giovedì 29 maggio 2014

aspetti religiosi nell'opera di morando

Uno dei lavori più interessanti proposti dl drappello di artisti che hanno ripensato all’opera di Morando è sicuramente quello di Nadir Montagnana. Dal punto di vista estetico si nota come le sue striature lineari riescano a comporre un’immagine che è in grado dialogare con la produzione “sacra” di Morando. Per questo lavoro Montagnana compie un’operazione di grande acume, allungando i suoi segni fino a evocare una figura che ricorda proprio il San Giorgio di Morando.



Il riferimento a Montagnana ci permette così di riflettere sul valore religioso dell’opera di Morando. Probabilmente, questo tipo di atteggiamento è più marcato di quanto non possa apparire a un primo e sommario esame del corpus pittorico morandoiano. Egli esprime una religiosità popolare, per certi versi ingenua, lontana dalle grandi speculazioni teologiche. Egli si comporta come un pittore della Controriforma il cui interesse principale è quello di garantire la leggibilità del messaggio evangelico. Morando, in questo senso, è allora l’erede di una tradizione che affonda le sue radici nell’arte popolare, in particolare in quella della cultura medievale. In questo senso possono trovare una chiave di lettura le spigolosità prive di grazia delle sue figure: esse risultano assai vicine a quei modelli scultorei o pittorici che proponevano in sintesi le parole dei testi sacri, che garantivano ai semplici (di cui il mondo del pittore alessandrino è pieno) la possibilità di appropriarsi dei contenuti minimi del cristianesimo.


L’immediatezza e la schiettezza della sua produzione religiosa non destava problemi di sorta, egli centrava immediatamente il messaggio da elaborare in chiave religiosa. A conferma di ciò vi è l’ episodio della vittoria di Morando, con un suo Presepio, della Mostra Nazionale di Arte Sacra che si tenne in Alessandria nel dicembre 1949. È vero che la mostra fu fortemente condizionata da censure e che Morando fu solidale con gli esclusi, ma non ritirò la sua opera. Con quel tipo di giuria, probabilmente, Presepio avrebbe retto il confronto anche con gli altri lavori  e sarebbe risultate la prescelta. Il motivo sta proprio nel fatto che essa era più vicina a quella visione che non gradiva l’interpretazione artistica dei fatti religiosi, ma, preferiva il racconto di essi, nell’ottica della semplicità. 

mercoledì 21 maggio 2014

carmi & ubertis, un logo e brand 111

Un avvenimento che combina tre elementi : la realizzazione da parte dei due designer casalesi Elio Carmi e Alessandro Ubertis del logo che identifica l’attività del padiglione Italia alla prossima Expo 2015 con la mostra dell’intero progetto; la presentazione del libro scritto da Elio Carmi, Brand 111; l’incontro con entrambi per parlare di tutto questo e del Monferrato.



In effetti, tra provocazione e senso di estrema concretezza, la riflessione è ruotata sulla domanda che sonda la possibilità di creare una “marca” per il Monferrato. Spiega Elio Carmi che il marchio è un segno di riconoscibilità, ma ciò che conta è la marca, vale a dire ciò che rimane nell’immaginario collettivo di un determinato prodotto. Creare la “marca Monferrato” significa offrire qualcosa che vada al di là di un ipotetico soggiorno, significa ottenere un’immagine che possa rimanere e essere comunicata attraverso una serie di sensazioni.



Per ottenere questo, è opportuno, secondo Alessandro Ubertis, eliminare qualsiasi ingerenza interessata, fare una sorta di “piazza pulita” di tutte quelle brutture che rischiano soltanto di danneggiare un territorio. Inoltre, il Monferrato non deve essere soltanto “casalese”, deve diventare un concetto territoriale che si allarga dall’Appennino ligure alla Lomellina, senza una capitale, senza una “paternità”. È forse una questione di educazione, alla base della quale c’è un discorso di formazione e di valorizzazione delle eccellenze. La terribile questione dell’amianto, per esempio, potrebbe diventare lo specifico di una popolazione, potrebbe caratterizzare un’identità urbana e essere ostentata come modello per chi crede sia inutile la lotta contro certi poteri.




Le opinioni di Carmi e Ubertis hanno così chiarito il senso dei lavori presentati: le 111 domande sul Brand che compongono il testo di Elio Carmi conducono a riflettere sulla concretizzazione dell’idea, su quali siano le problematiche da risolvere nel momento in cui ci si trova di fronte a una richiesta e che cosa possa porsi efficacemente per scolpire nella memoria collettiva un determinato prodotto. Le tavole che sciorinano il progetto del logo del Padiglione Italia dimostrano come la teoria possa diventare pratica.

martedì 13 maggio 2014

ripensare l'opera di pietro morando

Può essere considerato un percorso nel percorso: da una parte l’evolversi dell’opera di Pietro Morando, dall’altra il ripensamento che alcuni artisti contemporanei alessandrini fanno del suo lavoro.

Antonio De Luca opta per qualcosa di molto contemporaneo, evita il confronto con l’opera di Morando citando l’immagine del pittore nella rielaborazione di una fotografia scattata a Venezia, forse in occasione della sua partecipazione alla Biennale del 1956. La foto è il pretesto per far riprendere a De Luca le sagome dei due personaggi e eternarli come icone pop. Vito Boggeri  ha in mente l’opera di Morando e ne estrapola un particolare. Si tratta di una foglia  che riesce a evocare un intero universo, un’immagine che si collega all’albero, quindi alla campagna e infine al mondo dei vinti che amava raccontare Morando.



Davide Minetti fa riferimento alla fase più drammatica dell’esperienza di vita di Morando, quando fu combattente nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Alla base c’è un’operazione proustiana: il ricordo di quel disegno che gli precipitava addosso ogni volta che entrava nella sala d’attesa del suo pediatra. Per Minetti quello è Morando, latore di un’immagine poderosa, così dilatata, così tragica.



Anche Giovanni Tamburelli cita qualcosa dell’opera di Morando. Egli si sofferma sulle cornacchie, evocando un particolare che ci riporta alle tele del maestro alessandrino. Le cornacchie di Tamburelli, però, escono dal quadro e scendono direttamente nella sala a interagire con i visitatori. Tamara Repetto non si richiama propriamente a Morando. Lei elabora una situazione, entrando nello spazio intimo, nella vita del pittore, immaginando un frammento di esistenza capace di diventare mito. Un’esecuzione scarna, essenziale, proprio come l’opera del maestro.




Mario Fallini mira all’essenzialità geometrica. La sua opera cita lo spazio metafisico dei paesaggi urbani di Morando, delle facciate che sorprendono per la loro regolarità. Pensando a Palazzo Rosso, Fallini esaspera il colore della facciata, lo fa esplodere, sovrapponendosi alla scabra linearità morandiana. Mario Annone risulta più sironiano piuttosto che vicino a Morando. Probabilmente dietro a questa tela si nasconde la volontà di dimostrare la presenza di tanti Morando nell’evolversi della sua carriera. Massimo Orsi ricorre al suo segno caratterizzante per costruire un dittico in cui trovano posto frammenti sparsi dell’opera di Morando. Un suggello collocato alla fine del percorso teso a contenere tutto quello che si è visto.

mercoledì 7 maggio 2014

kandinsky: introduzione all'astrazione

Vassilij Kandinsky è stato uno dei massimi protagonisti della cultura pittorica europea del XX secolo. Egli è conosciuto soprattutto per l’opera astratta, ma il viaggio che lo portò all’astrazione iniziò molto lontano, esattamente negli anni della sua formazione universitaria, durante gli ultimi decenni dell’Ottocento, quando i suoi studi di legge lo avevano portato ad analizzare i fondamenti del diritto nelle tradizioni delle sterminate campagne della Russia, fra le lontane popolazioni della Vologda, in Siberia, dove da etnologo approfondì la vita, gli usi e l’economia dei sirieni, una piccola etnia cui dedicò alcuni articoli scientifici, incontrando anche le pratiche popolari derivanti dalle antiche ritualità sciamaniche, dalla cui profonda spiritualità fu fortemente colpito.



La formazione del giovane Kandinsky crebbe dunque all’interno di una impetuosa corrente culturale sviluppatasi in Russia per tutto l’800, seguita all’invasione napoleonica e alla conseguente distruzione di Mosca, volta a ricercare nella cultura primitiva e folclorica del mondo contadino, le radici di un’originaria e intatta civiltà russa.




Ma quanto appena detto risolve solo in parte il “problema Kandinsky”. La sua opera è troppo complessa per poter essere riassunta in un’unica formula, o esemplificata in un solo quadro. Egli scrisse che la pittura è la collisione di mondi che creano altri mondi, l’opera d’arte è un mondo, pertanto la creazione di un’opera è la creazione di un mondo. La sua arte è percettiva, le sue immagini si richiamano sicuramente a quella esperienza, dalla figura del cavallo e del cavaliere, al tamburo rituale, alle figure simboliche di animali.
Questo universo favoloso ed esoterico – proposto nelle opere esposte realizzate tutte tra il 1901 e il 1922 –, contrapposto al razionalismo dell’occidente europeo, è alla base di quella forma sciamanesimo che può essere evocato nel momento in cui l’artista giunge alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana ma che, tramite il colore, la forma, la loro combinazione e il ritmo della composizione fosse possibile esprimere gli stati d’animo e le emozioni provocati sia dal mondo esterno che dai moti profondi dello spirito umano.