martedì 28 marzo 2017

il segno di enrico della torre

Enrico Della Torre è uno dei massimi esempi di artista contemporaneo italiano. Già protagonista negli anni del dibattito italiano sull'arte contemporanea, Della Torre è autore di una serie di opere recenti che indagano ancora più a fondo la sua estetica.

Per questo, nella mostra alessandrina a lui dedicata, accanto alle sue opere più identificative, soprattutto acqueforti e acquetinte, sono poste alcune opere su carta, in prevalenza pastelli e disegni, opere che confermano la forza del suo segno che si unisce al colore. L’immagine che si ricava è quella di una figura che sembra costruirsi geometricamente, sembra affermarsi, come direbbe Paul Klee, in modo da dover essere interpretata per renderla appunto una figura, per darle rilievo con un gioco alterno di luci e ombre.


Della Torre con questi lavori sembra concludere il processo di comunicazione intersoggettiva, cioè non mediata dal riferimento alla natura intesa come codice o linguaggio comune all’artista che emette il messaggio e al fruitore che lo riceve. Infatti, la sua arte diventa poesia, è la sintesi di un suono che si sedimenta nel segno e rimane assoluto, sospeso nel tempo e nello spazio.

mercoledì 8 marzo 2017

il paesaggio estremo di enrico barberi

All’interno di uno spazio definito, gli estremi sono i due punti più lontani tra loro. Lasciando da parte le congetture fisiche sulla possibilità che nell’infinito gli estremi si congiungano, nel finito essi sono caratterizzati da oggettive diversità che li diversificano.



Enrico Barberi comprende che il paesaggio è un modo di guardare, di capire il lontano e il vicino. Barberi ci invita alla contemplazione, ci invita a osservare attraverso il filtro della fotografia, a guardare con più attenzione, a rapportarci al mondo in un certo modo, avendo in cambio un frammento di un dato avvenimento. Come ha detto Gabriele Basilico, l’inquadratura è un luogo privato di meditazione, un’esperienza assolutamente personale.

Per molti, ciò che osserviamo in estremi è una sorta di dejà vu. I luoghi proposti da Barberi sono, dal punto di vista estetico, sospesi nel giudizio, per quanto possibile. Estrtemi è un dialogo tra orizzonti visuali, è un’unione di squarci di luoghi perché non esiste un luogo ideale, perché il luogo ideale è un posto nel quale ciascuno di noi non è mai stato.

In estremi Barberi si approccia al mondo in una maniera che sembra non cambiare rispetto all’antico – e con antico intendo riferirmi all’estetica dei grandi fotografi di paesaggio –. Il riferimento culturale è quello di Cartier-Bresson per il quale si cerca di fermare lo sguardo su quanto la gente non sarebbe riuscita a vedere in determinati momenti della visione, che è sempre dinamica. I luoghi hanno un’anima e riescono a parlare. È necessario ascoltare il silenzio, il vuoto, l’assenza di accadimenti che aiutano a porsi in relazione con lo spazio senza negare né vita né umanità. Barberi crea una sorta di trait d’union che collega tutti gli spazi. Tra l’Islanda, terra primordiale ancora in formazione, e San Francisco, spazio urbano totalmente condizionato dalle esigenze umane, ci sono tutte le possibili variabili: scattare una fotografia in un determinato luogo conserva la memoria dei precedenti e si colloca idealmente in un archivio che sfaccetta la realtà fino a immortalarla completamente.


Alla base del progetto di Barberi c’è un messaggio che sembra trasmetterci l’idea che ciò che sta avvenendo è una trasformazione del mondo in una grande e immensa città. Barberi parte dal cosa c’era prima, ci offre dei luoghi nei quali la presenza umana è ridotta alla pressoché invisibilità, al silenzio. Non a caso nel primo scatto si individua una figura femminile nel paesaggio, una mater tellus dalla quale tutto proviene; si conclude il percorso con un’ambientazione analoga in cui si vede invece una figura maschile, un principio negatore del precedente che deve essere percepito come una sorta di ultimo uomo sulla Terra, un pianeta desertificato e privo di speranze. In mezzo il resto.