domenica 20 gennaio 2013

carlo pace: l'estetica del ruvido

La ruvida carezza della carta vetrata


Il compito  dell’arte nei valori sociali, morali e spirituali è nullo.
L’artista interviene nella società a mantenere viva la ragione di essere uomo.
Lucio Fontana

Lo studio di Carlo Pace si trova nel centro storico di Alessandria. C’è silenzio nel cortile sul quale si affaccia la porta del suo laboratorio. Due stanze che odorano di solvente, centinaia di quadri variamente datati, dagli anni Cinquanta a oggi. Sul tavolo un lavoro in divenire, appoggiati alla spalliera del divano altre due opere concluse da poco. Dalla radio escono le note di una canzone.
Ti giri intorno e guardi l’accumularsi dell’esperienza pittorica di uno sperimentatore, la rappresentazione dell’inquietudine di un uomo che ha costruito con il suo lavoro di artista la propria esistenza. Carlo Pace racconta di come nascono certe sue intuizioni, afferma che talvolta lo sorprendono mentre sta per addormentarsi, e lui le segue fino a afferrarle e a trasformarle in quello che vediamo, in opere che per la complessità del gesto creativo sarebbe limitativo definirle solo “pitture”.
Per questo l’evoluzione del discorso artistico di Pace è fatta di accelerazioni improvvise, di trasformazioni repentine che talvolta sorprendono. Eppure, ogni volta che comincia a definirsi una nuova serie di lavori c’è sempre un collegamento con qualcosa che lo ha preceduto, si intuisce sempre un riferimento a un momento più o meno preciso del precorso culturale di Carlo Pace. Nulla è casuale, scavando appena ecco affiorare la radice cui si attacca il ramo della nuova idea.
Carlo Pace ha più di cinquant’anni di esperienza alle spalle, ha conosciuto critici e artisti che gli hanno parlato e gli hanno fornito i presupposti della sua specificità di operatore d’arte. Egli si avvale di una notevole forza che gli ha permesso di mettersi sempre in discussione e di osservare come si muoveva – e si muove – il mondo dell’arte. Ciò che si è determinato è un qualcosa di particolarmente intenso, di vigoroso, costruito sul piano della ricerca e di una coerenza formale che in ben pochi della sua generazione hanno saputo mantenere.

Negli anni Settanta Carlo Pace realizzò una serie di piccoli lavori, delle tavole quadrate di quaranta centimetri di lato. La struttura di quasi tutti quei manufatti presentava una sezione  centrale ricavata attraverso l’incisione del legno con sgorbie. Ciò che si determinava era uno spazio liquido, dai limiti non regolari, trattenuto da bordi levigati che limitavano l’espandersi dinamico della struttura più interna. I pigmenti che si stendevano a coprire la superficie di ogni singola “formella” variavano, dal grigio antracite al giallo squillante, a volte mischiati, a volte drammaticamente solitari. Ma l’azione del pittore non si limitava soltanto alla stesura del pigmento, spesso unito a collanti che ispessivano la materia rendendola durissima, simile a un’ambra perlacea; egli concludeva l’operazione grattando la superficie con un foglio di carta vetrata, asportando e ridistribuendo i colori per creare un effetto particolare, un effetto atmosferico di erosione.
La serie di opere, percepite in rapida sequenza, dimostra la bontà di un’operazione che mischia gesti che appartengono alla scultura – l’utilizzo di una sgorbia e la piallatura con la certa vetrata – a esiti che non possono che essere considerati pittorici. L’artista si mette a completa disposizione dell’arte, accetta la sfida con un materiale che lo costringe a compiere un’operazione di trasformazione che gli permette di contenere la forza dirompente della pittura accettandone i limiti. Ciò che si determina è una visione primordiale, un tuffo nel liquido amniotico che costringe l’osservatore a fare i conti con la sua origine di essere vivente. È, in fondo, una percezione degli inizi della propria esistenza, il ricordo di quel viaggio finalizzato alla costruzione dell’anima del quale restano pochi frammenti cristallizzati nella memoria di ogni pensante. Pace ci invita a osservare delle forme che esplodono di fronte ai nostri occhi non ancora abituati a percepire la realtà, quella realtà che si manifesterà in tutta la sua crudezza nel momento in cui, abituati alla semioscurità trasparente del ventre materno, avremo la percezione della luce esterna.
Marisa Vescovo, nel febbraio 1974, scrisse:
...i nuovi lavori di Pace rinunciano radicalmente alle preziosità visive tipiche della tradizione romantico-impressionista, si sottraggono al gioco dello spazio “dipinto”, tendendo ad uscire definitivamente dall’illusionismo del quadro come rettangolo-gabbia per le forme e il colore, e pone come primaria l’esigenza espressa da Vladimir Tatlin di realizzare “un vero materiale in un vero spazio”. La frusta bellezza e il parco emergere di un legno, l’opaco e il disagevole porsi di una lastra di eternit o di truciolato, che rivelano spazi di materia libera alternati a spazi di colore, con la loro vivente sostanza, generano un’energia sotterranea che mette in moto i meccanismi della comunicazione. La nota più decisamente allarmante, spia di una situazione psicologica di segno vitalmente negativo, sono quei fori che si aprono come piaghe allarmanti nel legno ancora grezzo, incandescenti cicatrici lasciate da un fuoco esistenziale che corrode incessantemente, dizioni torturate della materia che agglutinano in quei ciechi occhi di vuoto ombre e resti di vampe antiche, luci effimere proiettanti rilievi squamati e accidentati in un’affabulante corsa a ritroso nel tempo e nello spazio...
la necessità di tagliare, di bucare, di bruciare, ubbidisce al desiderio di rompere definitivamente il piano del quadro, come se la materia portata al limite ultimo della rarefazione volesse recuperare attraverso quell’”incidente” penoso il senso più autentico ad abbrividente della propria verità di esistere.

Gli ultimi lavori, quelli realizzati a partire dal tardo autunno del 2007, pur collocandosi in diretta continuazione con le recenti cuciture policrome, sembrano derivare in modo più marcato da quei piccoli manufatti realizzati negli anni Settanta. Però, considerare solo le “formelle” ’70 quali unici riferimenti a questi lavori si commetterebbe un grave errore. In effetti, la centralità dell’elemento su cui si imposta l’atto creativo riporta anche alla realizzazione delle “Spine dorsali” – forse la fase artistica più importante di Carlo Pace –, molte di queste create negli anni Settanta, straordinarie costruzioni archeologiche, strutture che affiorano dalle nebbie di un passato lontanissimo come elementi fossilizzati di vite organiche precedenti. Le Spine dorsali trasmettono dolore e inquietudine, sono scheletri che emergono in uno spazio pieno di cattiveria e di sporcizia, uno spazio che tende a contaminare, a inquinare anche la purezza dell’assoluto.
Dino Molinari, nel 2003, a proposito delle Spine dorsali, ha scritto:
...le Spine dorsali, nere, beige, su fondo sporco, tutte del 1975, sono pale d’altare, simboli di tortura e di martirio, di antiche e di nuove persecuzioni, di antichi e di sempre nuovi roghi, autodafè, genocidi, guerre non dichiarate, putredini di fosse comuni di desaparecidos.
Ora, al reade made catramoso di quegli anni si è sostituita una più raffinata ricerca di oggetti privi di valore, metalli che luccicano nel vano tentativo di imitare l’oro, false pietre preziose dai mille colori. Sono i simboli di una rapacità economica che sembra coinvolgere tutti, chi cercando visibilità e fama, chi il potere della ricchezza. I gingilli esposti sulle bancarelle sono nulla e  non rappresentano nulla, sono il simbolo di una fiera del vano verso la quale tutti sembrano convergere. Pace cattura questi vetrini e li nobilita facendoli diventare oggetto di rappresentazione artistica e, in quanto tali, risultano essere il senso stesso della sua rappresentazione. Essi sono esposti al centro di una tela come se fossero veramente dei preziosi monili o delle collane di diamanti presentate al cliente da un impeccabile gioielliere; diventano pregiati non tanto per il loro valore – forse qualche euro –, quanto perché si trasformano in parte di un’opera d’arte, diventando qualcosa di ben diverso da ciò che sono realmente. Si tratta di piccole banali cose a portata di mano, di lusinghe di un mondo astuto che impacchetta tutto e offre – e si offre – a chiunque. C’è molta rabbia in questi lavori, si intravede una forte critica nel confronti del consumismo, della trasformazione ferocemente capitalistica verso cui ci siamo diretti. Non è un caso che gli sfondi delle opere che costituiscono questa fase della ricerca di Carlo Pace siano tristemente scuri, talvolta drammaticamente macchiati da plumbee, pesantissime gocce di pasta metallica, talvolta occupati da ampie stesure di carta vetrata. Questo materiale, così difficile, così poco duttile, è diventato l’epidermide su cui Pace ha costruito i suoi ultimi lavori. Dapprima la carta vetrata aveva un utilizzo limitato, serviva all’artista per grattare le superfici, per ridurre a altro le campiture di colore che supportavano le sue silenziose costruzioni artistiche. Adesso anche questo materiale, un tempo a esclusivo servizio del completamento del lavoro, assurge a una dignità superiore sostituendosi ai tradizionali sfondi dipinti.

Pace inventa una “poetica” della carta vetrata. Per l’autore è decisamente più affascinante questo materiale, quindi il supporto, piuttosto che ciò che si distende sulla superficie. Per questo sia le strisce di smalto fatte colare da un punto facilmente individuabile sulla superficie della carta vetrata, sia qualsiasi altro elemento appoggiato o saldamente attaccato a essa, sono da interpretare solamente come dei dettagli, come dei momenti di sperimentazione che servano a percepire un effetto. Pace sembra chiedersi in continuazione che cosa può accadere quando si deposita uno stesso pigmento su una superficie diversamente trattata. Egli agisce violentemente sul supporto, graffiandolo, scavandolo, cercando l’eliminazione di uno strato per sostituirlo con un simulacro cromatico. L’effetto è terribile nella sua forza dinamica, si assiste all’affermazione sulla scena di un protagonista di “secondo piano” al quale spettava un più banale e oscuro compito caratterizzante. È il supporto che trionfa nella sua ruvida bellezza, nella sua tattilità incontenibile, nella sua trasparenza minerale. La carta vetrata di Pace sembra diventare parte di una preparazione alla pittura, una sorta di arriccio ben visibile sul quale l’artista crea contemporaneamente sinopia e affresco, un modo per cogliere la realtà del mondo che supera il più tradizionale meccanismo ottico della percezione. Pace cattura la visione di un’emozione, cattura l’immagine di una vita vissuta nella convinzione che l’infinito è ora.

Madre Terra - Collana su carta vetrata è forse uno dei dipinti più inquietanti di tutta la produzione di Carlo Pace, un’opera che sembra essere stata fatta per crearne la difficile accettazione da parte dell’osservatore. È un lavoro dal quale emerge una personale, sociale e culturale carica di insicurezza, alla quale si contrappone una compiuta e fortissima sicurezza artistica. È un lavoro che sembra infrangere tutte le norme della pittura, che si colloca al di là di ogni convenzione, una sorta di punto di approdo in una terra sconosciuta.
Madre Terra - Collana su carta vetrata è un’esplosione di pessimismo che scoperchia una specie di vaso di Pandora che libera i demoni dell’inconscio di un uomo, insieme a un certo numero di temi che hanno lacerato l’arte occidentale degli ultimi cinquant’anni. È un dipinto ansiogeno che trasmette la paura che qualcosa di sconvolgente possa uscire all’esterno. Di fatto, ciò che è stato realizzato da Pace altro non è che la stilizzazione del sesso femminile, che ha un illustre precedente nella tela di Courbet L’origine del mondo, ora al Museo d’Orsay.
Carlo Pace realizza un’opera veramente “oscena”, nel senso dato da Umberto Galimberti nel suo saggio dal titolo “Il corpo”, il quale, forzandone l’incerta etimologia, fa derivare il termine dal latino “obscaenus”, cioè “per la scena”. Qui, infatti, la fenditura messa in scena diventa carnale, diventa l’elemento femminile e può essere interpretato come una spaccatura tellurica, con chiaro riferimento alla Madre Terra. 
L’inquietudine erotica che aleggia sull’opera è palpabile. Essa induce quasi a levare lo sguardo nel tentativo di evitarne l’imbarazzo. È un lavoro instabile che condensa la grandiosità dell’arte antica e primitiva, rappresentando l’immagine chiave della coscienza umana.
Madre Terra - Collana su carta vetrata esprime una disperazione definitiva, poiché l’arte sembra non avere una dimensione stabile, la figura non esiste più, se non evocata attraverso dei simboli, quei simboli che si trovano gettati come cianfrusaglie sui banchetti dei mercatini rionali. Madre Terra - Collana su carta vetrata è paradosso di una condizione.

Probabilmente ci troviamo ancora di fronte a una fase conclusa. Che cosa succederà dopo? “La pittura è la celebrazione dell’uomo nella materia. Pittura vuol dire trasmettere l’intero corpo dell’uomo, membra viscere cuore...” affermava Toti Scialoia in uno scritto del 1957, che concludeva: “Appunto: trasmettere il proprio corpo, cioè la condizione unica del proprio esistere, con l’azione del dipingere; l’atto di amare, modificare, incidere, frantumare, premere, schiacciare. Penetrare il grembo di.”
Queste parole inquadrano perfettamente la personale ricerca di Carlo Pace, una ricerca condotta con generosità, fino allo sfinimento, fino a toccare il limite, la pelle delle cose che ama, rendendo impossibile rispondere alla domanda iniziale. Infatti, qualsiasi risposta dimostrerebbe l’incapacità di comprendere ciò che è Carlo Pace.

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