oscuro della luce”, pertanto la differenza sta solo nel punto di partenza e, come dice Yann Arthus- Bertrand, è comunque la miscela di luce e ombra a dare la forma alle cose. La città di Argentiero è spesso un frammento di essa, un tratto di paesaggio urbano che si perde nelle varie ore del giorno, ripetendo la sua unicità. Sono ritratti di spazi, luoghi che appartengono a un esistente e che non ha ancora subito l’attenzione dell’osservatore e che, per questo, si trasformano in non luoghi carichi di efficacia comunicativa.
Fulvio Bergallo, unico a proporre qualcosa di nuovo rispetto alle precedenti esperienze espositive, prosegue la sua ricerca affrontando il tema della luce a contatto con la natura. Egli non lavora su paesaggi “tradizionali”, sottopone la realtà a doppie esposizioni affrontando coerentemente il tema del tempo e della sua diversità. Ovviamente il ricorso a una tecnica del genere sottintende la capacità di saper osservare lo spazio che lo circonda, il variare delle luci con il variare delle ore e delle stagioni. Un albero non è mai lo stesso, ma è la fusione di veri momenti che lo determinano. Bergallo riesce a dare questa sensazione.


Nessun commento:

Posta un commento