giovedì 24 gennaio 2013

l'aleramica a casale monferrato

È ancora una volta la provincia l’assoluta protagonista di questa rassegna. Qualcuno aveva affermato che i grandi discorsi estetici, per diventare tali, devono consolidarsi al di fuori dei grandi centri propulsori, diventando parte di una stratificazione culturale che altrimenti finirebbe per dissolversi. Ogni centro più o meno grande ha avuto dei gruppi, delle associazioni di intellettuali, non necessariamente ufficiali, il cui scopo era creare un progetto di discussione e confronto per riuscire a diffondere uno stile, un’etichetta in grado di sviluppare un’unicità artistica che, come un eco, si replicava in una sorta di maniera.
Qualcosa del genere è rilevabile nell’esperienza del gruppo di artisti che si legò in quel sodalizio che è conosciuto come “l’Aleramica”. Erano gli anni Settanta, gli anni più cupi della nostra storia recente. Voci lontane di scontri quotidiani, guerra civile a bassa intensità, qualche episodio di quella violenza urbana giungeva anche nelle città di provincia. L’attenzione dei più era rivolta a altro, ma non tutte le speranze di serenità  erano cassate dalla durezza della realtà. Il gruppo in questione creò una specie di Hortus conclusus, uno spazio dal quale fare emergere un’energia creativa che contrastasse le negatività dell’esterno. La percezione è questa: un cosciente disimpegno che non inquinasse la sostanziale bellezza del prodotto intellettuale. Divisi tra scultori e pittori, essi si dedicarono con passione alla creazione di artefatti, dividendosi gli spazi espositivi nel quinquennio che va dal 1973 al 1977. In queste rassegne apparvero così le acrobatiche sculture di Luigi Bagna, accanto a quelle più trasognate di Enrico Bargero. Furono presentate le ironiche strutture plastiche di Mario Bargero, i lavori di Giuseppe Mazzoleni, scultore e pittore astratto, e i dipinti fortemente geometrici di Aldo Ferrarino. Vennero esposti le oniriche e delicatissime opere di Giuseppe Campese insieme agli intensi paesaggi padani di Andrea Di Palma. Si propose al pubblico la rielaborazione materica di Gabriele Serrafero con la pittura carica di lirismo di Sergio Trabellio. Nove autori che a quarant’anni di distanza ritornano a esprimersi con la loro arte.

domenica 20 gennaio 2013

carlo pace: l'estetica del ruvido

La ruvida carezza della carta vetrata


Il compito  dell’arte nei valori sociali, morali e spirituali è nullo.
L’artista interviene nella società a mantenere viva la ragione di essere uomo.
Lucio Fontana

Lo studio di Carlo Pace si trova nel centro storico di Alessandria. C’è silenzio nel cortile sul quale si affaccia la porta del suo laboratorio. Due stanze che odorano di solvente, centinaia di quadri variamente datati, dagli anni Cinquanta a oggi. Sul tavolo un lavoro in divenire, appoggiati alla spalliera del divano altre due opere concluse da poco. Dalla radio escono le note di una canzone.
Ti giri intorno e guardi l’accumularsi dell’esperienza pittorica di uno sperimentatore, la rappresentazione dell’inquietudine di un uomo che ha costruito con il suo lavoro di artista la propria esistenza. Carlo Pace racconta di come nascono certe sue intuizioni, afferma che talvolta lo sorprendono mentre sta per addormentarsi, e lui le segue fino a afferrarle e a trasformarle in quello che vediamo, in opere che per la complessità del gesto creativo sarebbe limitativo definirle solo “pitture”.
Per questo l’evoluzione del discorso artistico di Pace è fatta di accelerazioni improvvise, di trasformazioni repentine che talvolta sorprendono. Eppure, ogni volta che comincia a definirsi una nuova serie di lavori c’è sempre un collegamento con qualcosa che lo ha preceduto, si intuisce sempre un riferimento a un momento più o meno preciso del precorso culturale di Carlo Pace. Nulla è casuale, scavando appena ecco affiorare la radice cui si attacca il ramo della nuova idea.
Carlo Pace ha più di cinquant’anni di esperienza alle spalle, ha conosciuto critici e artisti che gli hanno parlato e gli hanno fornito i presupposti della sua specificità di operatore d’arte. Egli si avvale di una notevole forza che gli ha permesso di mettersi sempre in discussione e di osservare come si muoveva – e si muove – il mondo dell’arte. Ciò che si è determinato è un qualcosa di particolarmente intenso, di vigoroso, costruito sul piano della ricerca e di una coerenza formale che in ben pochi della sua generazione hanno saputo mantenere.

Negli anni Settanta Carlo Pace realizzò una serie di piccoli lavori, delle tavole quadrate di quaranta centimetri di lato. La struttura di quasi tutti quei manufatti presentava una sezione  centrale ricavata attraverso l’incisione del legno con sgorbie. Ciò che si determinava era uno spazio liquido, dai limiti non regolari, trattenuto da bordi levigati che limitavano l’espandersi dinamico della struttura più interna. I pigmenti che si stendevano a coprire la superficie di ogni singola “formella” variavano, dal grigio antracite al giallo squillante, a volte mischiati, a volte drammaticamente solitari. Ma l’azione del pittore non si limitava soltanto alla stesura del pigmento, spesso unito a collanti che ispessivano la materia rendendola durissima, simile a un’ambra perlacea; egli concludeva l’operazione grattando la superficie con un foglio di carta vetrata, asportando e ridistribuendo i colori per creare un effetto particolare, un effetto atmosferico di erosione.
La serie di opere, percepite in rapida sequenza, dimostra la bontà di un’operazione che mischia gesti che appartengono alla scultura – l’utilizzo di una sgorbia e la piallatura con la certa vetrata – a esiti che non possono che essere considerati pittorici. L’artista si mette a completa disposizione dell’arte, accetta la sfida con un materiale che lo costringe a compiere un’operazione di trasformazione che gli permette di contenere la forza dirompente della pittura accettandone i limiti. Ciò che si determina è una visione primordiale, un tuffo nel liquido amniotico che costringe l’osservatore a fare i conti con la sua origine di essere vivente. È, in fondo, una percezione degli inizi della propria esistenza, il ricordo di quel viaggio finalizzato alla costruzione dell’anima del quale restano pochi frammenti cristallizzati nella memoria di ogni pensante. Pace ci invita a osservare delle forme che esplodono di fronte ai nostri occhi non ancora abituati a percepire la realtà, quella realtà che si manifesterà in tutta la sua crudezza nel momento in cui, abituati alla semioscurità trasparente del ventre materno, avremo la percezione della luce esterna.
Marisa Vescovo, nel febbraio 1974, scrisse:
...i nuovi lavori di Pace rinunciano radicalmente alle preziosità visive tipiche della tradizione romantico-impressionista, si sottraggono al gioco dello spazio “dipinto”, tendendo ad uscire definitivamente dall’illusionismo del quadro come rettangolo-gabbia per le forme e il colore, e pone come primaria l’esigenza espressa da Vladimir Tatlin di realizzare “un vero materiale in un vero spazio”. La frusta bellezza e il parco emergere di un legno, l’opaco e il disagevole porsi di una lastra di eternit o di truciolato, che rivelano spazi di materia libera alternati a spazi di colore, con la loro vivente sostanza, generano un’energia sotterranea che mette in moto i meccanismi della comunicazione. La nota più decisamente allarmante, spia di una situazione psicologica di segno vitalmente negativo, sono quei fori che si aprono come piaghe allarmanti nel legno ancora grezzo, incandescenti cicatrici lasciate da un fuoco esistenziale che corrode incessantemente, dizioni torturate della materia che agglutinano in quei ciechi occhi di vuoto ombre e resti di vampe antiche, luci effimere proiettanti rilievi squamati e accidentati in un’affabulante corsa a ritroso nel tempo e nello spazio...
la necessità di tagliare, di bucare, di bruciare, ubbidisce al desiderio di rompere definitivamente il piano del quadro, come se la materia portata al limite ultimo della rarefazione volesse recuperare attraverso quell’”incidente” penoso il senso più autentico ad abbrividente della propria verità di esistere.

Gli ultimi lavori, quelli realizzati a partire dal tardo autunno del 2007, pur collocandosi in diretta continuazione con le recenti cuciture policrome, sembrano derivare in modo più marcato da quei piccoli manufatti realizzati negli anni Settanta. Però, considerare solo le “formelle” ’70 quali unici riferimenti a questi lavori si commetterebbe un grave errore. In effetti, la centralità dell’elemento su cui si imposta l’atto creativo riporta anche alla realizzazione delle “Spine dorsali” – forse la fase artistica più importante di Carlo Pace –, molte di queste create negli anni Settanta, straordinarie costruzioni archeologiche, strutture che affiorano dalle nebbie di un passato lontanissimo come elementi fossilizzati di vite organiche precedenti. Le Spine dorsali trasmettono dolore e inquietudine, sono scheletri che emergono in uno spazio pieno di cattiveria e di sporcizia, uno spazio che tende a contaminare, a inquinare anche la purezza dell’assoluto.
Dino Molinari, nel 2003, a proposito delle Spine dorsali, ha scritto:
...le Spine dorsali, nere, beige, su fondo sporco, tutte del 1975, sono pale d’altare, simboli di tortura e di martirio, di antiche e di nuove persecuzioni, di antichi e di sempre nuovi roghi, autodafè, genocidi, guerre non dichiarate, putredini di fosse comuni di desaparecidos.
Ora, al reade made catramoso di quegli anni si è sostituita una più raffinata ricerca di oggetti privi di valore, metalli che luccicano nel vano tentativo di imitare l’oro, false pietre preziose dai mille colori. Sono i simboli di una rapacità economica che sembra coinvolgere tutti, chi cercando visibilità e fama, chi il potere della ricchezza. I gingilli esposti sulle bancarelle sono nulla e  non rappresentano nulla, sono il simbolo di una fiera del vano verso la quale tutti sembrano convergere. Pace cattura questi vetrini e li nobilita facendoli diventare oggetto di rappresentazione artistica e, in quanto tali, risultano essere il senso stesso della sua rappresentazione. Essi sono esposti al centro di una tela come se fossero veramente dei preziosi monili o delle collane di diamanti presentate al cliente da un impeccabile gioielliere; diventano pregiati non tanto per il loro valore – forse qualche euro –, quanto perché si trasformano in parte di un’opera d’arte, diventando qualcosa di ben diverso da ciò che sono realmente. Si tratta di piccole banali cose a portata di mano, di lusinghe di un mondo astuto che impacchetta tutto e offre – e si offre – a chiunque. C’è molta rabbia in questi lavori, si intravede una forte critica nel confronti del consumismo, della trasformazione ferocemente capitalistica verso cui ci siamo diretti. Non è un caso che gli sfondi delle opere che costituiscono questa fase della ricerca di Carlo Pace siano tristemente scuri, talvolta drammaticamente macchiati da plumbee, pesantissime gocce di pasta metallica, talvolta occupati da ampie stesure di carta vetrata. Questo materiale, così difficile, così poco duttile, è diventato l’epidermide su cui Pace ha costruito i suoi ultimi lavori. Dapprima la carta vetrata aveva un utilizzo limitato, serviva all’artista per grattare le superfici, per ridurre a altro le campiture di colore che supportavano le sue silenziose costruzioni artistiche. Adesso anche questo materiale, un tempo a esclusivo servizio del completamento del lavoro, assurge a una dignità superiore sostituendosi ai tradizionali sfondi dipinti.

Pace inventa una “poetica” della carta vetrata. Per l’autore è decisamente più affascinante questo materiale, quindi il supporto, piuttosto che ciò che si distende sulla superficie. Per questo sia le strisce di smalto fatte colare da un punto facilmente individuabile sulla superficie della carta vetrata, sia qualsiasi altro elemento appoggiato o saldamente attaccato a essa, sono da interpretare solamente come dei dettagli, come dei momenti di sperimentazione che servano a percepire un effetto. Pace sembra chiedersi in continuazione che cosa può accadere quando si deposita uno stesso pigmento su una superficie diversamente trattata. Egli agisce violentemente sul supporto, graffiandolo, scavandolo, cercando l’eliminazione di uno strato per sostituirlo con un simulacro cromatico. L’effetto è terribile nella sua forza dinamica, si assiste all’affermazione sulla scena di un protagonista di “secondo piano” al quale spettava un più banale e oscuro compito caratterizzante. È il supporto che trionfa nella sua ruvida bellezza, nella sua tattilità incontenibile, nella sua trasparenza minerale. La carta vetrata di Pace sembra diventare parte di una preparazione alla pittura, una sorta di arriccio ben visibile sul quale l’artista crea contemporaneamente sinopia e affresco, un modo per cogliere la realtà del mondo che supera il più tradizionale meccanismo ottico della percezione. Pace cattura la visione di un’emozione, cattura l’immagine di una vita vissuta nella convinzione che l’infinito è ora.

Madre Terra - Collana su carta vetrata è forse uno dei dipinti più inquietanti di tutta la produzione di Carlo Pace, un’opera che sembra essere stata fatta per crearne la difficile accettazione da parte dell’osservatore. È un lavoro dal quale emerge una personale, sociale e culturale carica di insicurezza, alla quale si contrappone una compiuta e fortissima sicurezza artistica. È un lavoro che sembra infrangere tutte le norme della pittura, che si colloca al di là di ogni convenzione, una sorta di punto di approdo in una terra sconosciuta.
Madre Terra - Collana su carta vetrata è un’esplosione di pessimismo che scoperchia una specie di vaso di Pandora che libera i demoni dell’inconscio di un uomo, insieme a un certo numero di temi che hanno lacerato l’arte occidentale degli ultimi cinquant’anni. È un dipinto ansiogeno che trasmette la paura che qualcosa di sconvolgente possa uscire all’esterno. Di fatto, ciò che è stato realizzato da Pace altro non è che la stilizzazione del sesso femminile, che ha un illustre precedente nella tela di Courbet L’origine del mondo, ora al Museo d’Orsay.
Carlo Pace realizza un’opera veramente “oscena”, nel senso dato da Umberto Galimberti nel suo saggio dal titolo “Il corpo”, il quale, forzandone l’incerta etimologia, fa derivare il termine dal latino “obscaenus”, cioè “per la scena”. Qui, infatti, la fenditura messa in scena diventa carnale, diventa l’elemento femminile e può essere interpretato come una spaccatura tellurica, con chiaro riferimento alla Madre Terra. 
L’inquietudine erotica che aleggia sull’opera è palpabile. Essa induce quasi a levare lo sguardo nel tentativo di evitarne l’imbarazzo. È un lavoro instabile che condensa la grandiosità dell’arte antica e primitiva, rappresentando l’immagine chiave della coscienza umana.
Madre Terra - Collana su carta vetrata esprime una disperazione definitiva, poiché l’arte sembra non avere una dimensione stabile, la figura non esiste più, se non evocata attraverso dei simboli, quei simboli che si trovano gettati come cianfrusaglie sui banchetti dei mercatini rionali. Madre Terra - Collana su carta vetrata è paradosso di una condizione.

Probabilmente ci troviamo ancora di fronte a una fase conclusa. Che cosa succederà dopo? “La pittura è la celebrazione dell’uomo nella materia. Pittura vuol dire trasmettere l’intero corpo dell’uomo, membra viscere cuore...” affermava Toti Scialoia in uno scritto del 1957, che concludeva: “Appunto: trasmettere il proprio corpo, cioè la condizione unica del proprio esistere, con l’azione del dipingere; l’atto di amare, modificare, incidere, frantumare, premere, schiacciare. Penetrare il grembo di.”
Queste parole inquadrano perfettamente la personale ricerca di Carlo Pace, una ricerca condotta con generosità, fino allo sfinimento, fino a toccare il limite, la pelle delle cose che ama, rendendo impossibile rispondere alla domanda iniziale. Infatti, qualsiasi risposta dimostrerebbe l’incapacità di comprendere ciò che è Carlo Pace.

lunedì 14 gennaio 2013

enrico colombotto rosso: la bellezza dell'incubo

LA BELLEZZA DELL’INCUBO. Riflessione sulla pittura di Enrico Colombotto Rosso.


J’aime l’horreur d’être vierge et je veux
Vivre parmi l’effroi que me font mes cheveux…
Stéphane Mallarmé, Hérodiade.

Non c’è dubbio che esso appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore…
Sigmund Freud, il Perturbante.

Una bellezza naturale è una cosa bella, la bellezza artistica è una bella rappresentazione di una cosa.
Immanuel Kant, Critica del Giudizio.

C’è qualcosa di straordinariamente bello nella pittura di Enrico Colombotto Rosso. Credo che in un’affermazione del genere si possa riassumere totalmente il senso profondo del lavoro di questo artista. Eppure, riflettendo sulle sue immagini, si viene travolti da un vortice che trascina in un mondo parallelo, terribile nella sua essenza, carico di una bellezza deforme che travalica il normale canone estetico, per approdare infine in una tranquillità simile a quella che ti accarezza dopo esserti svegliato da un incubo.
Molti non capiscono che Enrico Colombotto Rosso non è latore di un sogno, egli è profondamente calato nel reale, poiché sa mostrarti il lato oscuro delle cose, sa farti vedere ciò che non sai – o non vuoi – osservare. Ciò che egli ritrae con forza, è un individuo spellato, un individuo oppresso dal mondo industriale, calato all’interno di città immense percorse da folle anonime. Al silenzio di certi suoi personaggi, concentrati in un’intimità disarmante, si contrappone l’orrore dell’urlo, un misto di rabbia e di dolore che attanaglia le viscere e ti fa compiere dei movimenti scomposti, tentativi vani di uscire da una situazione dannata alla quale non riesci a abituarti.
Ricordo una foto di Mario Tazzoli nella quale Enrico Colombotto Rosso è a Palermo nella Catacomba dei Cappuccini. È uno scatto significativo che serve a comprendere l’estetica alla base di questa pittura. Enrico è sovrastato dall’orrore di questi scheletri che sembrano osservarlo con le loro orbite vuote. Ma a questa situazione egli risponde con distacco, rimanendo indifferente, immerso sulla meditazione che gli permetterà di ritrarre l’orrore mantenendo la necessaria lucidità per non farsene coinvolgere. Sigmund Freud nel suo saggio sul perturbante ci fa comprendere che perturbante è qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e invece è (ri)affiorato. In rapporto antitetico alla tranquillità, perturbante è tutto ciò che le è contrario, e la pittura di Colombotto Rosso, con la sua carica simbolica, densa di cultura, di elementi musicali e citazioni letterarie, anche per chi non la osserva con superficialità, è perturbante. Ma questo è solo un aspetto, forse quello più immediato e, pur non essendo narrativa, la sua pittura  appare di una ricchezza enorme, una ricchezza che emerge preziosa e luminosa.
È un fenomeno tipico della nostra natura di esseri umani che ci attragga ciò che è triste, terribile e orrendo. Esso ci attira con un fascino irresistibile e, come scrisse Schiller, dalle scene di dolore e di terrore ci sentiamo respinti e attratti con pari forza. Per questo ci soffermiamo di fronte a questi straordinari lavori, immaginando che su quelle tele possa prendere corpo l’equivalente di un nostro “ritratto di Dorian Gray” che “ora per ora, settimana per settimana, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l’orrore del peccato, ma l’orrore dell’età l’attendeva. Le guance sarebbero diventate cave o cascanti, rughe gialle si sarebbero incise intorno agli occhi senza scintilla rendendoli ripugnanti. I capelli avrebbero perso il loro fulgore, la bocca sarebbe divenuta larga o cadente, sciocca o volgare, come sono certe bocche…
Il corpo è mostrato da Enrico Colombotto Rosso nella sua totalità, in modo anticlassico, ossuto e distorto. Eppure la rappresentazione del corpo, spesso nella sua nudità e così apparentemente disarticolato, è sottolineata da un tratto morbido che, forse, intende trasmettere l’idea di un tentativo di avvicinarsi alla vita libera, mostrata nella sua più completa verità e senza costrizioni. I suoi esseri umani non sono descrizioni di “situazioni concrete”, ma simboli di una natura elementare e eterna, una descrizione dell’effimero che c’è nell’esistenza umana.
Queste opere, però, non sono un resoconto di vita, non vogliono collocare l’uomo all’interno di una sfera eroica e autocelebrativa, ma si traducono in uno scavo psicologico impietoso e duro, in uno straniamento e in un isolamento di sofferenza. Le fisionomie contratte e deformate in uno spasmo terrificante, gli occhi fissi o terrorizzati, una tavolozza ridotta all’essenziale contribuiscono a dare il senso dello smarrimento, perché questi ritratti si elevano al di sopra del loro valore individuale per assumere un significato universale.

lunedì 7 gennaio 2013

giovanni bonardi e l'antico

INTERPRETARE L’ANTICO
Torniamo all’antico, sarà un progresso.
Giuseppe Verdi

…Ma ecco l’opera che più mi preme,
lavorata con più cura e più anima…
Costantino Kavafis

Porsi di fronte alla produzione artistica di Giovanni Bonardi significa entrare in contatto con qualcosa che sembra non appartenere a nessun tempo, che, pur ispirandosi a precise suggestioni che hanno a che fare con la Storia dell’Arte, sembra fluttuare attraverso i secoli, trasformando se stessa in un elemento perennemente contemporaneo. Il modo di agire dell’artista, infatti, è regolato da cadenze che paiono ripetere una gestualità che potrebbe essere di qualsiasi epoca, dall’antichità alla più aggiornata contemporaneità.
I lavori di Bonardi emergono nella nostra immaginazione, come quei preziosi reperti archeologici che talvolta ci vengono restituiti dal mare o dalla terra. Per questo, nella sua attività plastica, assumono un preciso valore estetico il frammento, il bronzetto, oppure la terracotta, manufatti che maggiormente caratterizzano l’attività artistica di Bonardi. In essi si percepisce il particolare rapporto di ammirazione che lega quel tipo di oggetto a una personale visione dell’antico, una visione che, chiaramente, è da considerarsi poco più che una suggestione, un sogno, simile a quello evocato dai versi di Costantino Kavafis. È un rapporto di totale devozione, di accettazione di una bellezza che travalica il piano prettamente umano per divenire eterna entro una sorta di idealità divina. Inoltre, come Kavafis, Bonardi si richiama ai modi più pieni dell’Ellenismo, a quel momento di rielaborazione nel quale l’arte classica entra in crisi e si trasforma in qualcosa di sostanzialmente differente. Si ottiene un prodotto estremamente raffinato, nel quale l’immobilità divina viene meno a vantaggio di una più organica descrizione dionisiaca della vita. È in questo senso che devono essere percepite le trasfigurazioni che Bonardi opera sui suoi soggetti. I corpi umani, per esempio, sono il supporto per dei piccoli brani di virtuosismo che si mimetizzano nelle loro forme. Infatti, porzioni di superfici epidermiche sembrano sciogliersi in casuali aggregazioni di materia che, però, non sono tali e nascondono impressionistiche scene di paesaggio o di genere, scene che offrono all’artista l’opportunità di dare l’enigmatico titolo alle sue opere.
Su quei volti, su quei corpi, sui frammenti realizzati da Bonardi, si deposita una sottile patina polverosa. Essa rappresenta l’azione del tempo, anticipa la sottile ossidazione dei metalli, e, nello stesso tempo, sottolinea l’eternità di quella stessa scultura dalla quale trae ispirazione per il suo lavoro. La forma compie così un’ulteriore metamorfosi accentuando quel senso di smarrimento che proviamo di fronte a quella bellezza che, scomparsa per secoli, riaffiora per tornare a essere condivisa. L’eleganza misteriosa di quei tratti ci fa percepire un attimo di quell’ineffabile felicità che, secondo Marc Fumaroli[i], ci riavvicina agli antichi facendoci comprendere l’ormai dimenticato significato di otium.
La presenza delle Muse che circondano Apollo ci introduce in una sorta di santuario delle arti che si chiude alle nostre spalle. Siamo immersi in un silenzio profondo, nella rispettosa meditazione alla quale dobbiamo soggiacere nel momento in cui ci troviamo di fronte a una manifestazione del sacro. Bonardi risolve questo enigma dando all’ispirazione, a quell’impulso irrazionale o fortuito diretto verso la formulazione di un prodotto artistico, – allegoricamente rappresentata dalle Muse – una valenza aerea, collocando le effigi di queste divinità su delle tele che fluttuano nello spazio e si oppongono alla concretezza materica della statua di Apollo. Anche il tratto pittorico di queste tele è volatile, risolto con una tavolozza ridotta, quasi a ribadire la peculiarità scultorea dell’opera di Bonardi.
Giovanni Bonardi, quindi,  non dimentica le lezioni degli antichi maestri, scultori, pittori o poeti. Egli ne trasforma i simboli, ne rielabora i modi ottenendo qualcosa che appartiene alla realtà dei nostri giorni. Non si limita a citare, il suo apparto è convincente e prezioso, è quasi come se penetrasse a fondo nelle esperienze che si sono accumulate attraverso migliaia di opere e estrapolasse dei contenuti che individuano il senso di un determinato lavoro.
È chiaro che di primo acchito, di fronte all’opera di Bonardi, si è portati a cercare la citazione, a individuare un riferimento, ciò che appartiene alla memoria, ciò che sembra determinare piuttosto che essere determinante. Bonardi – e qui risiede il senso della sua arte – rivive il passato, è egli stesso fatto di passato, di un passato che non è morto ma che vive come esperienza creativa.


[i] Marc Fumaroli, Paris-New York et retour. Voyage dans les arts et les images. Librarie Arthème Fayard, Paris, 2009.