giovedì 27 dicembre 2012

pietro morando pittore di guerra

ASPETTI REALISTI NELLA PITTURA DI GUERRA DI PIETRO MORANDO.

I termini di realismo, realista, realtà hanno nell’arte “...un’utilizzazione corrente, ma assai delicata: essi possono, in effetti, definire molteplici gradi di riferimento del reale. Spesso essi sottintendono semplicemente l’osservazione scrupolosa fatta dall’artista del modello rappresentato sia esso figura, viso o natura morta, anche se questo studio conduce ad una composizione allegorica o religiosa. Tuttavia il termine realismo s’impiega più appropriatamente quando l’artista mescola nelle sue opere alla resa fedele delle cose la nobilitazione del mondo quotidiano”[1].
Se queste precisazioni sono assai utili per comprendere il fenomeno del realismo, esse non possono separarsi dal fatto che nella storia della pittura, ogni volta che si parla di realismo, si intende riferirsi sostanzialmente ad un’osservazione diretta della realtà.
Nel secolo appena trascorso la corrente realista trovò alcuni dei suoi momenti esemplari in quei movimenti che, opponendosi a un certo processo di dissolvimento dell’arte, si sono richiamati con forza alla realtà sociale. In Germania sorse negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale il movimento della Nuova Oggettività il quale, in alternativa al processo di destrutturazione formale dell’espressionismo, tendeva a rappresentare la realtà oggettiva nella sua essenzialità con intenti ora di denuncia, ora di satira sociale, ora di fotografica e acritica “oggettività”.
Come esempio di realismo epico/popolare è da ricordare il fenomeno del muralismo messicano. Questo è stato il movimento di rinnovamento della pittura messicana ed ha praticamente dominato la vita artistica del paese fra le due guerre.
Con l’espressione realismo magico, espressione coniata verso la metà degli anni ’30, si designano in generale quelle opere in cui si notano certe influenze del surrealismo. Queste opere hanno di solito in comune una tecnica di riproduzione minuziosa della realtà, resa sconcertante dall’inserzione in un contesto banale di oggetti o di eventi strani o insoliti.
In URSS il realismo socialista non fu solo uno stile e un movimento, ma anche una dottrina estetica ufficiale di Stato a partire dal 1934, in pieno regime staliniano. Questa dottrina fu polemicamente contrapposta alla precedente arte d’avanguardia degli anni 1919/20 e rendeva l’arte uno strumento di propaganda fondato su norme strettamente descrittive e aneddotiche e su una tecnica di tipo accademico.
In Italia è da ricordare in particolare il movimento del Neorealismo che, opponendosi all’arte astratta, affermò la necessità di ricondurre l’arte a forme di immediata comunicazione e a contenuti storici più attuali, come le lotte di lavoro o gli episodi della Resistenza.

Di fronte a quanto affermato sembrerebbe difficile inquadrare in senso realista l’arte di Pietro Morando[2], sembrerebbe difficile dimostrare i contenuti realistici del suo operato. Infatti, riflettendo sugli elementi estetici che hanno caratterizzato l’arte italiana del Novecento, e volendo, per assurdo, dare un’etichetta all’opera e alla vita di ogni artista, è obiettivamente difficile trovare in Italia un movimento di tipo realista paragonabile alla Nuova Oggettività tedesca o al Realismo Socialista sovietico nel quale inserire Morando. Eppure, osservando un certo gruppo di suoi lavori, Morando sembra essersi addentrato – più o meno consciamente – in quel tipo di produzione realizzando opere che possono essere incluse in un più ampio discorso realista europeo.

Possiamo pensare che Pietro Morando negli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale si cimentasse anche con dei soggetti realisti. Scorrendo la puntuale biografia di Francesco Sottomano[3] si rileva che il pittore alessandrino, nel 1913, fosse a Milano ospite, dopo un soggiorno all’Albergo Popolare, di Angelo Morbelli. Era il Morbelli paesaggista, ormai lontano dalla produzione sociale, un Morbelli che comunque discusse con Morando, dandogli delle indicazioni tecniche e, probabilmente, dei riferimenti etici che, tenendo conto del carisma del maestro, formarono la personalità di Morando. Non è dunque sbagliato ammettere che Morando si dedicasse alla rappresentazione e al racconto della vita sociale contemporanea. Nel 1915 si aggiunse prepotente, il tema del racconto della guerra. Fu un interesse che accomunò tutti i paesi coinvolti nel conflitto, dall’Italia[4], Francia, Germania e Gran Bretagna.
Morando, come tanti altri artisti/soldato impegnati sui vari fronti, disegnava in piena autonomia nei momenti di libertà dal servizio[5], impostando il suo lavoro secondo un cliché realista ben riscontrabile in una sorta di “genere” che caratterizzò analoghe produzioni sparse su tutti fronti[6]. L’osservazione delle opere di Morando – i disegni del fronte, e il corpus di 300 disegni prodotti nei mesi della prigionia – evidenzia quel rapporto dialettico tra “realtà” e “ideale” che ha alla base la domanda “come dovrebbe essere rappresentata artisticamente la guerra”. La guerra è una tragedia di terribile e solenne monumentalità che ha pure una sua parte di miserie. “L’artista che sa sentire la tragedia dovrebbe trovare in esse l’ispirazione per un’arte del genere più alto; l’uomo che riesce a vederne soltanto l’aspetto miserabile non ci restituirà che orrori.”[7]. L’anonimo redattore che scrisse questa frase probabilmente pensava alla mancanza di ideali di alcuni artisti, pensava ad una produzione di immagini legate a quelle miserie da realtà quotidiana. Però, nel caso della guerra non furono gli artisti a darsi un tema, fu il tema ad imporsi, e i punti di vista dei singoli artisti, su cui influivano forti motivazioni politico-ideologiche, accanto a ragioni estetiche o di poetica, portarono alla messa a fuoco di una quantità di soggetti all’interno del tema stesso, soggetti espressi con linguaggi differenti che evidenziavano ora il sentimento che spingeva i soldati a combattere, ora a rappresentare documentaristicamente, in modo più o meno brutale, fatti particolari.
Morando del conflitto aveva avuto un’esperienza diretta. È probabile che anche per lui – come per molti altri – tale esperienza modificò certe idee iniziali sulla guerra e agì sul modo di esprimerle. I disegni del 1916[8] presentano un realismo essenziale, quasi illustrativo cui si aggiungono, negli anni successivi del conflitto, elementi più duri, più freddi, più oggettivi. Dal punto di vista stilistico, come ha anche osservato Albino Galvano[9],  in questi disegni è ossessiva la presenza del filo spinato. Esso è percepibile come un sottile filo astratto, dove esso diventa simbolo della disumanità distruttrice. Della sperimentazione delle avanguardie, questo nuovo realismo morandiano conservava soprattutto il senso della semplificazione geometrizzante, della sintesi formale, dell’individuazione acuta degli elementi forti di ogni immagine. Il tutto sembra essere svolto in funzione narrativa, dove un certo distacco dall’oggetto della rappresentazione, da testimone oculare, non sempre riusciva a nascondere un’intensa partecipazione emotiva. Tra i temi spesso affrontati da Morando ci fu quello della solitudine dell’uomo soldato immerso nella guerra, momento in cui l’uomo sembra confondersi con il paesaggio sconvolto dalla guerra, diventando mucchio di terra, reticolato o brandello esploso.
È stato probabilmente l’acume, l’osservazione da un punto di vista privilegiato, a determinare il successo di critica per i disegni del 1916/1918, esemplari prodotti di un artista isolato che, per certi versi, in Italia, potrebbe essere considerato uno dei pochi autentici pittori della Prima Guerra Mondiale.

Nel 1937 Pietro Morando realizza dieci affreschi nella cappella sottointerrata della Casa del Mutilato di Alessandria[10]. Si tratta di una serie di santi guerrieri e un trittico nel quale è rappresentato la partenza del soldato, il combattente, il ritorno del mutilato[11]. In queste opere sembra di ravvisare almeno due riferimenti: il primo relativo al muralismo messicano, le cui opere furono probabilmente osservate direttamente dal pittore durante il suo viaggio del 1928[12]. Il secondo alle esperienze che Mario Sironi, durante tutti gli anni Trenta del Novecento, impegnò nella decorazione murale[13].
Quello di Morando fu un impegno cui si dedicò con fermezza e coraggio, affermando, proprio in chiave sironiana, una sua propria concezione di unità delle arti. Si trattava di un’esperienza che altrove aveva già trovato larga applicazione. Nel Messico, come già affermato, tre pittori, David Siqueros, Diego Rivera e José Orozco, dopo aver proclamato “di non voler richiudere le proprie opere nei musei dove solo che ha tempo può andarle a vedere, ma non certo la gente che lavora”, avevano deciso di operare in tutti i “posti dove si raccoglie la gente che lavora”[14], affrescando ampie superfici di pareti di palazzi pubblici con motivi della storia e del folklore del proprio paese.
È chiaro che l’Italia del 1937 era ben differente dal Messico degli anni Venti, e il discorso ideologico che affrontò Morando partiva da presupposti assolutamente divergenti. Morando, in fondo, non faceva che riprendere dei soggetti che aveva già elaborato vent’anni prima. Egli rievoca quello stesso mondo nel quale si trovò a vivere durante la guerra, riprende gli stessi temi mondandoli di quei contenuti brutali più autentici e sentiti, per approdare ad una situazione idealizzata nella quale però resta un realismo di fondo, come appare più evidente soprattutto nella parte del trittico nella quale è affrescato il ritorno del mutilato. In questo lavoro, dunque, non è tanto il modo di rappresentare la situazione che si presta ad una valutazione in chiave realista, quanto l’evocazione di una situazione che individua nell’evento bellico un motivo di disagio e – se vogliamo – una sorta di mea culpa della società.
Morando, per la concezione generale dell’opera, si è ispirato ala tradizione italiana, medievale e primorinascimentale. Dal lavoro emerge una vena narrativa significativa, un altro modo per affermare di essere realista in quegli anni. Il tenore della rappresentazione degli eventi di guerra è spostato ad una dimensione privata, sommessa, lievemente stupefatta, di fronte alla ripetizione dei gesti, delle azioni, dei comportamenti normali in una situazione di assoluta eccezionalità. Morando, nonostante il clima gonfio di retorica, risulta interprete sottile, privo di fierezza patriottica. In quest’opera, la Grande Guerra non è vista come guerra moderna, è un evento senza tempo i cui protagonisti sono gli uomini e le donne, o meglio, i figli e le madri, tema che il pittore alessandrino riproporrà a più riprese nella produzione successiva[15].


[1] Therese Burollet, voce Realisme, in Petit Larousse del la Peinture, vol. II, Parigi, 1979.
[2] Pietro Morando nasce ad Alessandria il 5 giugno 1889. Nel 1910 partecipa per la prima volta ad un’esposizione pubblica e poco tempo dopo entrerà in contatto con Angello Morbelli: sarà un periodo interessante per la formazione di Morando, un periodo che lo avvicinerà ad artisti come Cesare Tallone, Emilio Ranzoni e Gaetano Previati. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si prodigherà nella propaganda per l’arruolamento. Egli stesso partirà volontario, gli sarà dato il grado di sottotenente di complemento nei reparti d’assalto.
Al ritorno dalla guerra, ha già prodotto una serie di disegni di argomento militare, disegni importanti che sembrano sottolineare una nuova sensibilità molto meno “interventista”.
A partire dal 1921 si susseguono le mostre a lui dedicate, mostre importanti che delineano il profilo di un artista a tratti complesso, ma molto coerente nella produzione. Da segnalare nel 1937 la realizzazione di dieci affreschi per la Cappella della Casa del Mutilato di Alessandria. Altri eventi biografici rendono sempre più importante la presenza nel mondo dell’arte di Pietro Morando, un’importanza purtroppo limitata al contesto provinciale, forse determinata da una cattiva pubblicità di se stesso, o più verosimilmente all’incombente presenza di consiglieri e di falsi amici che, approfittando del maestro hanno fatto circolare una quantità spaventosa di opere – spaventosa anche dal punto di vista estetico –  dei disegni orribili che, solo firmati da Pietro Morando, hanno finito spesso per vanificare un discorso artistico decisamente superiore.
Muore ad Alessandria, il 24 settembre 1980.
[3] Francesco Sottomano, Pietro Morando, 1889-1980. Vita e opere, in: catalogo della mostra Omaggio a Pietro Morando, opere dal 1920 al 1970, Alessandria, maggio/luglio 1999.
[4] Tra gli artisti italiani, oltre ai Futuristi, si ricorda soprattutto Romano Dazzi coi sui disegni del 1918, eseguiti sulla base di cartoline, fotografie o filmati d’epoca.
[5] Francesco Sottomano, op. cit. “Morando si arruola volontario nel corpo speciale degli Arditi e sarà ufficiale di complemento di fanteria e nei reparti d’assalto. Combatte sull’Isonzo, a Gorizia, sul Carso, dove viene ferito due volte, a Oslavia, Sabotino, San Marco, San Michele. Gli vengono conferite tre medaglie al Valor Militare. Nel luglio 1918 viene fatto prigioniero sul Piave e deportato nel campo di concentramento di Nagjmegjer in Ungheria. Tenta la fuga insieme con 42 ufficiali italiani, viene ripreso in territorio rumeno e condotto nel campo di punizione di Komarom.
[6] Antonello Negri, il Realismo. Da Courbet agli anni Venti, Laterza, Bari, 1989.
[7] Antonello Negri, op. cit.
[8] Albino Galvano, Per Pietro Morando, in: Pietro Morando (opera Grafica), Acqui Terme, 1972 (già introduzione della cartella edita in Biella da Sandro Maria Rosso, 1965, un’edizione che per la prima volta ha raccolto e pubblicato una serie di questi disegni). Galvano specifica che questi disegni furono realizzati tra il 1915 e il 1918. Essi, sempre secondo Galvano, furono visti per la prima volta nel 1924.
[9] Albino Galvano, op. cit.
[10] Gli affreschi furono staccati dalle pareti della cappella negli anni Settanta, e ora sono custoditi presso i depositi della Cassa di Risparmio di Alessandria.
[11] Francesco Sottomano, op. cit.
[12] Nell’articolo di Luigi Carluccio per il catalogo della mostra torinese di Palazzo Lascaris del 1976 viene sottolineato che:”...nel 1928 inizia un lungo viaggio oltre Oceano, negli Stati del Sud e poi nel Nord America”.
[13] Mario Penelope, Sironi. Dal Futurismo al Dopoguerra, Il Cigno Galileo Galilei, Roma, 1990.
[14] C. Brook, Orozco, Rivera, Siqueiros. Muralismo messicano, Giunti, Firenze, 1994.
[15] Luigi Carluccio, op. cit. Il critico ricorda il riquadro dal titolo la Radice del Male, “dove una donna, che ha perduto in guerra il compagno o il figlio, esprime la rabbia di tutte le spose e di tutte le madri e spacca il fucile sulle sue ginocchia, con un gesto antico e famigliare di chi spacca un legno morto da gettare nel fuoco”.

domenica 23 dicembre 2012

divertissement su mario fallini e napoleone

DIVERTISSEMENT di Carlo Pesce
La guerra è molto semplice diretta e spietata.
Per farla ci vuole un uomo semplice, diretto e spietato.
George Patton

E il signor Bonaparte se ne sta seduto sul trono
e realizza gli auspici dei popoli. Ciò è entusiasmante!
Lev Tolstoj, Guerra e Pace.

Introduzione
Supponiamo che questo scritto non appartenga a questa epoca. Supponiamo che esso serva a descrivere due opere che vengono ritrovate per caso. Supponiamo che queste due opere trattino un medesimo argomento, cioè Napoleone.
Corpo
Il ritrovamento in uno spazio sotterraneo, posto alla base di un’abitazione che stava per essere abbattuta, di alcune opere d’arte appartenenti  all’epoca della prima crisi economica, permettono di aggiungere un altro tassello  per approfondire la conoscenza di uno dei più interessanti artisti piemontesi di quell’epoca: Mario Fallini. Vissuto a cavallo del secondo e terzo millennio, Fallini, a fronte di una produzione assai vasta[i] ha verosimilmente lasciato soltanto due lavori che appartengono a questo progetto. I primi interventi di diffusione della scoperta hanno cercato di collocare criticamente le due opere. Secondo le prime interpretazioni, l’idea di Fallini era quella di citare attraverso un discorso allegorico di non immediata decifrazione, i momenti salienti della carriera di Napoleone Bonaparte, un condottiero vissuto tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo. Di questo personaggio storico, un tempo assai celebrato, si ricordano ormai solo alcune imprese, e si fa riferimento al fatto che, per alcuni anni, egli diffuse gli ideali della Rivoluzione francese in Europa, nel tentativo di estirpare i privilegi di alcune classi sociali delle quali adesso si ha una vaga memoria.
Questa interpretazione, però, risulta abbastanza opinabile. Infatti, per comprendere le peculiarità dei lavori di Mario Fallini, è necessario capire che cosa vogliono effettivamente rappresentare. In alcuni antichi documenti si capisce che questo autore facesse riferimento a artifizi retorici, risolvendo le sue opere soprattutto con allegorie, ossimori e metonimie.
Per il primo lavoro, è opportuno il confronto con una vecchia fotografia che mostra una località a pochi chilometri da quella che un tempo veniva chiamata Alessandria. Lì, intorno alla metà del XIX secolo, finanziata da un ammiratore del condottiero, fu costruita una villa che successivamente fu adibita a museo per ricordare una battaglia che si svolse nelle campagne di un luogo chiamato Marengo.  Fallini dà una rappresentazione di quello spazio con un’ardita geometrizzazione dell’area. Essa, con i suoi colori Pop,  appare quasi metafisica, scandita da gruppi di linee che rievocano la struttura della dimora, con al centro l’inquietante raffigurazione statuaria di uno dei protagonisti di quella giornata, il generale Desaix[ii].
Il secondo lavoro è composto da un disegno di Napoleone collocato all’interno di una struttura che evoca una gabbia. Probabilmente, decifrando alcune lettere del titolo, sembra se ne possa intuire il riferimento all’esilio nell’Isola di Sant’Elena[iii] cui fu costretto il condottiero dopo la definitiva sconfitta di Waterloo.
Date le notevoli differenze stilistiche, non si può affermare con certezza se i due lavori appartenessero a una stessa serie. Se così fosse esisterebbero – e sarebbero da cercare almeno a livello documentario –  altri momenti capaci di focalizzare la parabola dell’Imperatore (per esempio, la campagna di Russia, o al citata battaglia di Waterloo), dei quali, al momento, non rimane traccia. Si può allora supporre che le due opere non fossero all’interno di una stessa serie, ma fossero eseguiti per due differenti progetti. Alla luce di questa idea, è lecito affermare che, probabilmente, i due lavori furono prodotti un due momenti differenti, a distanza di alcuni decenni l’uno dall’altro. Ciò spiegherebbe l’evidente differenza stilistica. Il fatto che siano stati ritrovati insieme potrebbe essere messo in relazione al fatto che essi siano stati esposti contemporaneamente all’interno di una mostra tematica dedicata a Napoleone. Fallini, d’accordo con il curatore, propose al pubblico i due lavori lasciando spazio all’ironia. L’autore avrebbe fornito in questo modo il pretesto per creare una sorta di dittico con il quale avrebbe unito il momento in cui ebbe inizio la gloria del condottiero, a quello che sancì la sua “sparizione” della storia, insomma, l’inizio e la fine della sua parabola. A questo proposito vengono in mente gli oscuri versi di un rimatore vissuto all’epoca di Napoleone che, in un’ode dedicata al condottiero[iv], fa spesso riferimento al rapporto tra splendori passati e miserie presenti.


[i]  Mario Fallini fu l’autore di alcuni interessanti progetti concettuali. Attraverso un lascito dell’Università di Pisa si è recentemente scoperto che al suo nome è legata la realizzazione del Theatro della Memoria di Camillo, una sorta di contenitore di tutto lo scibile umano. Fallini fu l’unico artista a portare a termine un progetto elaborato quasi quattrocento anni prima, utilizzando le primissime forme di RAM. Accanto a questo egli è segnalato come autore di alcune opere, tra la quali la riproduzione del Milione di Marco Polo (Genova, Museo della città) e Il Nome della Rosa di Umberto Eco (Area metropolitana padana, Collezione privata). Un frammento cartaceo firmato da un certo Carlo Pesce ritrovato in un collage del XXI secolo, spiega che Fallini avesse ricopiato a mano. Un testo del Milione è conservato alla biblioteca del Cairo.
[ii] Di questo personaggio si sa pochissimo. Sembra che comandasse un’ala della cavalleria dell’esercito francese e che, quando ormai sembrava che l’armata napoleonica capitolasse, egli piombasse sul disordinato esercito avversario, rovesciando le sorti della battaglia, ma pagando con la vita la sua impresa. Ricordiamo il nome di questo militare francese grazie alla didascalia della stessa cartolina che ci permette il confronto con l’opera di Fallini.
[iii] L’isola di Sant’Elena è uno dei misteri della vicenda napoleonica. Lo sconvolgimento degli oceani con la conseguente scomparsa di molte terre impedisce di capire dove si trovasse l’ultima dimora del Bonaparte. Un gruppo di studiosi dell’Università di Parigi sostiene che si sarebbe potuta trovare al centro dell’Oceano Atlantico, non al largo delle coste italiane come affermano moltissimi storici.
[iv] Il componimento in questione è “Il 5 maggio” di Alessandro Manzoni.

lunedì 17 dicembre 2012

channukah alla sinagoga di casale monferrato

Channukah è una festività ebraica, conosciuta anche con il nome di Festa delle Luci, infatti essa è caratterizzata dall'accensione dei lumi di un particolare candelabro ad otto braccia chiamato chanukiah. La festività dura 8 giorni e la prima sera è quella che inizia al tramonto dell’8 dicembre.
La storia, riportata nel Talmud, racconta che dopo la riconquista del Tempio era necessario tenere accesa la Menorah con olio d’oliva puro. Purtroppo nel Tempio venne trovato olio che sarebbe bastato solo per una giornata. Si preparò lo stesso una Menorah di ferro e stagno e si accese comunque il lume. Nonostante la scarsa quantità di combustibile,  quel poco olio durò il tempo necessario a produrre l'olio puro, proprio gli otto giorni che diedero inizio a questa tradizione.
Channukah a Casale è anche l’occasione per l’esposizione delle nuove acquisizioni del Museo dei Lumi. Si tratta delle lampade che gli artisti donano a questa istituzione. Le lampade caratterizzano una creatività che deve concentrarsi sulla realizzazione di un candelabro a otto bracci più quello dello shammash, creatività che si sposa perfettamente con la sintassi stilistica di ciascun artista. Infatti, le risposte rispecchiano chiaramente la fase del percorso che essi stanno affrontando. Relativamente a quanto è avvenuto quest’anno, qualcuno ha risposto in modo da dimostrare immediatamente il legame con la tradizione ebraica, come nel caso di Mario Borgese, Dario Canova, Riccardo Dalisi, Arianna Inglesi, Omar Ronda e Luigi Viale. Altri artisti hanno elaborato dei progetti in cui l’elemento tradizionale risulta chiuso all’interno di interessanti allegorie, come nel riferimento alla natura di Maria Grazia Dapuzzo, oppure alla netta geometria dei legni di Lorenzo Piemonti. Diverse le scelte di Max Ferrigno  e Danilo Seregni. Il primo gioca sulla figura di Krasty il clown al centro di un coloratissimo vassoio di dolcetti pop surrealist; il secondo con una struttura a forma di pesce dalla cui coda scendono otto fili cui sono appesi i lumi.
Piergiorgio Colombara, infine, realizza un’opera in ottone, una vera e propria architettura in cui lo shammash trova posto all’interno dell’installazione. Un’apertura ovoidale che evoca l’infinito e la visibilità da ambedue i fronti fanno di quest’opera un notevole esempio di estetica plastica.

lunedì 10 dicembre 2012

novità a "ridisegnare napoleone a ovada"

È opportuno ricordare che questa mostra ha avuto un precedente a Serravalle durante la scorsa estate. A Ovada molti lavori sono gli stessi, qualche artista, invece, ha messo a disposizione una seconda opera, componendo una sorta di curioso dittico che sembra assumere una più concreta dimensione narrativa. È il caso, per esempio, di Mario Fallini, che al suo “Napoleone a Sant’Elena” affianca a una prospettiva che evoca la figura di Napoleone a Marengo, costruendo l’intera parabola del condottiero attraverso l’inizio e la fine della sua gloria. Oppure di Max Oddone che, ironicamente, adopera la stessa figura di David per comunicarci attraverso due distinti giochi di parole, qualcosa di Napoleone.
Al gruppo originario (leggermente ridotto per vari motivi) si sono aggiunti i lavori di Luca Crescenzi, autore di una raffinata rilettura di una parte del ritratto di Napoleone a cavallo che varca le Alpi di David; di Gaspare Sicula che ha realizzato una piccola scultura che gioca su alcune forme geometriche che rimandano all’abbigliamento dell’imperatore; di Enrico Francescon che ha costruito con la matrice di una sua xilografia un convincente dittico che si compone sia dell’incisione ottenuta, sia di un assemblaggio che, con la matrice al centro, si trasforma in un’immagine della bandiera francese. Anche per Gianni Cella “le drapeau” diventa il supporto citare il suo “Basso impero” di Serravalle. Altro artista che partecipa a questa rassegna, non presente a Serravalle, è Antonio Marangolo che propone una visione concettuale di un campo di battaglia. Antonio Laugelli rielabora la sua installazione arricchendola con elementi trasparenti che rappresentano le isole che hanno scandito alcune tappe dell’esistenza del Bonaparte. Completano la rassegna le opere di Gianantonio Abate, Alessandro Beluardo, Angelo Bertoglio,Vito Boggeri, Roberto Bonafé, Giò Bonardi, Corrado Bonomi, Stefano Borasi, Pietro Casarini, Edilio Cavanna, Franca Cultrera, Simone Ferrarini, Concetto Fusillo, Alessandra Guenna, Carlo Ivaldi, Francesca Liotta, Giovanni Maccioni, Mirco Marchelli, Ezio Minetti, Giorgio Panelli, Paolo Petrangeli, Andrea Pollastro, Angelo Pretolani, Giancarlo Soldi, Ania Tomicka e Salvatore Vessella.

giovedì 6 dicembre 2012

ruggeri_saroni_soffiantino: il ritorno del liceo saracco

Durante l'estate scorsa, dopo un anno di assenza è ripresa la tradizionale rassegna d’arte al Liceo Saracco di Acqui, una rassegna importante, dedicata alla fase informale di tre autori piemontesi di primo piano, vale a dire Piero Ruggeri, Sergio Saroni e Giacomo Soffiantino. Costoro furono alcuni di quei giovani che si raccolsero intorno alla figura del critico Luigi Carluccio, direttore dalla storica galleria “La Bussola”, l’autentico punto di incontro e di dibattito dell’Informale torinese, la cui attività espositiva fu largamente incentrata in questo senso.
Ormai è risaputo che l’Informale è stato un momento fondamentale per gli sviluppi dell’arte contemporanea, un momento che però già nella prima metà degli anni Sessanta aveva esaurito il suo carico rivoluzionario. Con questo non si vuole dire che l’Informale cessi di esistere dopo quella data – e ne è riprova, per esempio, l’attività in tal senso nei decenni successivi  dei tre autori in mostra – ma sicuramente deve essere ridefinito in modo da evitare l’idea di un ripetersi di modi che, obiettivamente, non può e non deve essere considerato tale. Ciò lo si evince riflettendo anche sul titolo della rassegna “oltre il confine dell’Informale”, un titolo che spiega l’effettivo dilatarsi di uno “stile” che però travalica un confine e diventa “altro”.
Piero Ruggeri ancora negli ultimi anni della sua vita si è lasciato trascinare dal fascino della materia pittorica operando un’indagine sulla natura che ha assunto connotazioni completamente differenti rispetto a quelle degli esordi. Le sue immagini più recenti , per esempio, richiamano alla mente riflessi di vegetali su compatti specchi d’acqua, indagando direttamente la natura e evitando di penetrare nel gorgo magmatico che invece apparteneva alla sua produzione degli anni Cinquanta.
Diverso è il discorso relativo a Sergio Saroni. La sua produzione informale degli anni Cinquanta è caratterizzata da due tipologie di azione: da una parte egli pone spessi strati di materia pittorica che si raggruma in contenute strutture geometriche dense di colore; dall’altra vi è la presenza di un segno che si compone in una raffigurazione sintetica che evoca situazioni reali. Si tratta di una dicotomia che nella riflessione artistica successivi vedrà Saroni optare per lo sviluppo di un segno che addirittura, almeno in alcuni lavori degli anni Ottanta, diventerà espressione di un evidente naturalismo.
Il Soffiantino degli anni Cinquanta emerge con una ricerca di conformazioni dai tratti delicati che sembrano talvolta fluttuare nella nebbia. È un insieme di macchie e segni  che sembrano dare una visione del mondo dall’alto. È una pittura morbida, flessuosa, con un uso costante del segno, senza mai velocizzarlo. Il gesto di Soffiantino è carico, ma si stempera e si appiana. È un qualcosa che evoca un ricordo lontano, un tormento della memoria che prende corpo mentre lo si cerca. I lavori successivi, quelli realizzati dalla fine degli anni Sessanta, mantengono qualcosa di quella ricerca, ma diventano più appagati, più immobili, come se l’autore avesse agguantato il senso essenziale del reale.

domenica 2 dicembre 2012

enzo esposito alla galleria vigato di alessandria

Enzo Esposito è uno dei più interessanti artisti astratto/materici attivi nell’Italia meridionale. Nella sua opera si odono gli echi di varie esperienze estetiche, soprattutto quelli dell’Espressionismo astratto, rielaborato con una cromia decisamente più ricca, più calda, più mediterranea. Nei suoi lavori si assiste al pulsare della materia, attraverso dei segni che connotano fortemente la sua tela. Sono campiture di colore tracciate con vigore, aree che lasciano intuire dei “paesaggi”, delle strutture urbane immerse in una luce potente che le confonde. È una luce che le rende quasi invisibili, palpitanti nel loro disgregarsi negli sfondi, sfondi che a loro volta sembrano avvinghiarsi alle strutture segniche poste in primo piano, per creare una sorta di impressione mnemonica che identifica un frammento di percorso attraverso il mondo.
C’è qualcosa di particolare in queste pitture, qualcosa che sembra voler accogliere l’osservatore, che desideri farlo entrare a contatto con una realtà interiore che sembra voler essere esplicitata senza riserve. Esposito non si cela dietro a un’allegoria, non si pone nell’ottica di voler nascondere l’autentico significato della sua opera. Egli si cimenta con la rappresentazione di un processo che tende solamente a trasfigurare una propria esperienza di vita. Esposito crea delle luminescenze ectoplasmatiche che si richiamano a emozioni dalle quali l’autore è completamente pervaso. Nelle sue opere si concretizza l’esperienza di un corpo a contatto con il mondo, un corpo che deve fare continuamente i conti con la propria memoria per dimostrare di essere ciò che è. Allora si fa spazio un’intuizione dalla quale ricaviamo la sensazione di un piacevole distacco, di un procedimento di purificazione che identifica l’artista con una guida che sembra volerci condurre a afferrare il senso  della concretizzazione di un sogno. Gli spazi che egli ci offre sono il saggio di un’ineffabile spiritualità che ci trattiene a contemplare il nostro essere. È però un essere che talvolta vuole sfuggire alla sua condizione di potenziale eroe e che, invece, tende a restare in una situazione di miseria, aspettando pazientemente di esplodere per illuminare coi propri frammenti la vita degli altri.

venerdì 30 novembre 2012

il tanaro a masio di vittore fossati (libro fotografico)

Si intitola “Il Tanaro a Masio” questo libro corredato da uno scritto di Matteo Terzaghi che presenta una serie di scatti di Vittore Fossati. Si tratta di fotografie realizzate nell’arco di un paio di anni, in vari momenti, proprio nei pressi di Masio, a ridosso del percorso del Tanaro.
Sono foto legate alla cosiddetta “estetica dell’impassibilità”, in cui sembra prendere corpo l’apparente distacco emotivo del fotografo a vantaggio di un totale controllo del mezzo. Questo tipo di fotografie si mostra particolarmente leggibile, i soggetti sono facilmente riconoscibili trattandosi, come in questo caso, di luoghi che appartengono alla quotidianità. Ma, affermare di risolvere esteticamente una serie come questa, pensando di paragonare le nostre sensazioni a quelle del fotografo, non è il sistema più efficace per capire il significato delle immagini.
Le fotografie di Fossati devono essere studiate pensando di portarsi al di là di una prospettiva individuale, devono essere prese in considerazione cercando di rilevare l’estendersi “energetico” di esse oltre al semplice punto di vista umano, per interagire anche con quello naturale, chiaramente più difficile da individuare. La fotografia di Fossati è assai precisa nella descrizione del soggetto, ma spiazza per la sua neutralità, per la sua completezza, dando a quelle immagini un valore assoluto, al di fuori di qualsiasi indicazione cronologica. Il fiume è sempre stato, quella stessa veduta poteva essere percepita mille anni addietro, e per questo si può comprendere la dimensione epica di un lavoro del genere.
La fotografia di Fossati è oggettiva, con una freschezza che offre emozionalmente l’informazione visiva nella sua totalità. Le aree fluviali sono selvagge, coperte dalla vegetazione spontanea. L’azione dell’uomo è lontanissima e, a parte il taglio di un tronco o il solco della ruota di un mezzo meccanico, il posto non risulta condizionato da nient’altro se non dalla natura. Fossati insiste sulle condizioni del posto, su come le stagioni impongano luminosità differenti sullo spazio e come piccoli elementi , ciò che il fotografo individua come “incidenti”, siano alla base di costruzioni di architetture allegoriche che identificano e rendono le sue fotografie spunti di riflessione unici e straordinari. La serie “Il Tanaro a Masio” risponde al tipico metodo di lavoro di Fossati. Egli si muove nella campagna dedicando parte del suo tempo alla ricerca visiva, diventando sensibile ai cambiamenti di stato dei luoghi durante il corso del progetto. Ogni fotografia comunica la meraviglia di avvicinarsi al luogo su cui si incentra la ricerca e a percepirlo come se fosse la prima volta che lo si vede.
La produzione di Fossati si colloca all’avanguardia delle esigenze artistiche della fotografia contemporanea. Al pari di artisti come Thomas Struth o Lukas Jasansky o del coreano Boo Moon, i suoi soggetti spaziano all’interno di un repertorio che ha come protagonista il paesaggio. L’atteggiamento è oggettivante e si pone in un’ottica di comunicazione che, oltre a assumere delle precise connotazioni estetiche, talvolta, evoca le implicazioni ecologiche cui è sottoposto l’ambiente.

piero mega a castellazzo (Limes)

RIFLETTERE SUL LIMITE

La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno.
Jean-Paul Sartre, La Nausea.

Tra l’universale e il particolare non si interpone filosoficamente
 nessun elemento intermedio, nessuna serie di generi o di specie.
Benedetto Croce, Breviario di Estetica.

Il mondo non è il nostro mondo, neanche potenzialmente.
Può essere parzialmente o largamente incomprensibile
per noi, non solo perché ci mancano il tempo e la capacità
 tecnica di acquisire una completa comprensione di esso, ma
 a causa della nostra natura. L’idealismo, la visione per cui quello
che esiste nel senso più ampio deve essere identificato
 con quello che è pensabile da noi nel senso più
 ampio, è un tentativo di ridurre la grandezza dell’universo.
Thomas Nagel, Uno sguardo da nessun luogo.

Le fotografie scattate da  Sammy Paravan [i] riescono a cogliere l’aspetto fondamentale dell’arte di Piero di Mega. Esse permettono all’occhio di appropriarsi della forza della materia con la quale l’artista tortonese realizza  questi lavori. L’azione pittorico/gestuale di Mega è quella di tracciare un sistema di pigmenti che riescono a farci intuire una possibile soluzione ordinata a fronte di una situazione di confusione magmatica iniziale. In effetti, il senso più profondo di questa fase creativa di Mega è quella di dare un’interpretazione della realtà che ci circonda al termine di una riflessione filosofica, di illustrare con i mezzi che gli sono propri lo sviluppo di un pensiero, di cercare, attraverso il riferimento alle teorie opportune, di spiegare quel cambiamento che ha dato origine alla vita: ci deve essere stato un momento in cui l’universo era “qualcosa” senza regole, un indefinibile composto di non-materia, e poi, ecco, ci fu la materia. È difficile spiegare che cosa avvenne. Sicuramente alla base ci fu un evento razionale, ricercato dalla fisica ma attualmente non ancora provato. I filosofi presocratici provarono a spiegare ciò che avvenne e parlarono di due momenti distinti: il kaos, per indicare lo stato di disordine iniziale, la mescolanza di tutti gli elementi  precedente l’ordine, cioè il  kosmos, appunto il secondo momento. Fu anche attraverso il mito che si diedero delle risposte, indicando generalmente la volontà di un’entità superiore come principio delle cose.
Mega traduce nelle sue opere questo misterioso accadimento tracciando un orizzonte. La linea che taglia lo spazio dividendo la terra dall’aria, o l’acqua dal fuoco, è il primo segno nel quale percepiamo un ordinamento dell’universo. Immediatamente, però, ecco che si crea un confine, un limite, qualcosa che pone una regola, un concetto che Mega identifica con il termine latino LIMES. È un paesaggio da “alba della creazione” quello che si vede, l’azione ordinatrice non si è ancora conclusa e miliardi di frammenti di luce stanno fluttuando nelle due porzioni di spazio controllate pittoricamente da Mega. È una sensazione strana quella che ci afferra nel momento in cui ci si pone a contatto con questi lavori, una sensazione quasi avvolgente, un ritorno indietro verso ciò che ci portiamo dentro e che per qualche istante riusciamo a intuire.
Il LIMES però nasce come limitazione[ii]. Per contro, anche se potrebbe sembrare un’affermazione inopportuna che rasenta la provocazione, il caos rappresenta la libertà assoluta, svincolata da qualsiasi schema. L’ordine è costrizione, è etica. L’ordine impone il punto di vista, ci dà i principi della catalogazione e della gerarchizzazione. L’ordine è una grande gabbia nella quale ci si riesce a muovere con una certa autonomia. Mega, per completare in modo più chiaro la sua opera, inserisce in alcuni dei suoi lavori dei limiti fisici per simbolizzare il confine imposto. Con questi ottiene delle superfici regolari che affiorano prospetticamente dal rosso argilloso di un composto che mischia colle e pigmenti alla terra della Frascheta, l’area pianeggiante che si estende tra Alessandria e Tortona. Un ready-made di oggetti recuperati dagli scarti dai cantieri sparsi ai confini della città completa l’opera. Tutto appare più triste rispetto all’azione in divenire dei lavori cosmologici, lo spazio è condizionato da un monocromo ossessivo, un deserto da fine del mondo, un vuoto marziano dominato da una sorta di tomba.
Quelle citate, proposte a coppie, sono opere che devono essere pensate come complementari, anche se così apparentemente lontane. Esse, sempre legate tra loro,  sembrano porsi come Alfa e Omega, come principio e fine, come i due punti definitivi al di là dei quali non si può andare. Esse sono il confine, la sua sublimazione, l’allegoria dell’unica certezza, quella del corso della vita compresa tra la nascita e la morte, che ha ogni vivente. Sono i due punti che pongono i limiti alla linea dell’esistenza, il cui  senso può essere spiegato soltanto dalla filosofia. Un compito importante per questa disciplina. Centinaia di idee, di intuizioni che vogliono arrivare alla verità, una ridda di nomi che con il loro lavoro hanno cercato di squarciare il fitto velo che ci isola all’interno di un sistema complesso. Due poli: Atene e Berlino, i luoghi che sono stati capaci di creare le basi del pensiero occidentale. Cartigli che ricordano i principali filosofi si susseguono su una struttura che sembra la Via Lattea, esplosioni di intuito che hanno brillato per la serietà dei loro discorsi, che hanno cercato di spiegarci la loro verità. Forse è solo una mappa, più probabilmente un terreno di confronto sul quale dobbiamo muoverci per comprendere l’arte di Piero Mega.


[i] Catalogo della mostra Piero Mega Limes, Palazzo Salmatoris, Cherasco, 23 giugno-15 luglio 2012. Le foto in questione,  si incentrano sulla descrizione macroscopica di alcuni particolari delle opere esposte durante la rassegna, particolari che documentano soprattutto l’aspetto tecnico, estremamente materico, del più recente lavoro di Mega.

[ii] Il termine italiano limite, infatti, deriva dall’accusativo della parola latina limes (limitem), forse di origine indoeuropea, e ha mantenuto l’originario significato di confine.

mercoledì 28 novembre 2012

nadir montagnana a palazzo cuttica di alessandria

Nadir Montagnana è un artista la cui opera ha sempre suscitato curiosità e interesse. Egli ha proceduto attraverso un lavoro meticoloso, carico di attenzione che lo ha condotto a ottenere un marchio particolare, immediatamente riconoscibile nella sua unicità. La mostra di Palazzo Cuttica è l’esplicitazione di questa attività, un’attività che si incentra sull’analisi di un paesaggio spirituale studiato e ripetuto cezannianamente attraverso gli esiti di due linguaggi, uno calcografico e l’altro “pittorico”.
La calcografia è una tecnica di stampa che utilizza delle lastre, generalmente di rame, incise a incavo, in cui l’inchiostra viene ritenuto nei solchi. In esse, opere in eterno divenire, si rincorrono le sensazioni di aver individuato delle figure note, una staccionata sperduta tra i prati, un’area rocciosa che sembra schiacciata dalla tensione combusta, una traccia di strada che si addentra nell’orizzonte. Dallo sfondo giungono cromie contrastanti: un denso fumo bluastro o un caldo giallo zafferano che si combinano evocando la stessa grana sabbiosa di certa pittura astratto-materica. Il disporsi degli elementi procede attraverso la regolazione di assi che “trasportano” le strutture all’interno dello spazio rappresentato.
Quello che abbiamo di fronte è dunque un paesaggio che si pone come una sorta di evoluzione della sperimentazione pittorica, acida e tagliente, delle stoffe. In questo caso l’atteggiamento di Montagnana si concentra sulla disposizione del colore che viene “tirato” su scampoli di tessuto, ottenendo una controllata struttura paesaggistica. A mio avviso, l’ibridazione tecnica adoperata dall’artista non permette di identificare queste opere come pittoriche tout court, ma la capacità di dosare gli spazi e le cromie ci parlano di un linguaggio che si richiama a una percezione tonale nella quale l’essenza pittorica è imprescindibile.
Questo discorso lascia intendere, anzi rafforza, una stretta affinità tutta interna ai lavori di Montagnana. Infatti, anche nelle opere non calcografiche, il segno è nutrito da una filigrana sottile che non copre interamente le superfici, ma si limita, in genere, a agire sulla zona centrale dell’opera, come una ragnatela che si espande e determina profonde increspature. L’idea fondamentale è quella di offrire una sintetica riproduzione di paesaggio nel quale si percepiscono, anche in questo caso, delle figure note. Esse, però, insistono su una visione della natura più religiosa (termine da intendere nel suo significato etimologico, cioè relativo al raccogliere) e irrazionale. In questo modo emerge per Montagnana un concetto estetico che si richiama a modelli naturalistici e non si appoggia necessariamente su mezzi pittorici tradizionali. Ovviamente, non ci si trova di fronte a posizioni conservatrici o contrarie alla ricerca contemporanea, ma la radice, in modo più o meno evidente, è quella, la stessa individuabile negli scritti di Arcangeli, che parlando proprio di natura, la poneva al centro di varie forme sensitive e, per questo, pensava potesse essere collocata al centro stesso dell’esistenza.

sculture alla galleria Lara e Rino Costa a Valenza

Dopo un breve periodo di inattività, la Galleria Lara e Rino Costa è ritornata a proporre un’interessante rassegna di sculture. In questo modo i galleristi tornano a ribadire la loro intenzione di proporre artisti raffinati con alle spalle un unanime riconoscimento di critica. La presentazione di questi lavori è estremamente elegante, immersi nelle luce diffusa dello spazio valenzano, capace di esaltare le peculiarità di oggetti a prima vista “non facili”, ma sicuramente dotati di una bellezza intrinseca che li rende ipnotici e convincenti.
È il caso del minimalismo di Giuseppe Spagnulo, il cui parallelepipedo in acciaio modifica la propria forma originaria subendo il risultato di una forza esterna che sembra volerne strappare delle parti, non mancando di mostrare le tracce di questa violenza subita.
Interessante l’esoterico lavoro di Vettor Pisani, lavoro che rimanda ai riti massonici, che invita a prendere coscienza della sottilissima rete di misteriosi segni e allegorie, propri di un linguaggio particolare che contribuisce a creare un discorso simbolico del quale riusciamo a percepire solo uno dei lati delle innumerevoli sfaccettature.
La scultura di Adriano Visintin spicca per l’accentuazione delle forme sinuose che all’interno della rappresentazione dei suoi corpi assumono una notevole importanza. I piccoli spazi vuoti che determinano la percezione delle membrature diventano materia scultorea a pieno titolo e la scultura diventa anche forma dello spazio esterno da cui è compenetrata. In questo senso appare chiara la sua natura di metafora dell’archetipo femminile.
Piero Fogliati è presente con una macchina che attraverso lo sfregamento di molle che si allungano verticalmente verso terra, produce un suono. Esso entra a contatto con lo spazio dilatando la materia tangibile e facendo diventare il suono parte della scultura stessa. Si tratta di qualcosa che va al di là della concezione tradizionale della plastica, determinando un prodotto che ci appare estremamente accattivante nel suo valore intellettualistico.
Umberto Cavenago crea, come afferma Renato Barilli, dei simulacri di oggetti utili, indirizzandoli verso fini ludici, facendoli diventare delle specie di balocchi. I suoi oggetti, infatti, risultano estremamente semplici nella struttura, e, proprio per questo, sono dotati di una forza estetica che si comprende chiaramente solo dopo aver meditato sulla forma che li caratterizza.
Giuseppe Maraniello adopera lo spazio appendendo l’oggetto a un sottile filo che lo rende aereo, fluttuante nell’atmosfera. Il filo diventa così l’asse sul quale si sviluppa la scultura, offrendo una concreta sensazione di leggerezza che permette, in questo caso, alla barca di navigare su un immaginario mare di eternità poetica.
Eliseo Mattiacci è presentato con un lavoro “povero”, successivo allo spazialismo che sembra meglio esaltare le sue capacità estetiche. Giuseppe Uncini è caratterizzato da un valido omaggio “edile”, un frammento di lamina in acciaio su cui sono saldati alcuni tondini nello stesso materiale. È un artefatto che permette la percezione dell’anima del materiale. La flessione della superficie induce alla comprensione di un ricamo nello spazio, all’evidenziazione di quell’ombra che per un attimo corre sulla materia. La mostra è infine completata anche da opere di Carlesso, Enzo Castagno e Emilio Isgrò. 

martedì 27 novembre 2012

Ermanno Barovero a Villa Vidua a Conzano

È un tipo di pittura che sicuramente colpisce l’immaginazione di chi le osserva. Le sale di Villa Vidua, dimora signorile di fine Settecento, si riempiono delle tinte romantiche di Ermanno Barovero, un artista capace di rappresentare l’essenza della natura. Infatti, nella sua pittura c’è qualcosa che sembra appartenere all’estetica del sublime, si intravede la volontà di interpretare un tema che affonda le sue radici nella tradizione pittorica più antica, facendo riferimento a precisi condizionamenti contemporanei. Ne esce una serie di opere dal forte carattere tonale, nelle quali l’elemento naturale si confonde, creando una struttura che emerge su un’affiorante ossatura materica.
Il percorso della mostra è stato organizzato in due sezioni. Un primo gruppo di opere sembra legarsi alla rappresentazione visionaria di sconvolgimenti tellurici da alba del mondo. È il rosso a dominare in queste opere, un rosso che evoca la poesia di rappresentazioni atmosferiche estreme, potenti tramonti che colorano l’aria, che si impongono come fenomeni collocati su spazi senza confini. Lo spazio acquisisce un valore non plastico o pittorico, ma metafisico. Lo spazio è così un valore in sé che appartiene solo vagamente alla natura oggettiva, ma si afferma come esplicitazione di esperienza interiore dell’artista: esso, più che il riflesso, ne è la forma sensibile.
Nessuna figura umana, come nota il curatore Giovanni Cordero, una mancanza meditata che permette allo spazio di dissiparsi, di entrare a contatto con l’abisso, con la lontananza. I quadri di Barovero sono intensamente silenziosi, ma è un silenzio carico di messaggi profetici, come pronunciati da un oracolo. Il messaggio portato dal quadro assume dunque un suo significato più completo se si comprende che la luce, la forma, il colore sono ingredienti che incidono pesantemente sulla connotazione spirituale di questi lavori.
L’altra sezione risulta più pacata, con visioni acquatiche di stagni e di ruscelli. Le metamorfosi subite da questi spazi sono il risultato di una sensibilità dove si ribadisce la tendenza di osservare “l’aperto”, ”l’irregolare”, insomma tutto ciò che rappresenta la libertà vitale dell’acqua. Il movimento leggero che si intuisce osservando questi lavori, è carico di seduzione. Si percepisce un amore per la natura di tipo sensoriale che si impossessa dei dati percettivi amplificandoli, modificandoli. Queste opere fanno intuire la volontà di un ritorno a una realtà che si raggiunge con mezzi prettamente sensoriali. È chiaramente ancora una volta una rappresentazione fortemente soggettiva in cui Barovero prende coscienza di una natura che aiuta l’uomo a compiersi come parte dell’universo.
La pittura di Barovero esalta l’immaginazione, la trascina lontano, in spazi inaccessibili. Il cielo, come l’acqua, le nuvole, la terra sono gli elementi preferiti di questa fase pittorica. Egli è attratto dall’immensità priva di limiti, dalla luminosità atmosferica carica di vapori, percepita con tutti i sensi, per tentare di condurci a contemplare ciò che non può essere descritto.

il castello errante a casale

Il castello errante.
In un certo senso, per me raccontare una storia è sempre una
 sorta di viaggio spirituale, dove però rimani te stesso, cresci,
impari qualcosa e passi al livello successivo. È questo quello che
conta per me. E io lo applico al cinema, come nella vita normale.
Tim Burton

Agisci in modo che ogni tuo atto si degno di diventare un ricordo.
Immanuel Kant

Il castello errante di Howl (ハウルの動く城, Hauru no ugoku shiro) è un film d'animazione giapponese del 2004, diretto da Hayao Miyazaki e prodotto dallo Studio Ghibli. La sceneggiatura è adattata dal romanzo omonimo del 1986 di Diana Wynne Jones, pubblicato in Italia nel 2005 da Kappa Edizioni.
Il film presenta molte delle caratteristiche tipiche delle opere di Miyazaki: ha come protagonista una ragazza, come Nausicaä della valle del vento, La città incantata, Laputa: castello nel cielo e Kiki consegne a domicilio, ed ha un'ambientazione che ricorda nei vestiti e nell'architettura l'Europa degli inizi del Novecento, ma in un mondo in cui è presente la magia. Gli avvenimenti si svolgono in una nazione fantastica che ricorda l'Alsazia degli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Molti edifici delle città sono identici a quelli della città alsaziana di Colmar, che Miyazaki ha riconosciuto come fonte di ispirazione per l'ambientazione del film. L'ambientazione che riecheggia la Vienna imperiale dell'800 nonché le automobili e le macchine da guerra volanti che vi si vedono, tutte mosse dalla forza del vapore, caratterizzano l'opera come appartenente al filone steampunk[1].
Il film è stato presentato in concorso alla 61ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ed è uscito nelle sale italiane il 9 settembre 2005; fra le altre cose, con questo film il maestro ha ottenuto il Leone d'oro alla carriera, risultando l'unico produttore di film d'animazione a conquistare sia l'Oscar che il Leone d'Oro[2].
Non è casuale il fatto che si sia pensato a un titolo che è la palese citazione di un famoso film di animazione. Non è casuale, perché questo film rappresenta un unicum nella storia del cinema, per il fatto che, tra le altre cose, la critica ne ha riconosciuto il valore artistico, “sdoganando”, per così dire, la produzione di film d’animazione giapponese, che fino a allora era ritenuta in modo un po’ snob, priva di qualunque contenuto estetico.
Questa situazione riflette un po’ il destino dell’arte cui lavorano gli autori protagonisti di questa rassegna. Infatti, ci troviamo di fronte a un’esperienza postmoderna che solo da qualche anno è stata accettata come forma d’arte. Essa è però carica di significati, improntata a una fruizione condivisa su supporti che fino a qualche tempo fa erano impensabili come “spazi espositivi”. È solo un caso, proprio come un “castello errante” che essa si fermi in uno spazio pubblico tradizionale: essa si muove a prescindere, essa viene fruita da un numero enorme di persone, proprio come un cartone animato, come un graffito su un vagone di un treno.
Robert Williams, giovane giornalista di Los Angeles, scrivendo qualche anno fa un articolo sulla rivista “Juxtapoz”, ha inventato il termine Lowbrow art per etichettare questo tipo di attività artistica, in opposizione al termine “intellettuale” e per identificare una produzione che nessuna istituzione avrebbe autorizzato a esporre. È un termine che arriva dalla strada, dalla sottocultura punk, assolutamente efficace per definire un surrealismo astratto contaminato da cartoon.
Mai come di fronte a questi argomenti sono assalito da una strana curiosità. Si ha la netta impressione che addentrarsi in questo argomento significhi accedere in una specie di Luna-park. Si deve liberare la mente da ogni categoria estetica tradizionale, pensando di farsi strada seguendo l’evolversi tabulare di un racconto, un po’ come in un fumetto, un racconto che esprime il senso più profondo della loro arte. a un certo punto ci si rende conto che non è un percorso esclusivamente visivo, perché tutti i sensi sono coinvolti nella costruzione del significato della loro arte. Ecco la musica, un ritmo ossessivo di cimbali e tamburi. Voci stentoree di rappers che urlano da altoparlanti evidenziando le contraddizioni di una società che oscilla tra derive rivoluzionarie e l’ostentazione di una malsana opulenza. Un’atmosfera pesante contrasta con i colori sgargianti degli zuccherosi dolcetti. È una sorta di main street circense, un ruvido fondale di legni effimeri assolutamente identico a una scenografia hollywoodiana.
Il Luna-park è l’allegoria di questo modo di fare arte. Esso viene sistematicamente montato e rimontato in modo da creare una struttura labirintica di difficile percorribilità che sembra mescolare città ideali e ucronie. In questi artisti penetra a fondo la volontà di demistificare l’attitudine romantica con la manifestazione di una presenza forte nel mondo. Colori vivaci, semplici, che inevitabilmente richiamano atmosfere underground. Lo spazio è domato e utilizzato con consapevolezza e improvvisazione. Nelle opere c’è un intreccio continuo di street art, pop surrealism  e tradizione. Il linguaggio è essenziale eppure caotico, la figurazione è quasi fumettistica e costruisce comunque una storia.
Gli artisti che espongono in questa mostra appartengono a una generazione che ha assistito, forse anche partecipandovi, a una sorta di “rivoluzione culturale”. Costoro hanno assimilato i  modelli della cultura del consumo, sono cresciuti all’ombra di una certa pubblicità dirompente e invadente; hanno letto i manga; hanno discusso di biotecnologia e cibernetica confrontandosi con i contenuti di certi cartoons nippo/americani; hanno camminato per strade chiuse da muri adoperati come supporto per graffiti urbani di enorme impatto visivo; hanno offerto le loro pelli per tatuaggi e piercing.
Di fronte a queste opere, schiette e piene di ironia, si ha l’impressione di una enorme capacità artistica pronta a sostituire ciò che ormai da anni è inteso come elemento fondante della nostra società. L’estetica cui essi fanno riferimento sembra lontana dai cliché tradizionali, eppure essa non manca di quello stesso background culturale che ha animato le correnti che hanno fatto riferimento a Duchamp, e poi a Rauschenberg e a Warhol, e che hanno saputo ridiscutere quei valori che, una volta acquisiti, sembravano impossibili a essere scalzati.
In questi lavori c’è una freschezza palpabile, c’è una capacità di resa cromatica che attinge a piene mani dalla lezione Pop, soprattutto dall’ambito di quelle tinte “glassate” tipiche della produzione di Jeff Koons o di Haruki Murakami, latori e maestri di quel nuovo linguaggio che, razionalmente, fa riferimento a modelli di consumo e a relitti di una società che cambia in continuazione. È chiaro, infine, che questi artisti sono l’evoluzione resilienziale di Cattelan, De Dominicis, Cella , Abate, Ceroli, Gilardi, solo per citarne alcuni, ai quali devono molto, e dei quali hanno saputo ridefinire e reinterpretare personalmente parti del linguaggio, divenendo a loro volta eventuale esempio dai quali attingere.

MAX FERRIGNO
L’attività pittorica di Max Ferrigno è ormai da anni rivolta all’approfondimento dei temi del Pop surrealism. I suoi soggetti raccontano un mondo che sfiora l’espressionismo, i suoi personaggi sono precise rielaborazioni figurative che sembrano provenire dal mondo del cartoon e si muovono in spazi metafisici. I colori di Ferrigno sono sovraccarichi, brillano di una luce insolita, come gli inchiostri di certa fumettistica disneyana. Il carico di ironia che pervade i suoi lavori è palese. Egli propone in continuazione situazioni che stravolgono una realtà che diventa, per questo, sempre più sfuggente. L’opera di Ferrigno si pone come indagatrice di un modello in cui gli aspetti umani, irreali nella loro rappresentazione, sono l’evocazione di verità non viziate dalla sovrabbondanza di certe aspettative che, proprio perché alternative e illusorie, non coinvolgono nessuno, se non i più sprovveduti che non riescono a scindere significato e significante della sua opera. Le sue opere sono da interpretare come dei segnali che riconducono alla realtà, proprio come nei cartoon che, travalicando completamente gli aspetti tangibili del mondo, si pongono come metafore dell’esistente.

NICOLA ALBERTIN
Il lavoro di Nicola Albertin sembra procedere con l’intento di ridurre opere più ampie in frammenti di indefinibile grandezza, non perché esse vengano tagliate, ma perché Albertin si getta sopra di esse scandagliandole, quasi stesse adoperando uno zoom e si concentrasse su una determinata porzione di spazio che egli possiede nella sua mente come totalità. Il segno viene così a esprimersi attraverso il colore, valicando i confini di quelli che potrebbero essere i valori che si nascondono in esso. Il flusso cromatico scorre  creando forme evanescenti che paiono disgregarsi in sottili sfumature. La pittura di Albertin riflette sullo spazio, adattandolo a un ambiente immaginario che pulsa di vita propria. Il colore non si appiattisce e lascia scorrere una visione in profondità che raggiunge angoli inesplorati di questi frammenti di universo. La dimensione che Albertin rappresenta è infinita, in quanto non limitata nello spazio-tempo del visibile. Il vedere diventa meta visivo, ponendosi come superficie compiuta che si apre di fronte ai nostri occhi come astrazione fortemente spirituale.



[1] Lo steampunk è un filone della narrativa fantastica-fantascientifica che introduce una tecnologia anacronistica all'interno di un'ambientazione storica, spesso l'Ottocento e in particolare la Londra vittoriana dei libri di Conan Doyle e H. G. Wells. Le storie steampunk descrivono un mondo anacronistico - a volte una vera e propria ucronia - in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) anziché dall'energia elettrica; dove i computer sono completamente analogici, o enormi apparati magnetici sono in grado di modificare l'orbita lunare. Un modo per descrivere l'atmosfera steampunk è riassunto nello slogan "come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima". (Wikipedia, voce “steampunk”).
[2] Wikipedia, voce “il castello errante di Howl”