lunedì 27 ottobre 2014

il segno di luigi boille

La particolarità dell’ultima produzione di Luigi Boille è determinata dal fatto che il segno che emerge dal fondo dei suoi supporti sembra alimentare la percezione di una vita prettamente pittorica tutta interna all’opera, un dinamismo organico che fa di tutto per emergere e affermarsi come “centro di una rappresentazione”.



Fatta questa premessa, si prende atto di una conseguenza che si determina e che insiste su due variabili: da una parte il dinamismo della costruzione, dall’altra l’attenzione al segno come modo concreto di non perdere un contatto con il reale. La consistenza spaziale e la resa segnica di Boille rendono a chi osserva una sua tela o un suo foglio, l’idea per cui non conta – come invece avviene nell’informale – la materia, o meglio, la riduzione della tela alla propria materia pittorica. Interessa invece una determinata percezione, una suggestione della materia che dà al segno una possibilità di essere inteso come immagine.



Se è vera questa presunta corporeità del segno che emerge dalla tela come un’isola nell’oceano, è anche vero il riferimento di labilità, di dinamica, dei limiti di spazio e di tempo a una visione corporea della vicenda che la sequenza dei lavori di Boille, quasi delle variazioni di uno stesso tema, insegnano.




Il colore che ogni tanto appare come compatto sfondo di alcune carte, risulta essere la memoria delle pitture che Boille aveva realizzato durante gli anni Sessanta. Esso rimane come una citazione quasi a attenuare la pressione della superficie (non)dipinta, che però fa intuire la possibilità di combinare il segno con lo spazio in infinite tipologie, attraverso un modo differente rispetto a quello che avviene sulla superficie dipinta. Il pittore romano traduce l’esperienza percettiva nella sua pittura e lo fa attraverso una sorta di lenta appropriazione di “altro”, cioè di elementi che derivano da combinazioni di fenomeni formali, cromatici e ritmici. L’opera di Boille è una rappresentazione che dall’immagine arriva al corpo. Egli articola i suoi lavori in maniera assai fresca e espressiva, secondo una solida vivacità di fondo che pervade anche questa serie di lavori realizzati intorno al 2010. 

mercoledì 15 ottobre 2014

a due a due con mirco marchelli

L’interesse di Mirco Marchelli per la musica trova la sua sublimazione nella realizzazione del progetto artistico denominato A due voci. Si tratta sostanzialmente di una grande installazione che, in un gioco di vicendevoli influenze, mischia all’artefatto di Marchelli una sua elaborazione musicale per saxofono e percussioni ad libitum e per voce femminile e pianoforte improvvisato, che a sua volta ha come riferimento le Variazioni Goldberg – la famosa opera per clavicembalo di Bach che realizza trenta variazioni alla medesima aria – .


Dunque un’opera sonora che però ha un ulteriore elemento aggiuntivo nelle poesie di Paul Klee (la seconda voce cui fa riferimento il progetto), artista poliedrico, dai più conosciuto solo come pittore, ma anche musicista e, appunto, poeta. Questo secondo aspetto ricalca l’elemento più marcatamente pittorico del lavoro di Marchelli, lavoro che spesso sembra lasciarsi influenzare dalla maniera dell’artista tedesco.


In questa fase della sua produzione Marchelli crea un ulteriore step al suo discorso di sperimentazione teso a adoperare come struttura portante del suo lavoro la musica. Seguendo una brillante intuizione che sembra giungere dalla cultura barocca, Marchelli completa le sue “pitture tridimensionali” circondandole con la diafanità del suono. È, ovviamente, qualcosa che non si vede ma che fluttua nell’aria, che si compenetra con il tangibile creando i presupposti per una visione diversa, non tradizionale dell’opera d’arte.


Klee affermò che l'arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è. Credo che questa considerazione riesca a spiegare lo spirito del lavoro di Marchelli che rimanda a un immaginario estremamente complesso, un immaginario che lascia intuire la poesia delle sue opere, del colore che si contrappone allo spazio. Le “cose” di Marchelli appaiono dunque adoperate, ricche di colori opachi tipici di un mondo vissuto, un mondo in continuo divenire, il cui destino si compie con moto circolare, secondo un rito che ha come protagonisti gli oggetti, un rito fatto di sparizione, recupero e ricompattamento in altre forme.

martedì 7 ottobre 2014

i vescovi di enrico de benedetti

Di fronte all’opera di Enrico De Benedetti si resta sempre piacevolmente spiazzati. Questo avviene soprattutto quando si conosce tutta la sua produzione, la sua evoluzione, i suoi cambiamenti che, solo apparentemente, sembrano distaccarsi completamente rispetto a ciò che era stato fatto in precedenza.  L’ultima fase della sua produzione si incentra su una ricerca di tipo figurativo nella quale l’artista riflette sulla struttura della figura umana. Questo, in estrema sintesi e in maniera molto generica, potrebbe spiegare lo spirito di questo momento del suo lavoro. Ovviamente non è solo così. Infatti, la figura umana che De Benedetti sceglie di analizzare è quella più complessa che ci giunge dalla tradizione cristiana, è la figura del vescovo, del santo che indossa i paramenti episcopali e si staglia su compatti fondi monocromatici.



Si potrebbe parlare di “arte sacra”, ma anche in questo caso si limiterebbe il discorso a un solo aspetto di questa produzione. L’elemento sacro è quello che si può notare a un primo impatto, quello che percepiamo perché ce lo portiamo dietro culturalmente per essere immersi nel Cristianesimo, come aveva affermato Benedetto Croce. Per De Benedetti si tratta di un punto di partenza sul quale inserire gli aspetti di una riflessione estetica più complessa, più ricca. Per esempio, l’elemento grafico/simbolico che di pone in rapporto dialettico con le immagini vescovili sembra ricalcare le punzonature delle aureole medievali, dilatando così una decorazione che era contenuta in ben precisi e delimitati spazi circolari. Oppure, la tridimensionalità degli spazi è rimarcata dall’inserimento di elementi decorativi – lettere dell’alfabeto, lastre metalliche, pietre trasparenti – che sembra rielaborare gli esiti della pittura bizantina.




De Benedetti crea delle strutture complesse nelle quali la decorazione non è mai secondaria rispetto al soggetto e viene utilizzata all’interno di un processo si trasfigurazione simbolica del tema centrale. I più semplici elementi geometrici non determinano mai delle composizioni astratte, mantenendo invece costante il contrasto tra il naturalismo delle immagini dei vescovi e il decorativismo delle ambientazioni.