lunedì 30 dicembre 2013

vettor pisani e l'eterno divenire dell'opera

La biografia di Vettor Pisani è stata intrigante, soprattutto per il fatto che egli, in quanto conoscitore delle scienze esoteriche, ha saputo convogliarle nella sua opera, affascinando la mente del fruitore di fronte all’impenetrabilità di certi segreti che possono essere svelati soltanto adoperando la giusta chiave di interpretazione.

Ma non sono solo l’esoterismo, i riti alchemici e le simbologie dei Rosacroce e della Massoneria a colpire l’immaginazione di chi osserva. La sua opera è qualcosa di più, è una sorta di continua drammatizzazione della realtà, di un perpetuo ricorso a certi misteri che affondano le loro radici nella storia delle genti e nei miti che loro appartengono. Non è un caso che Pisani definisse la propria arte come un teatro filosofico/conoscitivo della storia dell’Europa moderna. Il mito cui ricorreva più frequentemente era quello di Edipo. Particolarmente affascinato dalla figura della Sfinge, egli la ritieneva una metafora del labirinto col quale si ha un rapporto regressivo, impostato sul tentativo di ritornare in esso per trovare l’identica protezione che si aveva all’interno del ventre materno.

Per questo motivo spiccano nell'eterno divenire dei suoi lavori le oscene figure femminili che ostentano la propria natura: non si tratta di qualcosa di urtante, Pisani intendeva far vedere una “porta” che permette l’ingresso all’utero, richiamando una precisa simbologia esoterica che fa riferimento a una delle tante prove che l’iniziato deve superare.

Per Vettor Pisani, uomo di enorme cultura storico artistica, letteraria e teologica, l’arte diventava il mezzo per creare delle scenografie sullo sfondo delle quali vengono mostrati gli archetipi dell’immaginario collettivo. È in questo senso che devono essere lette le sue installazioni a carattere religioso. L’artista campano non intendeva provocare dissacrando: dietro il suo lavoro si nascondeva la precisa volontà di ripercorrere il cammino dell’arte, inserendo motivi che di volta in volta assumono connotazioni diverse. Vettor Pisani insisteva sull’instabilità delle cose, sulla diversa percezione di esse. “La Spada di Hermes”, opera di grande fascino romantico, può assumere qualsiasi connotazione simbolica quando è associata a un qualunque altro oggetto. Per questo artista non esisteva il “finito”, il suo lavoro era continuo, non esisteva il concetto di “opera conclusa” relativamente alla sua produzione, perché ogni elemento era parte di un universo che si modificava in continuazione. Pertanto, per questo maestro che ha partecipato a sei Biennali, che ha avuto riconoscimenti in tutto il mondo, era normale intervenire pesantemente in fase di allestimento, manipolando la materia e ottenendo altro.

martedì 24 dicembre 2013

breve introduzione al paesaggio dell'ottocento

La pittura di paesaggio  dell’Ottocento affonda le sue radici in un ambito culturale risalente a almeno un paio di secoli prima. Credo infatti che essa possa essere messa in relazione alle esperienze maturate in ambito romano da Poussin e Lorrain, autentici capofila di una tendenza che formulerà degli stilemi che saranno ripresi successivamente, sia dal Vedutismo settecentesco, sia dalla pittura romantica.


Lasciando da parte l’esperienza illuminista, esperienza che si sviluppa su direttrici documentaristiche legate a precise esigenze civili o militari, sarà proprio il Romanticismo a dare un’impostazione più definita al paesaggio del XIX secolo. La prima fase della produzione in tal senso si incentra sulla descrizione di Roma, delle sue rovine, insistendo su quel carattere “pittoresco” di determinati luoghi. Riveste una notevole importanza Massimo D’Azeglio che, oltre alla propria valenza di artista, avrà il merito di emancipare la produzione pittorica di aristocratici come lui da quel carattere dilettantesco che risultava imprescindibile. Inoltre, lo stesso D’Azeglio sarà esemplare per la realizzazione dei cosiddetti “paesaggi istoriati”, autentici sfondi per la rappresentazione di episodi di ispirazione storico/letteraria.
Quella del paesaggio romantico è un’esperienza assai interessante, che darà origine a quella koiné che avrà come elementi costanti alberi contorti e scheletrici, vette aspre, roccioni strapiombanti, nubi, elementi che dovranno anche essere letti come metafora dello stato d’animo dell’artista.



Il cambiamento di situazione storico/culturale lascerà spazio a una visione più autentica del paesaggio, non più idealizzata: inizierà la stagione verista, durante la quale si assisterà a una quotidianizzazione delle situazioni dipinte. Il paesaggio diventerà totale e riconoscibile, a garanzia di una richiesta determinata da un sempre più diffuso collezionismo borghese. Il soggetto umano sarà relegato ai margini e l’ambiente montano, studiato dal vero e dotato di una propria plausibilità, diventerà, con titoli che enunciano con chiarezza l’identità geografica dei luoghi, argomento di numerosi dipinti.
L’ultima fase della produzione paesaggistica ottocentesca inizierà con il 1870, quando a un tipo di pittura analitico/calligrafica, si insisterà, quasi allo stesso modo di chi fa poesia, per  offrire all’osservatore la condivisione di una sensazione (fondamentale in tal senso sarà l’influenza della neonata pittura impressionista). Ma ciò che ci viene proposto dalle opere di Reycend o Delleani risulta eccezionale nell’esito, il naturalismo pittorico portava già in sé i germi della decadenza di questo genere. Infatti, come ai tempi del Romanticismo il paesaggio diventa proiezione del mondo interiore e finisce per assumere una valenza prettamente simbolica e, addirittura, con il Decadentismo il paesaggio diviene ideista. Nel 1895 viene aperta la prima Biennale di Venezia e, attraverso il confronto con gli esiti proposti da altri autori europei il paesaggio si evolve in qualcosa di differente e pertanto non può più essere definito un genere a sé stante.

lunedì 16 dicembre 2013

tesori d'arte a valenza

C’è un bellissimo libro di Simon Shama che spiega come la ricchezza, cessata di essere fine a se stessa, si trasmuti in arte. Lo studioso inglese ha formulato questa ipotesi in realazione alla situazione che si era creata nell’Olanda del XVII secolo, ma il riferimento potrebbe estendersi a tutti quei microcosmi nei quali singoli comportamenti si amalgamano nella mentalità collettiva.


A Valenza è successo qualcosa del genere: dopo aver costruito delle ricchezze attraverso l’utilizzo artistico/artigianale dei materiali preziosi, qualcuno ha cominciato a acquistare opere d’arte.  È  difficile stabilire quale autentica esigenza si nascondesse dietro il moltiplicarsi delle collezioni, ma, in ogni caso, ecco che si afferma una volontà di investire in un piacere edonistico, un piacere che fa cresce anche la volontà di conoscenza, fa intervenire esperti e galleristi che garantiscono alla città una costante presenza di opere realizzate dai massimi artisti di varie epoche.


Ovviamente quelle opere sono di fatto invisibili ai più, si sa che esistono, talvolta sono prestate per essere esposte, come è avvenuto nelle sale di villa Scalcabarozzi. In questo caso si ha un’idea tangibile della qualità e quantità di queste collezioni. Esse si sono indirizzate alla raccolta di opere di grande pregio accanto alle quali non mancano veri e propri capolavori; insomma,  è stato messo insieme un piccolo percorso che garantisce una quasi completa visibilità degli sviluppi artistici italiani (e in parte internazionali) dalla fine dell’Ottocento alla più recente attualità.  È una mostra che suscita curiosità e appassiona, che costringe a spostarsi nelle varie epoche facendo comprendere come possa cambiare il gusto della società e il modo di approcciarsi alla realtà degli artisti. È chiaramente difficile enucleare come migliore di altri un nome o un periodo, credo si tratti di questioni fortemente personali, perché ogni autore o periodo presentati meriterebbero la medesima attenzione. In un banale tentativo di identificare qualche opera in particolare, si può dire che vi sia una sala dedicata all’Ottocento da antologia (con lavori di De Nittis, Boldini e Morbelli), che il Novecento sia rappresentato da opere di grande valore estetico (di Fontana, Corpora, Mathieu, tra gli altri) e che i lavori di Spoerri e Kounellis siano decisamente significativi per rappresentare le ultime tendenze dell’arte.

martedì 10 dicembre 2013

roger selden tra pop e razionalismo geometrico

L’attività artistica di Roger Selden si è sviluppata su due linee di riflessione ben precise. Da una parte, l’artista newyorkese ha elaborato un discorso estetico che affonda le sue radici nella cultura Pop. Questo legame può essere rilevato in particolare prendendo in considerazione l’aspetto cromatico dei suoi lavori, aspetto che sembra attingere alle idee in proposito di quel movimento. Dall’altra parte, egli insiste su modelli più razionali, su un concettualismo basato sull’elaborazione d’impianti geometrici che tendono a ripetere dei moduli capaci di scandire lo spazio con regolarità.


L’unione di queste due derivazioni culturali ha creato uno stilema artistico ben riconoscibile, che, se ben osservato è in grado di offrire notevoli spunti di riflessione. I lavori più recenti sembrano però  insistere maggiormente sulla valenza pittorica dell’opera: il colore si fa evocativo, all’interno di un’azione che tende a sovrapporre stratificazioni di realtà geometrizzate che offrono una sensazione di resa tridimensionale. Lo spazio di Selden diventa per questo una susseguirsi di frammenti regolari che si sviluppano in tutte le direzioni. In particolare sono le strutture verticali a offrire una precisa indicazione in tal senso. Esse appaiono concluse perché chiuse all’interno di un limite, ma la loro conclusione è solo un’illusione, un confine imposto dalla nostra idea di finito. I suoi moduli sono soltanto una presentazione di ciò che esiste, sono l’equivalente di ciò che potremmo vedere osservando un vetrino al microscopio, o un tratto di universo al telescopio.



Non è un caso che la visione di Selden sia almeno in parte “naturalistica”, proprio perché essa risulta tanto inoggettiva, quanto possibilmente legata a una rappresentazione “astratta” del vero. Nella sua arte si concentrano allora elementi di incredibile modernità uniti a una più tradizionale forza espressiva e drammatica. A testimoniare questa affermazione vi è la lampada a otto bracci che l’artista americano ha realizzato per il Museo dei Lumi casalese. Come ha scritto Elio Carmi, essa è l’unione di più linguaggi: patriottismo e iconicità americani, il medioevo ebraico in Italia e la cultura dei cenciaioli. L’opera è di fatto un racconto che, facendo riferimento anche alla storia personale dell’artista evidenzia lo spirito di accoglienza dell’Italia, il paese che ora lo ospita.

lunedì 2 dicembre 2013

le silenziose parole di marco porta

È un’arte silenziosa quella di Marco Porta e, nello stesso tempo, un’arte che ti costringe a ascoltare. Essa parte da un presupposto ossimorico, da una contraddizione che in poco tempo si scioglie, lasciando spazio a una serie di intuizioni che finiscono per far comprendere la preziosa estetica di questi lavorI.

La ricerca di Porta ha come epicentro l’uomo. Fin dalle sue prime prove era il corpo umano che veniva replicato in una sorta di mimesis naturalistica. Il corpo diventava parte di un sole, si proponeva in frammenti che, interagendo tra loro, costruivano delle entità pensanti, trasformavano in epica ciò che era un semplice racconto. Non è casuale, infatti, che almeno una parte della produzione di Porta possa essere idealmente unita all’arte dell’antica Grecia, ma, nello stesso tempo, porti con sé una componente che colloca lo scultore nel novero dei più attenti e originali artisti contemporanei.
Anche le strutture più asettiche (il pentacolo di “in una parola, sono già tre parole”, le figure geometriche di “togliere il nome alle cose”) se ben osservate rimandano anch’esse all’uomo. Il Pentacolo, proposto come un incrociarsi di rami coperti di spine, simboleggia la figura dell’uomo con le braccia e le gambe allargate, il microcosmo umano. In ogni figura geometrica può esserci un richiamo all’uomo, come nell’ottagono (il giorno della creazione dell’uomo) o il triangolo (l’uomo come corpo, anima e spirito).


Assolutamente particolari, invece sono le dieci piccole composizioni bronzee inedite. Esse si presentano come delle braccia che emergono dalla superficie del muro, che si staccano invitando l’osservatore a soffermarsi prima sull’oggetto poi su ciò che reggono, una sorta di moneta con un’iscrizione. Ne risulta una singola parola, poi su una frase, semplice, incisiva, densa di significati. Le parole di Porta compaiono magicamente. Non sono immediatamente visibili, bisogna soffermarsi e porre un minimo di attenzione. A quel punto essa emerge dal fondo compatto dalla faccia della piccola circonferenza, un graffio nel metallo. Poi ne compare un’altra, ed ecco che si compone quella frase che concretizza un pensiero dell’artista, che ci permette di condividere un attimo di meditazione, di accostare una sensazione per qualche tempo comune e che poi continua a fluttuare in un proprio universo.