lunedì 22 dicembre 2014

antonio de luca verso l'astrazione

Antonio De Luca è uno dei più interessanti artisti attualmente attivi della provincia. La sua arte nasce attraverso un preciso e continuo lavoro di ricerca che gli ha consentito – facendo riferimento alla sua più recente produzione – di ottenere una sempre maggiore rarefazione pittorica. La sua arte nasce da un segno che si espande sul foglio, inondandolo con un lentissimo e continuo movimento organico. Il segno, fatto di pura materia pittorica, è tracciato sul supporto e si giustappone per ottenere delle figure, spesso diafane, invisibili e ectoplasmatiche.



Difficilmente si può contemplare la figura intera nella produzione di De Luca, questo ha dato adito a congetture psicanalitiche che però sono confutate dall’autore stesso, il quale sostiene la positività del suo lavoro che tende a incentrarsi sul valore ludico dei suoi apparati. In effetti, essi spesso insistono su elementi che ci riportano alla danza, al gioco infantile, a atmosfere che hanno un vago sapore idilliaco e che chiudono i suoi personaggi all’interno di Horti conclusi che lasciano fuori ogni bruttura della realtà.




Il valore concreto dell’opera di De Luca è ulteriormente acuito dal fatto che, ormai da qualche anno, egli vi ha introdotto frammenti di ceramica e di altri materiali tridimensionali. In questo si sostanzia una ricerca di profondità dell’immagine attraverso un aggetto del piano bidimensionale del quadro. La sovrammissione di questi elementi plastici (spesso opere concluse e a sé stanti) spinge De Luca a ridefinire le sue intuizioni inserendo delle sbavature più controllate, capaci di creare piacevoli sensazioni naturalistiche. Egli così ottiene una ancora più marcata rarefazione del colore che assume una valenza quasi di trasparenza. L’oggetto sembra allora emergere come componente assoluta soprattutto se viene relazionato alla linea che lo costruisce e che continua a mantenere quel vigore primordiale che è stilema del suo fare arte. Quest’ultima fase, quasi intuendo l’assunto di Heidegger per il quale nel fare spazio parla e si cela allo stesso tempo un accadere, gli permette di gestire lo spazio, intuendo le sue potenzialità e progettando quello spazio/luogo che è condizione fondamentale del proprio essere e, nello stesso tempo, condizione reale dell’universo.


mercoledì 10 dicembre 2014

maurizio galimberti futurista

Il marchio di Maurizio Glimberti è immediatamente riconoscibile. La sua opera si presenta come un mosaico di polaroid che costruiscono e definiscono un’immagine. Che ci si trovi di fronte a ritratti di personaggi  più o meno famosi o rappresentazioni di luoghi che costituiscono il quotidiano delle nostre città, la sensazione visiva di fronte alla sua fotografia è quella di un’immagine avvolgente che sembra muoversi in continuazione. Galimberti è l’autore della frammentazione dinamica e della ricostruzione del soggetto. Egli non si limita a offrire una visione da un unico e preciso punto di vista, ma la mimetizza, demandandone la riconoscibilità a quelle capacità logiche che appartengono al nostro cervello.



Galimberti si definisce futurista, dadaista, artista pop, anche se ci tiene a sottolineare la forte e personale componente europea di quest’ultima appartenenza. Assai comprensibile, l’aspetto futurista diventa evidente proprio nel momento in cui si associa il suo lavoro al concetto di “dinamismo”: il soggetto raffigurato si muove nello spazio e l’elemento cronologico si annulla eternato nel movimento. La fotografia che si compone è sì frutto di parti, parti che Galimberti ha bloccato con lo scatto, ma unite, esse diventano una sequenza circolare, un ripetersi infinito di una stessa situazione.




La fotografia, in generale, non può essere pensata come forma d’arte organica, ma l’estetica di Galimberti rischia di mettere in serio dubbio questa affermazione. La fotografia, infatti, si limita a rappresentare qualcosa di organico (con l’accezione artistica del temine); Galimberti, al contrario, riesce a trasformare un’immagine carica di razionalità in una forma in divenire che non può essere ricondotta ai quei limiti geo/temporali cui noi siamo soliti ricondurre il concetto di scatto. Galimberti dimostra di possedere le molte qualità che appartengono all’artista e al fotografo, disponendosi a farle emergere ogni volta che ciò risulta necessario, lavorando sul microcosmo che sta dietro l’intimità del singolo per costruire il macrocosmo che identifica il rapporto, in grado di plasmare il mondo, tra le singole esistenze.


venerdì 28 novembre 2014

l'arte nello spazio di teodosio magnoni

È difficile definire l’opera di Teodosio Magnoni in quanto, più che per altri artisti contemporanei, essa sembra collocarsi  esattamente a metà strada tra la pittura e la scultura. Infatti, a un primo approccio, della prima possiede l’aspetto disegnativo e la riflessione sullo spazio inteso come esperienza prospettica; della seconda, l’aggetto che trasforma ciò che è solo bidimensionale in materia collocata nello spazio. Ciò che egli ottiene è un prodotto estremamente raffinato, sintesi di un’esperienza che risale agli anni Sessanta, quando, dopo la fase informale, comincia a elaborare degli studi che fanno intuire gli esiti geometrici del suo lavoro successivo.



Magnoni, di fronte a questa fase della sua produzione, ci parla di opere minimali in quanto egli decide di abbandonare ogni pretesa d’espressività e di illusione componendo semplici forme geometriche che stabiliscono un preciso rapporto costruttivo con lo spazio che le circonda. Sarà proprio l’evoluzione di questa ricerca a far affiorare gli esiti del lavoro più recente. In quest’ultimo periodo, l’area materica che Magnoni delimita all’interno delle sue opere, appare come netta, chiusa da una precisa linea di contorno. Si compongono così figure a più lati, che stabiliscono un rapporto dialettico con lo spazio che le contiene. Esse appaiono come proiezioni ortogonali in lentissimo movimento, pronte a far scaturire delle forme che trasformano frammenti di realtà. L’illusione che si crea ci induce a percepire delle tridimensionalità che finiscono per  palesarsi solo nelle sculture tout-court. È a questo punto che ci si rende conto dell’estrema coerenza del lavoro di Magnoni, una coerenza che non crea alcun distacco tra ciò che fruiamo come quadro e ciò che vediamo come scultura. Essi sono parti integranti di uno stesso discorso estetico, si affermano come entità singole ma si comprendono soltanto se si ha la capacità di pensarli un continuo inseguirsi di idee e realizzazioni di esse. In questo caso Magnoni porta a compimento un progetto che raccoglie ogni frammento di un processo creativo che esplode in un’architettura scolpita, in una struttura che, perfettamente a suo agio nello spazio in cui è calata, si compone di linee, di piani, di vuoti, di zone dominate da netti chiaro/scuri, capaci di creare un’armonia appagante e totale.


domenica 16 novembre 2014

due installazioni di corrado bonomi

Lo spazio del nuovo allestimento di Corrado Bonomi si trova all’interno di uno dei più bei palazzi tardobarocchi casalesi. Bonomi, come è sua consuetudine, ci propone oggetti familiari e ci induce a osservarli attraverso una prospettiva strana, inconsueta, a volte addirittura irriconoscibile. L’oggetto viene distanziato e guardato da lontano. Al contrario della prima fase di osservazione delle opere, fase durante la quale siamo portati all’immedesimazione, in questo momento percepiamo l’essenza spirituale di un’arte improntata sulla tautologia, cioè un’enunciazione in termini diversi di quanto dovrebbe essere oggetto di spiegazione, con improvvise accelerazioni di significato che danno un valore supplementare al segno che così ironicamente ci viene proposto.



L’arte di Bonomi è ironica, carica di sillogismi e metafore, e anche in questo caso si è servito di questi espedienti per costruire un percorso che spicca per l’aspetto visionario, per la forza con cui si impone al visitatore/fruitore dello spazio. Di fatto non esiste nessun punto che gli è stato messo a disposizione in cui l’artista non sia intervenuto, talvolta mimetizzando il suo lavoro e costringendo l’osservatore a un’analisi che riflette la creatività della sua produzione. È il caso dei “romantici” vasi di fiori che si trovano al centro di ogni tavolo, vasi ottenuti con oggetti tipici della floricultura (sottovasi, tubi per innaffiare, palette da giardinaggio). Essi evocano il fiore, lo imitano, strappando un divertito sorriso di fronte all’inganno che celano.



Altrettanto efficace è l’allestimento che Bonomi costruisce sui muri perimetrali della prima stanza. Egli costringe chi entra a “immergersi” in un mare virtuale, a circondarsi di pesci che però vengono presentati come simulacri inscatolati, come noi li vediamo più spesso, ossia come roba da mangiare. Le scatole di latta di marche assai note ripetono un modulo che riesce a imporsi alla vista per colore e forma senza infastidire.

Nella stessa maniera ci appare la più poetica delle soluzioni artistiche di Bonomi. “Castelli in aria” si colloca a qualche metro  da terra: sottili fili invisibili reggono delle leggerissime nuvole di materiale isolante sule quali hanno le loro fondamenta dei castelli di carta. Moltiplicati da un gioco di specchi, illuminati dal ripetersi delle luci del locale, l’installazione offre un piacevole senso di pace, immergendoci in un’atmosfera meravigliosamente fiabesca.


martedì 11 novembre 2014

saldì fermato a torino

Ospitiamo sul blog un resoconto di una strana vicenda capitata al performer casalese Giovanni Saldì.

 L'artista e performer casalese Giovanni Saldì è stato fermato domenica scorsa con la sua opera itinerante alla fiera d’arte Artissima a Torino. Dice lo scultore: “pensavano fosse un opera prelevata all’interno della fiera e sprovvista di voucher d’acquisto per l’uscita” . 
Giovanni Saldì da tre anni sta portando in giro per il mondo la sua performance, ormai molto visibile e conosciuta, dal titolo “Fammi girare la testa”. Ciò allude al fatto sia che la testa “gira” fisicamente e si muove come scultura itinerante, sia al fatto che l’arte dovrebbe fare girare la testa emozionando. Artista/attore come ama definirsi, sperimenta l’interazione arte-performer-pubblico. Egli non si limita a creare un manufatto ma vuole animarlo inserendolo nella realtà quotidiana, creando un tramite attoriale fra l’animato (pubblico inconsapevole) e l’inanimato (scultura). Si tratta in fondo di una sorta di rappresentazione teatrale durante la quale l’artista dialoga fisicamente con la teste scolpita con asfalti, lasciando letteralmente interdetti gli osservatori che scrutano curiosi cercando di intuire se si tratti appunto di teatro, di performance, o altro.
Dopo un paio di ore di attività all’interno dello spazio espositivo torinese, totalmente documentate da video, la Sicurezza ferma Saldì mentre con la sua scultura ben visibile tra le braccia si accingeva a andarsene. Gli viene intimato: Dove sta portando quest’opera, ha il voucher?  Lui: "Si tratta di una performance la testa è di mia proprietà e l’ artista sono io". Il performer Giovanni Saldì viene così scortato dalla Sicurezza in un locale apposito, per accertamenti sulla medesima opere d'arte. Vengono contattati telefonicamente galleristi e colleghi che seguono da tempo la ricerca di Saldì quali testimoni dell’ originalità dell’opera. Carlo Pesce, curatore di alcune mostre di Saldì spiega che si tratta si un’idea originale e tutto è partito da un prototipo creato scolpendo un pezzo di manto stradale smesso.La statua, una specie di simulacro di musa ispiratrice, suggerisce le idee all’artista e ne diviene compagna di viaggio con l’altrettanto inseparabile videocamera. La testa d’asfalto è considerata una creatura che vive la quotidianità e si arricchisce di esperienze. E’ stata oggetto di tesi all’Accademia Albertina, è andata come visitatrice in Biennale a Venezia, e ha doppia cittadinanza Italo-spagnola essendo nata in Spagna.  L’opera è già stata sottoposta a controlli all’aeroporto internazionale Reina Sofia, per disposizioni di sicurezza relativa ad esplosivi e traffico di opere d’arte. La statua è attualmente sotto sequestro preventivo a Torino e Saldì è stato fotografato insieme alla sua opera per accertamenti. Le indagini in corso vorrebbero accertare se si tratta di un progetto artistico o se dietro possa pure celarsi una manovra di Marketing ben più ampia.

la pittura di felice casorati

Felice Casorati è probabilmente il pittore che ha maggiormente segnato la cultura figurativa piemontese della prima metà del Novecento. Fu un punto di rifermento del dibattito artistico e il suo studio fu frequentato da numerosi artisti e mecenati. In un’intervista egli affermò che avrebbe voluto essere un musicista e che la sua famiglia aveva una consolidata propensione per la scienza. In modo più o meno evidente, entrambi gli argomenti finiscono per convogliare nella sua pittura determinando quel carattere unico, regolare, geometrico, armonico che contraddistingue tutta la sua produzione.



Fin dagli esordi dimostra di essere lontano dalla pittura francese che agli inizi del Novecento influenzava maggiormente la produzione figurativa europea con la su maniera tardo/impressionista. Se si deve cercare un riferimento culturale per la sua pittura, bisogna pensare allo Jugendstil e alla Secessione Viennese. Ma la novità di rilievo sta nel fatto che Casorati afferma una monumentalità propria che affonda le sue radici nella tradizione rinascimentale, o come scrisse Piero Gobetti, che dimostrava due opposte componenti nel suo fare: la scelta di un particolare contenuto ideale e il rigore di pensiero che sigilla nella forma una passione “antidecadente”. Le avanguardie non interessarono la sua pittura, egli fu più attento a quella che è stata definita “la tensione dell’attesa” tipica della poetica metafisica e che darà una marginale caratterizzazione al suo lavoro. La concretizzazione delle sue intuizioni spaziali e volumetriche sono evidenti nelle opere che realizza a partire dagli anni Venti. La prima impressione è infatti quella i avere di fronte delle forme statiche, semplici, severe, sempre molto controllate, scanditi da spazi cubici.



La tavolozza poi, contribuisce a acuire questa sensazione. Casorati crea dei complessi campi cromatici dai toni sempre molto freddi, dove tutto appare in un distaccato equilibrio che isola i soggetti (ritratti o nature morte) in un composto silenzio di meditazione.

La fase finale della sua carriera vede il ricorso a una gamma di colori più luminosi, colori che sembrano relegare sempre più ai margini la carica espressiva dei lavori della maturità, trasformando le immagini in simulacri privi di emozione.


martedì 4 novembre 2014

aldo mondino, riflessioni sull'oriente

Abbiamo conosciuto almeno due Aldo Mondino. Il primo, quello più in vista, quello che si presentò per le vie di Brera a Milano in groppa a un cammello; quello che ha il coraggio di esporre un’opera che sarà sequestrata per blasfemia;  quello capace di trasformare una qualunque scritta in un’opera d’arte, insomma, il Mondino ironico, graffiante, con una personalità talmente dirompente da annullare chiunque gli stesse intorno. Il secondo, incredibilmente più intimista, capace di confessare in un’intervista il suo lato più umano, le sue debolezze, il suo rapporto con la religione ebraica, teso a raccontare i suoi viaggi con uno il piglio di chi sa stupirsi, pronto a recepire la bellezza silenziosa dell’interno di un locale frequentato da fumatori di narghilè o a evocare le meditazioni di ebrei ortodossi in qualche stanzetta di Gerusalemme.



L'intenzione delle rassegne più recenti, e in particolare di quella curata da Marco Porta, è probabilmente proprio quello di far meglio individuare il Mondino più intimista, più legato ai valori poetici della riflessione personale. Infatti, le parole del breve scritto preparato dallo stesso Porta per questa rassegna, sembrano indicare questa via di analisi. Non si tratta di opere compiute, poiché ci si trova a osservare l’abbozzo di un’idea, la scintilla dalla quale avrebbe preso forma un lavoro concluso. Pertanto, questa esposizione casalese è un documento di grande importanza, soprattutto per individuare i meccanismi filologici della creazione dell’opera d’arte. Chi conosce Mondino sa benissimo capire che dietro a quei disegni, alcuni di disarmante semplicità, si nasconde parte di un universo in divenire che riceverà attraverso il disegno la sua forma più o meno definitiva.


Le opere proposte sono quelle che interpretano l’Oriente. Il tema dominante di questi lavori, è comunque operato da un artista occidentale. Tutto avviene in seguito a un viaggio in più tempi iniziato in Marocco e concluso in Palestina. In questa fase Mondino comprende il legame tra la spiritualità e la possibilità di dipingere in modo concettuale. È questo il momento in cui si concretizza, per esempio, la preghiera esaltata della danza dei dervisci o in cui nelle sue opere appaiono come sfondo le sovrapposizioni dei tappeti, o più semplicemente, in cui il fluire del pensiero diventa opera d’arte.

lunedì 27 ottobre 2014

il segno di luigi boille

La particolarità dell’ultima produzione di Luigi Boille è determinata dal fatto che il segno che emerge dal fondo dei suoi supporti sembra alimentare la percezione di una vita prettamente pittorica tutta interna all’opera, un dinamismo organico che fa di tutto per emergere e affermarsi come “centro di una rappresentazione”.



Fatta questa premessa, si prende atto di una conseguenza che si determina e che insiste su due variabili: da una parte il dinamismo della costruzione, dall’altra l’attenzione al segno come modo concreto di non perdere un contatto con il reale. La consistenza spaziale e la resa segnica di Boille rendono a chi osserva una sua tela o un suo foglio, l’idea per cui non conta – come invece avviene nell’informale – la materia, o meglio, la riduzione della tela alla propria materia pittorica. Interessa invece una determinata percezione, una suggestione della materia che dà al segno una possibilità di essere inteso come immagine.



Se è vera questa presunta corporeità del segno che emerge dalla tela come un’isola nell’oceano, è anche vero il riferimento di labilità, di dinamica, dei limiti di spazio e di tempo a una visione corporea della vicenda che la sequenza dei lavori di Boille, quasi delle variazioni di uno stesso tema, insegnano.




Il colore che ogni tanto appare come compatto sfondo di alcune carte, risulta essere la memoria delle pitture che Boille aveva realizzato durante gli anni Sessanta. Esso rimane come una citazione quasi a attenuare la pressione della superficie (non)dipinta, che però fa intuire la possibilità di combinare il segno con lo spazio in infinite tipologie, attraverso un modo differente rispetto a quello che avviene sulla superficie dipinta. Il pittore romano traduce l’esperienza percettiva nella sua pittura e lo fa attraverso una sorta di lenta appropriazione di “altro”, cioè di elementi che derivano da combinazioni di fenomeni formali, cromatici e ritmici. L’opera di Boille è una rappresentazione che dall’immagine arriva al corpo. Egli articola i suoi lavori in maniera assai fresca e espressiva, secondo una solida vivacità di fondo che pervade anche questa serie di lavori realizzati intorno al 2010. 

mercoledì 15 ottobre 2014

a due a due con mirco marchelli

L’interesse di Mirco Marchelli per la musica trova la sua sublimazione nella realizzazione del progetto artistico denominato A due voci. Si tratta sostanzialmente di una grande installazione che, in un gioco di vicendevoli influenze, mischia all’artefatto di Marchelli una sua elaborazione musicale per saxofono e percussioni ad libitum e per voce femminile e pianoforte improvvisato, che a sua volta ha come riferimento le Variazioni Goldberg – la famosa opera per clavicembalo di Bach che realizza trenta variazioni alla medesima aria – .


Dunque un’opera sonora che però ha un ulteriore elemento aggiuntivo nelle poesie di Paul Klee (la seconda voce cui fa riferimento il progetto), artista poliedrico, dai più conosciuto solo come pittore, ma anche musicista e, appunto, poeta. Questo secondo aspetto ricalca l’elemento più marcatamente pittorico del lavoro di Marchelli, lavoro che spesso sembra lasciarsi influenzare dalla maniera dell’artista tedesco.


In questa fase della sua produzione Marchelli crea un ulteriore step al suo discorso di sperimentazione teso a adoperare come struttura portante del suo lavoro la musica. Seguendo una brillante intuizione che sembra giungere dalla cultura barocca, Marchelli completa le sue “pitture tridimensionali” circondandole con la diafanità del suono. È, ovviamente, qualcosa che non si vede ma che fluttua nell’aria, che si compenetra con il tangibile creando i presupposti per una visione diversa, non tradizionale dell’opera d’arte.


Klee affermò che l'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. Credo che questa considerazione riesca a spiegare lo spirito del lavoro di Marchelli che rimanda a un immaginario estremamente complesso, un immaginario che lascia intuire la poesia delle sue opere, del colore che si contrappone allo spazio. Le “cose” di Marchelli appaiono dunque adoperate, ricche di colori opachi tipici di un mondo vissuto, un mondo in continuo divenire, il cui destino si compie con moto circolare, secondo un rito che ha come protagonisti gli oggetti, un rito fatto di sparizione, recupero e ricompattamento in altre forme.

martedì 7 ottobre 2014

i vescovi di enrico de benedetti

Di fronte all’opera di Enrico De Benedetti si resta sempre piacevolmente spiazzati. Questo avviene soprattutto quando si conosce tutta la sua produzione, la sua evoluzione, i suoi cambiamenti che, solo apparentemente, sembrano distaccarsi completamente rispetto a ciò che era stato fatto in precedenza.  L’ultima fase della sua produzione si incentra su una ricerca di tipo figurativo nella quale l’artista riflette sulla struttura della figura umana. Questo, in estrema sintesi e in maniera molto generica, potrebbe spiegare lo spirito di questo momento del suo lavoro. Ovviamente non è solo così. Infatti, la figura umana che De Benedetti sceglie di analizzare è quella più complessa che ci giunge dalla tradizione cristiana, è la figura del vescovo, del santo che indossa i paramenti episcopali e si staglia su compatti fondi monocromatici.



Si potrebbe parlare di “arte sacra”, ma anche in questo caso si limiterebbe il discorso a un solo aspetto di questa produzione. L’elemento sacro è quello che si può notare a un primo impatto, quello che percepiamo perché ce lo portiamo dietro culturalmente per essere immersi nel Cristianesimo, come aveva affermato Benedetto Croce. Per De Benedetti si tratta di un punto di partenza sul quale inserire gli aspetti di una riflessione estetica più complessa, più ricca. Per esempio, l’elemento grafico/simbolico che di pone in rapporto dialettico con le immagini vescovili sembra ricalcare le punzonature delle aureole medievali, dilatando così una decorazione che era contenuta in ben precisi e delimitati spazi circolari. Oppure, la tridimensionalità degli spazi è rimarcata dall’inserimento di elementi decorativi – lettere dell’alfabeto, lastre metalliche, pietre trasparenti – che sembra rielaborare gli esiti della pittura bizantina.




De Benedetti crea delle strutture complesse nelle quali la decorazione non è mai secondaria rispetto al soggetto e viene utilizzata all’interno di un processo si trasfigurazione simbolica del tema centrale. I più semplici elementi geometrici non determinano mai delle composizioni astratte, mantenendo invece costante il contrasto tra il naturalismo delle immagini dei vescovi e il decorativismo delle ambientazioni.


lunedì 29 settembre 2014

la biblioteca di rebecca forster

La storia, la letteratura, sono piene di biblioteche bruciate: uno strano destino sembra, a volte, accanirsi contro i libri. Che cosa viene distrutto, che cosa si annulla quando la carta va in fumo? Impossibile rispondere, ogni cosa detta ne richiamerebbe almeno altre dieci. Ray Bradbury, in uno dei libri più pessimisti sulla possibile evoluzione – o involuzione – della società umana narra di un potere che tende a annullare ogni memoria bruciando libri. Lo avevano capito i nazisti che, per creare il cosiddetto neu ordung, sapevano che attraverso la distruzione dei libri era possibile cancellare ogni percorso culturale, ogni mappa che in qualche modo potesse ricondurre a similitudini, ad analogie tra genti che in quel momento non dovevano avere nulla in comune. A quelle stragi sopravvisse la biblioteca Anna-Amalia di Weimar, sopravvisse fino al settembre 2004, quando una scintilla innescò un grande incendio.



Rebecca Forster, racconta questo disastro. I suoi disegni svolgono la narrazione in modo sintetico, dando alle immagini una scansione cronologica, simile a quella che gli scultori antichi realizzavano sulle colonne istoriate. In ogni foglio campeggia ben riconoscibile la silhouette del “topo di biblioteca” di Spitzweg: è lui il narratore, la persona che, immersa nei libri, vive e sopravvive nella tragedia della distruzione. Non importa che cosa fosse conservato in quello scrigno tedesco, c’erano delle opere di Goethe, mappe, manoscritti, spartiti: di tutto ciò, ora non rimane quasi più nulla, anche se Forster cita tutti questi oggetti  all’interno di “bubbles” nelle quali si ritrovano magicamente, simili a quei ricordi che, finché esistono, mantengono vive le cose. La carta stampata è allora il simbolo di una memoria collettiva e va perpetrata e creata, proprio come quei fantastici libri d’artista nei quali Rebecca evidenzia il suo grande acume e il suo amore per un materiale come la carta, un materiale che le permette di costruire dei percorsi che si concretizzano nel gioco delle biblioteche pieghevoli




È chiaro che l’arte della Forster conduce inevitabilmente a delle riflessioni. Ci si domanda, che cosa si poteva fare per risparmiare tutto ciò che è stato distrutto, dell’intolleranza, del fondamentalismo. Rebecca Forster sembra darci una via da praticare, una speranza che si manifesta nel futuro, quando i libri inzuppati, bruciacchiati, recuperati grazie ad un passamano tra volontari, potranno essere presi dai freeezer nei quali sono stati collocati e potranno essere rimessi negli scaffali delle biblioteca.


martedì 23 settembre 2014

gli argini di enrico barberi

Il progetto fotografico di Enrico Barberi nasce prima di tutto per definire l’identità di un luogo e della sua gente. Alessandria è una città che negli ultimi anni ha visto, è inutile nasconderlo, una continua decadenza. Molte volte, come alessandrini, ci si è sentiti spaesati, disorientati, smarriti, privati di un simbolo che fosse capace di connettere il territorio urbano alla vita quotidiana di chi ci abita. Se si riflette, alla base di tutto vi è stata una serie di distruzioni e demolizioni che hanno sfilacciato i rapporti tra le generazioni, che hanno impedito i naturali ricambi e la possibilità di perpetrare determinati riti.



Di fronte a una sistematica mancanza di punti di riferimento, anche gli Argini sono diventati lentamente un luogo di aggregazione. A Alessandria non esiste un parco pubblico nel quale i suoi abitanti possono fare dello sport. Gli Argini infatti, non sono un parco, fanno parte del paesaggio che caratterizza l’area chiusa tra il Cimitero e i fiumi Bormida e Tanaro. È un paesaggio fluviale cui i contadini che vivevano in quella zona hanno ricavato ampie porzioni di terreno coltivabile. La pista che abitualmente viene sfruttata per gli allenamenti dei podisti si snoda con geometrica regolarità in quel contesto. Barberi ha dapprima fermato il suo occhio su quello spazio, ha indagato l’area esprimendo qualcosa che ha a che fare con le sue sensazioni, definendo – come in certi fotografie di Minor White – il dialogo tra l’aspetto materiale e simbolico del paesaggio. Nei suoi scatti le stagioni si susseguono con la loro identificabilità più immediata, quella metereologica, lasciando il ruolo di protagonista al normale susseguirsi del tempo. Ma Barberi non si limita a realizzare foto di esterni, egli le riempie, le anima con delle presenze umane. Si tratta appunto di quei podisti che hanno eletto quel luogo come loro palestra, come spazio nel quale trovarsi e aggregarsi. Essi, nel momento in cui entrano nell’obiettivo, sono consapevoli di essere fotografati, ma c’è una informalità in queste immagini che suggerisce che queste rappresentazioni sono state ricavate con azioni fotografiche veloci, quasi come se Barberi volesse fare delle istantanee per documentare un ricordo. È un tipo di fotografia che però riguarda un gruppo sociale che normalmente non vediamo nella nostra vita nelle rappresentazioni visive più inflazionate. Infatti, la descrizione di un rituale del genere dilata il motivo della presentazione di esterni fino a includervi quello sociale. Ciò che si può osservare è comunque destinato a diventare un documento storico, permetterà di vedere ciò che accadeva in un determinato periodo a Alessandria. Farà capire che negli anni della crisi, almeno lo sport dilettantistico, permetteva un’identificazione e una “solidarietà di corpo” che a altri ambiti era preclusa. A proposito di questa attività, possiamo parlare tranquillamente di “cultura”, poiché quello che intende mostrarci Barberi è una delle tante forme di resilienza che una comunità attua per continuare a sopravvivere. Quindi ci troviamo di fronte alla documentazione di un processo attraverso il quale si consolida un modello che diventa identificativo e caratterizzante. Tutto ciò, allora, altro non è che l’adattarsi a una situazione negativa sfruttando la voglia di far emergere la propria individualità pur nella coscienza di fare parte di un gruppo.




Questo concetto emerge anche nella significativa serie di ritratti che Barberi realizza ai podisti che frequentano gli Argini. I soggetti sono posti frontalmente con alle spalle un muro dalla chiara intonacatura: la composizione, che non nasconde un accenno di (auto)ironia, acquista, attraverso un pirandelliano umorismo, solennità. Gli atleti guardano l’obiettivo indossando i loro “abiti da corsa”. Nella maggior parte dei casi si tratta di “vicini di casa”, di persone che non hanno velleità di protagonismo e di risultati. Barberi riesce a cogliere questo importante elemento psicologico costruendo un’entità che fonde l’individualità di ciascuno con l’appartenenza al gruppo. L’inserimento tra i ritratti di quello di un’atleta di fama mondiale come Valeria Straneo  non sminuisce la posizione degli altri, anzi, rende, se vogliamo, ancora più grandioso il senso del progetto di Barberi che omologa l’immagine di una sportiva riconosciuta a tutti coloro che praticano quello stesso sport. Ma non solo, quello che ci viene comunicato è anche un messaggio di speranza: esso ci fa capire che attraverso il sorridente volto di Valeria si riesce a rappresentare il contenuto simbolico di una città. Valeria – ripensando agli esiti di alcune riflessioni dell’esperto di comunicazione Elio Carmi – potrebbe diventare così un’icona che identifica e rende riconoscibile un oggetto di interesse. La sua effige potrebbe diventare l’esplicitazione della vitalità di un contesto. Nel ritratto in questione non c’è infatti descrizione, ma evocazione. L’icona Valeria è l’indicazione di un percorso di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita, è capace di alzare gli standard offrendo il meglio di ciò che era in grado di produrre. Figura di riferimento che può consolidarsi come un segno, la Straneo, nel lavoro di Enrico Barberi, riconduce a sé quei valori socialmente significativi che possono finalmente compensare le carenze di un più vasto gruppo sociale.


mercoledì 17 settembre 2014

le geometrie organiche di mario surbone

É sempre un'esperienza fortemente emozionante confrontarsi con la pittura di Mario Surbone. Essa si manifesta come un Illuminazione, come un riflesso che si compone in lontananza, dapprima misterioso e di difficile decifrabilità, poi così chiaro da somatizzarsi come parte di ciascuno di noi.



Qualcuno, in riferimento alla pittura di Surbone, ha parlato di "geometria organica", centrando con questa definizione lo spirito di almeno una parte della sua vasta produzione. Infatti, per spiegare questo concetto, bisogna considerare che gli elementi naturali sono ridotti alla loro essenzialità di entità geometriche. In fondo - sembra suggerirci Surbone - tutto ciò che esiste in natura si compie agendo sulle infinite variazioni del rapporto tra punto e linea. In questo modo, lo spazio può essere ricondotto a una rappresentazione totalmente rarefatta da sfiorare l'astrazione. Ma Surbone, a questa situazione, aggiunge una componente quasi mistica, e lo fa nel momento in cui riproduce il paesaggio nel quale si è formata la sua sensibilità. Ellissi, triangoli, strutture sinusoidali lacerate, sono la sua interpretazione dell'elemento naturale che configura gli orizzonti della propria esperienza estetica. 




A questo proposito, proprio i grandi pannelli sagomati che l'artista di Treville ha realizzato tra il 1988 e il 2009 dimostrano come sia possibile costruire un percorso teso a indagare il comporsi della vita, il manifestarsi degli elementi nel susseguirsi delle stagioni. Questi lavori si sviluppano crescendo con grande afflato poetico, si compongono di sottili sfumature di colore che rimandano, per esempio, alle foschie del mattino o alle luci di un sole molto basso sull'orizzonte.
A volte le superfici di Surbone danno l’idea di un movimento frenato, di un’esplosione repentina, del un balzo in avanti di un elemento che è costretto a contenersi e torna a raggrupparsi qualche centimetro più in là. Non c’è rumore in questa condizione, tutto è silenzioso, o meglio, è obbligato al silenzio. Non ci può essere altro in questa situazione perché tale situazione è già al limite, al confine di una piacevole morbidezza accentuata da una scelta cromatica pacata, fatta di verdi, di terre, di azzurri.

mercoledì 10 settembre 2014

pita: la poesia si fa arte

Ciò che salta più immediatamente agli occhi, a proposito dell’opera di Pita, pseudonimo di Patrizia Deambrogio, artista scomparsa nel 2004, è la difficoltà di collocarla all’interno di un “movimento” o di un gruppo particolare. Forse, come afferma Massimo Olivetti in uno degli articoli che compongono il catalogo realizzato in occasione della mostra, per comprendere il senso del suo lavoro e poterne dare un modello interpretativo, è necessario ricorrere agli stilemi della poesia. Per questo, prima di tutto, Pita era una poetessa, una poetessa che dava ai suoi versi una consistenza materica, li rendeva tangibili ponendoli in una dimensione capace di mistificare lo strato più antico e trasformandoli in altro.



Il risultato del suo lavorare era un rincorrere di forme, una stimolante citazione che rendeva le sue opere particolari, simili a traduzioni e rielaborazioni, a frammenti e illuminazioni che costruivano  l’ossatura di un percorso su più livelli, all’eterno inseguimento di un piacere che prima di tutto apparteneva, a volte quasi esclusivamente, alla poetessa/artista stessa.



Pita era dunque un’artista ecclettica, si divertiva a sperimentare, lavorava con più tecniche, spesso integrando i materiali, indagando il risultato ottenuto e partendo da lì per ottenere qualcosa di nuovo. Trait d’union di questa sua attività così intensa e continua era il fatto che tutta la sua produzione ponesse al centro della propria ricerca il segno, un segno che a volte si univa a comporre delle illustrazioni, delle immagini che, come le ironiche sirene,  devono essere considerate “figure” a tutti gli effetti. Altre volte il segno propendeva al calligrafismo, virando sull’astrazione, lasciando enorme importanza anche al colore che sembra diventare l’assoluto protagonista delle composizioni di Pita.



A questo punto, quando l’elemento astratto sembrava prendere il sopravvento, ecco un ritorno alla realtà tangibile, la citazione di un elemento che riportava la sua opera su un piano decisamente lirico, seppur penetrando in un contesto indiscutibilmente metafisico. È di fatto un’apparizione, ciò cui assistiamo, ma è proprio attraverso questo espediente che apre ai nostri occhi un altro universo fluttuante e tranquillo.

sabato 6 settembre 2014

i silenziosi orizzonti di romano demichelis

Ognuno di noi porta dentro di sé un paesaggio: quello di Romano Demichelis era fatto di linee orizzontali, di luci e ombre che talvolta esplodevano in gomitoli di segni colorati. In effetti, dalla sua pittura, così essenziale, emerge in modo evidente il preciso rapporto con il luogo nel quale si era formato, un luogo fatto di poche cose, soprattutto di ripetizioni, di rituali che scandivano i ritmi e i tempi di una comunità.



Demichelis ragionava su quello che vedeva e lo esplicitava lavorando su varie dimensioni. In alcuni casi la sua intuizione si concretizzava sulla realizzazione immediata di frammenti di carta, di fatto assemblaggi di campiture dense di colore, paragonabili a dei versi che si compongono automaticamente e che poi diventano parti di una poesia; altre volte si trattava di elaborazioni più complesse ma decisamente più diafane, quasi dei suoni dei quali egli cercava di individuare il senso più profondo.



Di fronte a questi “esercizi di stile” si ha l’impressione di avere a che fare con il punto di partenza da cui scaturiva l’arte di Demichelis, la base di una ricerca felice e incosciente, durante la quale venivano abbandonati i mille spinosi problemi della propria esistenza, del proprio vivere sociale, per poi ricostruire l’identità globale che l’individuo, smarrito nella sua dimensione quotidiana, ha ineluttabilmente perduto. Quindi potrebbe apparire come una contraddizione la presenza di una figurazione riconoscibile – spesso proposta “in negativo” e certamente collocata in un ambiente inospitale – in alcuni suoi lavori. Ma a ben vedere, la figura svolge il ruolo di deuteragonista, limitando il potere assoluto della materia che compone lo spazio, dando così vita a una sorta di graffito rupestre che cerca di scandagliare le origini di una comunità, di portare a riflettere su quelli che sono i termini e i limiti di un percorso culturale che ha comunque al centro una riflessione sulla natura.



La pittura di Demichelis si accatasta sulle tele in una specie di horror vacui da cui fuoriescono alcune ipotesi di paesaggio. Il colore, dopo aver assorbito la totalità dello spazio, lascia che il composto chimico che lo determina e lo rende tale si “raggrinzisca” offrendo un’idea corporea, un nucleo, un bozzo che lascia trasparire un rapporto tra il primo piano e lo sfondo. Esso è volutamente sottolineato da visibili tratti orizzontali che garantiscono la rappresentazione della tridimensionalità. L’idea di non fermarsi al tratteggio del piano semplice lo allontana dall’astrazione pura, egli rimane legato alla tradizione pittorica, non vuole mettere in discussione la storia, ma vuole calarsi dentro di essa. Demichelis dimostra una volontà costruttiva, lo fa impostando la sua pittura su nervature segniche che poco concedono all’evocazione di matrice astratta. La sua opera è lucida e razionale, essa non assume una precisa connotazione geometrica ma sembra aspirarvi inconsciamente, imprimendo alla pittura direzionalità intrinseche, secondo una calibratura non casuale.

Nonostante il palese disconoscimento della sua produzione del periodo più lontano, coinciso talvolta con la distruzione di numerosi lavori, riusciamo comunque a scorgere l’evoluzione del suo pensiero. I momenti creativi di Demichelis  si esprimono con un arricchimento graduale, con la resa di sfumature cromatiche che riempiono lo spazio di energia misteriosa. Le pennellate, infine, tendono a diventare sempre più sottili, un brulicare di energie che mirano a stabilizzarsi formando grafie archetipiche che emergono come reperti e testimonianze di un passato sempre più remoto.

martedì 2 settembre 2014

camillo francia e riccardo alessandro: forme a confronto

C’è un filo sottile che unisce i lavori di Camillo Francia e di Riccardo Alessandro. I due artisti hanno un evidente approccio differente nel momento in cui esprimono il loro modo di fare arte, adoperano materiali differenti, ma i loro lavori evidenziano un’identica forza poetica che dà ai loro percorsi un particolare e suggestivo carattere.



Camillo Francia, arricchisce di nuove suggestioni i suoi paesaggi, essi sono più materici, con gli spazi che si trasformano in tappeti colorati chiusi all’interno di ben marcati orizzonti. Negli anni egli ha via via rimodellato il suo modo di dipingere, rendendolo sempre più essenziale. La grandezza di Francia sta nel fatto che egli ottiene delle forme sfruttando solamente delle incisioni praticate nel colore puro. Egli non ha la necessità di combinare altre tinte, gli è sufficiente agire sulla superficie liscia del quadro in modo da incidere la materia pittorica, ottenendo un solco che si riempie di ombra, creando una linea immaginaria più scura, percepita a livello di occhio, ma assolutamente priva di consistenza fisica.



Negli ultimi lavori si evidenzia appunto una maggior geometrizzazione dello spazio. Egli, infatti, forte delle precedenti esperienze, agisce sul colore con delle incisioni che rialzano la pellicola pittorica determinando zone chiaroscurate ben differenziate. Con l’aggiunta di altri colori le campiture risultano nette e divise, contenute esplosioni di paesaggio percepite come se le si osservasse dall’alto, concentrando la vista in un punto preciso dell’orizzonte.



Riccardo Alessandro costruisce delle piccole strutture tridimensionali nelle quali è forte la presenza di materiali ai quali vengono dati precisi valori simbolici. Di fatto nelle sue “architetture scolpite” emergono dei particolari che inducono a domandarsi qualcosa. Sono frammenti di metallo, fogli di carta, legni di colore differente che spiccano in modo particolare. È su quelli che deve fermarsi la nostra riflessione. È in quei materiali che spiccano per la loro diversità che si può trovare la chiave di lettura delle sue opere.



Inoltre, i vuoti e i pieni che rendono le sue sculture cariche di suggestioni tattili, diventano dei testi che possono essere decifrati, che possono trasformarsi in divertissements attraverso i quali si può stabilire un piacevole contatto con l’estetica di Alessandro.

mercoledì 20 agosto 2014

l'amore sacro e l'amore profano di ruben esposito

Amor sacro e Amor profano” è il titolo di uno dei più famosi quadri di Tiziano. Opera di equilibrio, impostata sul contrasto tra due figure femminili caricate di enorme potenza espressiva e simbolica.

Lo stesso titolo è stato dato a un'opera di Ruben Esposito, che sembra scandagliare due livelli dell'animo umano: uno superiore di elevazione e uno inferiore, una sorta di discesa agli inferi, di viaggio nel “cuore di tenebra” di ciascuno di noi. È un'opera intensa che affascina, perché dimostra la lacerazione che viviamo quotidianamente, che ci conduce a cercare l’innalzamento spirituale per distaccarci dalla pena dell’immanente e, nello stesso tempo, a operare il percorso contrario, gettandoci con rimorsi e sensi di colpa in quel mondo che viviamo e, ipocritamente, condanniamo.



Parafrasando Piero Citati, l’amore, in generale, è adorazione, venerazione, ammirazione, desiderio di sacrificio, tenerezza, dolcezza, ardore, furore, follia, eccesso, che si nutre di eccessi, desiderio di infinito. Osservando le installazioni di Ruben Esposito si percepiscono tutti questi caratteri, ai quali si deve aggiungere l’eros che aleggia come entità misteriosa e indescrivibile su ogni pezzo, sulle pieghe di ogni metallo, sui pori delle ceramiche.

I lavori che identificano l'amore sacro si stagliano su degli sfondi di sintesi paesaggistica: lamiere lavorate che si contendono le superfici, evocano fondali pittorici: in questo modo  le frammentarie figure umane si esaltano, assurgendo al ruolo di protagonisti. Queste composizioni hanno un evidente valore simbolico, ma è difficile individuarne esattamente il significato preciso, perché ciascuna di esse si richiama a esperienze individuali e, soprattutto, perché l’amore sacro non ha un’unica etichetta, non è solo, per esempio, l’amore verso Dio. Ruben Esposito fa comprendere questa difficoltà, adoperando frammenti di corpi che scattano posseduti come menadi danzanti, originati da pseudopodi che affondano nel terreno, offrendo un senso di leggerezza che è negato al rito dell'amore profano.



La protagonista è una ragazza, posta al centro della sala, che danza, ma si muove razionalmente, non più posseduta, ma osservata da tre individui che barcollano, nel disinteresse di chi sta consumando l’atto amoroso. Il visitatore è costretto a osservare, a guardare, egli ha pagato per entrare in questo spazio e si aspetta di essere compiaciuto, di entrare nel vivo di un’azione che lo coinvolga fisicamente ma, si badi bene, non emotivamente.


Profano, in origine indicava qualcosa che era al di fuori dal recinto del tempio antico, quindi da ciò che era sacro; ora tutto si mischia, tutto convive nello stesso spazio. Il corpo, che un tempo poteva avere un valore ideale, ora diventa merce, ricoprendosi di una sacralità nuova e differente, e, talvolta, ribaltando il concetto originario, cioè trasformando ciò che era sacro in profano e ciò che era profano in sacro.

sabato 2 agosto 2014

notazioni all'outlet di serravalle 2

Si tratta, di fatto, di un percorso, un percorso che si snoda tra le vie dello spazio outlet di Serravalle. È sufficiente camminare in questo luogo, dunque, per imbattersi in opere d’arte che appaiono nella loro monumentalità al’improvviso, suscitando la curiosità di chi passa, e offrendo così uno spaccato del’attività di alcuni artisti attivi nella provincia di Alessandria, secondo una precisa scelta operata dal curatore.



Le opere sono unite dal tema della musica. Alcune lo ostentano in modo palese (come avviene per Francescon, Tamburelli e Boggeri); per altre invece, è necessario individuarne il valore simbolico e decifrarne un senso che comunque riesce sempre a essere identificato (in modo più facile, come per Bonardi, Ivaldi, Fallini, Marchelli e Arecco; in maniera più criptica per Crosio, Bonaldo, Mega, Porta, Laugelli  e Saldì). Si tratta di opere che si collocano all’interno di un discorso fortemente contemporaneo per il quale, al dato di mera visibilità, si devono aggiungere spesso numerose stratificazioni di significati che ne completano il carattere e ne rendono entusiasmante la decifrazione.




Le opere esposte dimostrano un aggiornamento capace di porle in un contesto culturale assai aggiornato, totalmente al passo con le più interessanti sperimentazioni europee, con contaminazioni che riconducono ai termini di una ricerca che affonda le sue radici in almeno mezzo secolo di sperimentazione. È curioso osservare, per esempio, come si sia ricorso a un numero incredibilmente diversificato di materiali per giungere alla creazione di questi lavori. È quasi come se gli artisti, unendo idealmente le loro opere, abbiano voluto far vedere quante siano le possibilità materiche della plastica contemporanea, offrendo un saggio che dimostra quanto si possa considerare “scultura” qualsiasi lavoro tridimensionale, a prescindere dai materiali adoperati e includendo assemblaggi di oggetti, installazioni spaziali e video in ambienti chiusi e all’esterno. Con un pubblico ormai abituato a accettare compenetrazioni e contaminazioni varie, si saprà apprezzare l’uso di queste diverse interazioni – comprendendo come possibile anche quella tra luogo e opere – , accettando come valida e normale anche questa compresenza. 


notazioni all'outlet di serravalle 1

Secondo alcuni critici, l’arte, nei secoli, ha avuto due livelli di sviluppo, da una parte si è evoluta sul piano privato, legandosi alla passione del singolo per un mero desiderio di appagamento intimo e riservandosi a pochissimi; dall’altra, sul piano pubblico, all’interno di un progetto capace di valorizzare la forza di un luogo, offrendo ai propri abitanti e a eventuali visitatori, uno sfoggio della volontà di investire da parte di una comunità anche nell’arricchimento spirituale.



La mostra di sculture e installazioni che occuperà alcuni spazi della struttura dell’Outlet di Serravalle si colloca su un piano di fruizione pubblica e nasce con il proposito di dimostrare come sia possibile conciliare qualcosa che a alcuni pare essere posta agli antipodi. L’arte ha però sempre avuto come primo scopo la fruibilità, per essere giudicata e, eventualmente, apprezzata. Un tempo i luoghi erano le acropoli, le piazze e gli angoli di grande passaggio; era lì che i mecenati collocavano le opere offerte con la ricchezza della propria committenza. Oggi, come ben sappiamo, le cose sono cambiate e anziché rinchiudere l’arte in spazi che da molti sono percepiti come lontani e inaccessibili, si è deciso di creare un percorso che si snoda in uno dei luoghi più visitati del Piemonte.



Il tema che hanno affrontato gli artisti coinvolti in questo progetto aveva a che fare con la musica, tema da mettere in relazione al decennale della rassegna jazz. Gli esiti sono stati decisamente interessanti, dimostrando ancora una volta che le forze culturali legate al territorio si propongono assai aggiornate e capaci di offrire opere di grande impatto estetico. Infatti, gli artisti coinvolti, pur attivi a livello nazionale e internazionale, sono tutti legati in qualche modo al territorio della provincia di Alessandria. In questo modo si intende ribadire, sia attraverso la peculiarità dell’appartenenza e attraverso il ricorso a una “vetrina” di così grande visibilità, il superamento di un concetto, quello di provincialità, che ormai non ha più alcun senso.

Dunque, per la prima volta in un outlet in Europa, ecco che a Serravalle appariranno le opere di Davide Bonaldo, Piero Mega, Vito Boggeri, Carla Crosio, Mirco Marchelli, Francesco Arecco, Marco Porta, Giovanni Tamburelli, Carlo Ivaldi, Enrico Francescon, Giovanni Bonardi, Giovanni Saldì, Antonio Laugelli e Mario Fallini.