lunedì 29 settembre 2014

la biblioteca di rebecca forster

La storia, la letteratura, sono piene di biblioteche bruciate: uno strano destino sembra, a volte, accanirsi contro i libri. Che cosa viene distrutto, che cosa si annulla quando la carta va in fumo? Impossibile rispondere, ogni cosa detta ne richiamerebbe almeno altre dieci. Ray Bradbury, in uno dei libri più pessimisti sulla possibile evoluzione – o involuzione – della società umana narra di un potere che tende a annullare ogni memoria bruciando libri. Lo avevano capito i nazisti che, per creare il cosiddetto neu ordung, sapevano che attraverso la distruzione dei libri era possibile cancellare ogni percorso culturale, ogni mappa che in qualche modo potesse ricondurre a similitudini, ad analogie tra genti che in quel momento non dovevano avere nulla in comune. A quelle stragi sopravvisse la biblioteca Anna-Amalia di Weimar, sopravvisse fino al settembre 2004, quando una scintilla innescò un grande incendio.



Rebecca Forster, racconta questo disastro. I suoi disegni svolgono la narrazione in modo sintetico, dando alle immagini una scansione cronologica, simile a quella che gli scultori antichi realizzavano sulle colonne istoriate. In ogni foglio campeggia ben riconoscibile la silhouette del “topo di biblioteca” di Spitzweg: è lui il narratore, la persona che, immersa nei libri, vive e sopravvive nella tragedia della distruzione. Non importa che cosa fosse conservato in quello scrigno tedesco, c’erano delle opere di Goethe, mappe, manoscritti, spartiti: di tutto ciò, ora non rimane quasi più nulla, anche se Forster cita tutti questi oggetti  all’interno di “bubbles” nelle quali si ritrovano magicamente, simili a quei ricordi che, finché esistono, mantengono vive le cose. La carta stampata è allora il simbolo di una memoria collettiva e va perpetrata e creata, proprio come quei fantastici libri d’artista nei quali Rebecca evidenzia il suo grande acume e il suo amore per un materiale come la carta, un materiale che le permette di costruire dei percorsi che si concretizzano nel gioco delle biblioteche pieghevoli




È chiaro che l’arte della Forster conduce inevitabilmente a delle riflessioni. Ci si domanda, che cosa si poteva fare per risparmiare tutto ciò che è stato distrutto, dell’intolleranza, del fondamentalismo. Rebecca Forster sembra darci una via da praticare, una speranza che si manifesta nel futuro, quando i libri inzuppati, bruciacchiati, recuperati grazie ad un passamano tra volontari, potranno essere presi dai freeezer nei quali sono stati collocati e potranno essere rimessi negli scaffali delle biblioteca.


martedì 23 settembre 2014

gli argini di enrico barberi

Il progetto fotografico di Enrico Barberi nasce prima di tutto per definire l’identità di un luogo e della sua gente. Alessandria è una città che negli ultimi anni ha visto, è inutile nasconderlo, una continua decadenza. Molte volte, come alessandrini, ci si è sentiti spaesati, disorientati, smarriti, privati di un simbolo che fosse capace di connettere il territorio urbano alla vita quotidiana di chi ci abita. Se si riflette, alla base di tutto vi è stata una serie di distruzioni e demolizioni che hanno sfilacciato i rapporti tra le generazioni, che hanno impedito i naturali ricambi e la possibilità di perpetrare determinati riti.



Di fronte a una sistematica mancanza di punti di riferimento, anche gli Argini sono diventati lentamente un luogo di aggregazione. A Alessandria non esiste un parco pubblico nel quale i suoi abitanti possono fare dello sport. Gli Argini infatti, non sono un parco, fanno parte del paesaggio che caratterizza l’area chiusa tra il Cimitero e i fiumi Bormida e Tanaro. È un paesaggio fluviale cui i contadini che vivevano in quella zona hanno ricavato ampie porzioni di terreno coltivabile. La pista che abitualmente viene sfruttata per gli allenamenti dei podisti si snoda con geometrica regolarità in quel contesto. Barberi ha dapprima fermato il suo occhio su quello spazio, ha indagato l’area esprimendo qualcosa che ha a che fare con le sue sensazioni, definendo – come in certi fotografie di Minor White – il dialogo tra l’aspetto materiale e simbolico del paesaggio. Nei suoi scatti le stagioni si susseguono con la loro identificabilità più immediata, quella metereologica, lasciando il ruolo di protagonista al normale susseguirsi del tempo. Ma Barberi non si limita a realizzare foto di esterni, egli le riempie, le anima con delle presenze umane. Si tratta appunto di quei podisti che hanno eletto quel luogo come loro palestra, come spazio nel quale trovarsi e aggregarsi. Essi, nel momento in cui entrano nell’obiettivo, sono consapevoli di essere fotografati, ma c’è una informalità in queste immagini che suggerisce che queste rappresentazioni sono state ricavate con azioni fotografiche veloci, quasi come se Barberi volesse fare delle istantanee per documentare un ricordo. È un tipo di fotografia che però riguarda un gruppo sociale che normalmente non vediamo nella nostra vita nelle rappresentazioni visive più inflazionate. Infatti, la descrizione di un rituale del genere dilata il motivo della presentazione di esterni fino a includervi quello sociale. Ciò che si può osservare è comunque destinato a diventare un documento storico, permetterà di vedere ciò che accadeva in un determinato periodo a Alessandria. Farà capire che negli anni della crisi, almeno lo sport dilettantistico, permetteva un’identificazione e una “solidarietà di corpo” che a altri ambiti era preclusa. A proposito di questa attività, possiamo parlare tranquillamente di “cultura”, poiché quello che intende mostrarci Barberi è una delle tante forme di resilienza che una comunità attua per continuare a sopravvivere. Quindi ci troviamo di fronte alla documentazione di un processo attraverso il quale si consolida un modello che diventa identificativo e caratterizzante. Tutto ciò, allora, altro non è che l’adattarsi a una situazione negativa sfruttando la voglia di far emergere la propria individualità pur nella coscienza di fare parte di un gruppo.




Questo concetto emerge anche nella significativa serie di ritratti che Barberi realizza ai podisti che frequentano gli Argini. I soggetti sono posti frontalmente con alle spalle un muro dalla chiara intonacatura: la composizione, che non nasconde un accenno di (auto)ironia, acquista, attraverso un pirandelliano umorismo, solennità. Gli atleti guardano l’obiettivo indossando i loro “abiti da corsa”. Nella maggior parte dei casi si tratta di “vicini di casa”, di persone che non hanno velleità di protagonismo e di risultati. Barberi riesce a cogliere questo importante elemento psicologico costruendo un’entità che fonde l’individualità di ciascuno con l’appartenenza al gruppo. L’inserimento tra i ritratti di quello di un’atleta di fama mondiale come Valeria Straneo  non sminuisce la posizione degli altri, anzi, rende, se vogliamo, ancora più grandioso il senso del progetto di Barberi che omologa l’immagine di una sportiva riconosciuta a tutti coloro che praticano quello stesso sport. Ma non solo, quello che ci viene comunicato è anche un messaggio di speranza: esso ci fa capire che attraverso il sorridente volto di Valeria si riesce a rappresentare il contenuto simbolico di una città. Valeria – ripensando agli esiti di alcune riflessioni dell’esperto di comunicazione Elio Carmi – potrebbe diventare così un’icona che identifica e rende riconoscibile un oggetto di interesse. La sua effige potrebbe diventare l’esplicitazione della vitalità di un contesto. Nel ritratto in questione non c’è infatti descrizione, ma evocazione. L’icona Valeria è l’indicazione di un percorso di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita, è capace di alzare gli standard offrendo il meglio di ciò che era in grado di produrre. Figura di riferimento che può consolidarsi come un segno, la Straneo, nel lavoro di Enrico Barberi, riconduce a sé quei valori socialmente significativi che possono finalmente compensare le carenze di un più vasto gruppo sociale.


mercoledì 17 settembre 2014

le geometrie organiche di mario surbone

É sempre un'esperienza fortemente emozionante confrontarsi con la pittura di Mario Surbone. Essa si manifesta come un Illuminazione, come un riflesso che si compone in lontananza, dapprima misterioso e di difficile decifrabilità, poi così chiaro da somatizzarsi come parte di ciascuno di noi.



Qualcuno, in riferimento alla pittura di Surbone, ha parlato di "geometria organica", centrando con questa definizione lo spirito di almeno una parte della sua vasta produzione. Infatti, per spiegare questo concetto, bisogna considerare che gli elementi naturali sono ridotti alla loro essenzialità di entità geometriche. In fondo - sembra suggerirci Surbone - tutto ciò che esiste in natura si compie agendo sulle infinite variazioni del rapporto tra punto e linea. In questo modo, lo spazio può essere ricondotto a una rappresentazione totalmente rarefatta da sfiorare l'astrazione. Ma Surbone, a questa situazione, aggiunge una componente quasi mistica, e lo fa nel momento in cui riproduce il paesaggio nel quale si è formata la sua sensibilità. Ellissi, triangoli, strutture sinusoidali lacerate, sono la sua interpretazione dell'elemento naturale che configura gli orizzonti della propria esperienza estetica. 




A questo proposito, proprio i grandi pannelli sagomati che l'artista di Treville ha realizzato tra il 1988 e il 2009 dimostrano come sia possibile costruire un percorso teso a indagare il comporsi della vita, il manifestarsi degli elementi nel susseguirsi delle stagioni. Questi lavori si sviluppano crescendo con grande afflato poetico, si compongono di sottili sfumature di colore che rimandano, per esempio, alle foschie del mattino o alle luci di un sole molto basso sull'orizzonte.
A volte le superfici di Surbone danno l’idea di un movimento frenato, di un’esplosione repentina, del un balzo in avanti di un elemento che è costretto a contenersi e torna a raggrupparsi qualche centimetro più in là. Non c’è rumore in questa condizione, tutto è silenzioso, o meglio, è obbligato al silenzio. Non ci può essere altro in questa situazione perché tale situazione è già al limite, al confine di una piacevole morbidezza accentuata da una scelta cromatica pacata, fatta di verdi, di terre, di azzurri.

mercoledì 10 settembre 2014

pita: la poesia si fa arte

Ciò che salta più immediatamente agli occhi, a proposito dell’opera di Pita, pseudonimo di Patrizia Deambrogio, artista scomparsa nel 2004, è la difficoltà di collocarla all’interno di un “movimento” o di un gruppo particolare. Forse, come afferma Massimo Olivetti in uno degli articoli che compongono il catalogo realizzato in occasione della mostra, per comprendere il senso del suo lavoro e poterne dare un modello interpretativo, è necessario ricorrere agli stilemi della poesia. Per questo, prima di tutto, Pita era una poetessa, una poetessa che dava ai suoi versi una consistenza materica, li rendeva tangibili ponendoli in una dimensione capace di mistificare lo strato più antico e trasformandoli in altro.



Il risultato del suo lavorare era un rincorrere di forme, una stimolante citazione che rendeva le sue opere particolari, simili a traduzioni e rielaborazioni, a frammenti e illuminazioni che costruivano  l’ossatura di un percorso su più livelli, all’eterno inseguimento di un piacere che prima di tutto apparteneva, a volte quasi esclusivamente, alla poetessa/artista stessa.



Pita era dunque un’artista ecclettica, si divertiva a sperimentare, lavorava con più tecniche, spesso integrando i materiali, indagando il risultato ottenuto e partendo da lì per ottenere qualcosa di nuovo. Trait d’union di questa sua attività così intensa e continua era il fatto che tutta la sua produzione ponesse al centro della propria ricerca il segno, un segno che a volte si univa a comporre delle illustrazioni, delle immagini che, come le ironiche sirene,  devono essere considerate “figure” a tutti gli effetti. Altre volte il segno propendeva al calligrafismo, virando sull’astrazione, lasciando enorme importanza anche al colore che sembra diventare l’assoluto protagonista delle composizioni di Pita.



A questo punto, quando l’elemento astratto sembrava prendere il sopravvento, ecco un ritorno alla realtà tangibile, la citazione di un elemento che riportava la sua opera su un piano decisamente lirico, seppur penetrando in un contesto indiscutibilmente metafisico. È di fatto un’apparizione, ciò cui assistiamo, ma è proprio attraverso questo espediente che apre ai nostri occhi un altro universo fluttuante e tranquillo.

sabato 6 settembre 2014

i silenziosi orizzonti di romano demichelis

Ognuno di noi porta dentro di sé un paesaggio: quello di Romano Demichelis era fatto di linee orizzontali, di luci e ombre che talvolta esplodevano in gomitoli di segni colorati. In effetti, dalla sua pittura, così essenziale, emerge in modo evidente il preciso rapporto con il luogo nel quale si era formato, un luogo fatto di poche cose, soprattutto di ripetizioni, di rituali che scandivano i ritmi e i tempi di una comunità.



Demichelis ragionava su quello che vedeva e lo esplicitava lavorando su varie dimensioni. In alcuni casi la sua intuizione si concretizzava sulla realizzazione immediata di frammenti di carta, di fatto assemblaggi di campiture dense di colore, paragonabili a dei versi che si compongono automaticamente e che poi diventano parti di una poesia; altre volte si trattava di elaborazioni più complesse ma decisamente più diafane, quasi dei suoni dei quali egli cercava di individuare il senso più profondo.



Di fronte a questi “esercizi di stile” si ha l’impressione di avere a che fare con il punto di partenza da cui scaturiva l’arte di Demichelis, la base di una ricerca felice e incosciente, durante la quale venivano abbandonati i mille spinosi problemi della propria esistenza, del proprio vivere sociale, per poi ricostruire l’identità globale che l’individuo, smarrito nella sua dimensione quotidiana, ha ineluttabilmente perduto. Quindi potrebbe apparire come una contraddizione la presenza di una figurazione riconoscibile – spesso proposta “in negativo” e certamente collocata in un ambiente inospitale – in alcuni suoi lavori. Ma a ben vedere, la figura svolge il ruolo di deuteragonista, limitando il potere assoluto della materia che compone lo spazio, dando così vita a una sorta di graffito rupestre che cerca di scandagliare le origini di una comunità, di portare a riflettere su quelli che sono i termini e i limiti di un percorso culturale che ha comunque al centro una riflessione sulla natura.



La pittura di Demichelis si accatasta sulle tele in una specie di horror vacui da cui fuoriescono alcune ipotesi di paesaggio. Il colore, dopo aver assorbito la totalità dello spazio, lascia che il composto chimico che lo determina e lo rende tale si “raggrinzisca” offrendo un’idea corporea, un nucleo, un bozzo che lascia trasparire un rapporto tra il primo piano e lo sfondo. Esso è volutamente sottolineato da visibili tratti orizzontali che garantiscono la rappresentazione della tridimensionalità. L’idea di non fermarsi al tratteggio del piano semplice lo allontana dall’astrazione pura, egli rimane legato alla tradizione pittorica, non vuole mettere in discussione la storia, ma vuole calarsi dentro di essa. Demichelis dimostra una volontà costruttiva, lo fa impostando la sua pittura su nervature segniche che poco concedono all’evocazione di matrice astratta. La sua opera è lucida e razionale, essa non assume una precisa connotazione geometrica ma sembra aspirarvi inconsciamente, imprimendo alla pittura direzionalità intrinseche, secondo una calibratura non casuale.

Nonostante il palese disconoscimento della sua produzione del periodo più lontano, coinciso talvolta con la distruzione di numerosi lavori, riusciamo comunque a scorgere l’evoluzione del suo pensiero. I momenti creativi di Demichelis  si esprimono con un arricchimento graduale, con la resa di sfumature cromatiche che riempiono lo spazio di energia misteriosa. Le pennellate, infine, tendono a diventare sempre più sottili, un brulicare di energie che mirano a stabilizzarsi formando grafie archetipiche che emergono come reperti e testimonianze di un passato sempre più remoto.

martedì 2 settembre 2014

camillo francia e riccardo alessandro: forme a confronto

C’è un filo sottile che unisce i lavori di Camillo Francia e di Riccardo Alessandro. I due artisti hanno un evidente approccio differente nel momento in cui esprimono il loro modo di fare arte, adoperano materiali differenti, ma i loro lavori evidenziano un’identica forza poetica che dà ai loro percorsi un particolare e suggestivo carattere.



Camillo Francia, arricchisce di nuove suggestioni i suoi paesaggi, essi sono più materici, con gli spazi che si trasformano in tappeti colorati chiusi all’interno di ben marcati orizzonti. Negli anni egli ha via via rimodellato il suo modo di dipingere, rendendolo sempre più essenziale. La grandezza di Francia sta nel fatto che egli ottiene delle forme sfruttando solamente delle incisioni praticate nel colore puro. Egli non ha la necessità di combinare altre tinte, gli è sufficiente agire sulla superficie liscia del quadro in modo da incidere la materia pittorica, ottenendo un solco che si riempie di ombra, creando una linea immaginaria più scura, percepita a livello di occhio, ma assolutamente priva di consistenza fisica.



Negli ultimi lavori si evidenzia appunto una maggior geometrizzazione dello spazio. Egli, infatti, forte delle precedenti esperienze, agisce sul colore con delle incisioni che rialzano la pellicola pittorica determinando zone chiaroscurate ben differenziate. Con l’aggiunta di altri colori le campiture risultano nette e divise, contenute esplosioni di paesaggio percepite come se le si osservasse dall’alto, concentrando la vista in un punto preciso dell’orizzonte.



Riccardo Alessandro costruisce delle piccole strutture tridimensionali nelle quali è forte la presenza di materiali ai quali vengono dati precisi valori simbolici. Di fatto nelle sue “architetture scolpite” emergono dei particolari che inducono a domandarsi qualcosa. Sono frammenti di metallo, fogli di carta, legni di colore differente che spiccano in modo particolare. È su quelli che deve fermarsi la nostra riflessione. È in quei materiali che spiccano per la loro diversità che si può trovare la chiave di lettura delle sue opere.



Inoltre, i vuoti e i pieni che rendono le sue sculture cariche di suggestioni tattili, diventano dei testi che possono essere decifrati, che possono trasformarsi in divertissements attraverso i quali si può stabilire un piacevole contatto con l’estetica di Alessandro.