venerdì 30 novembre 2012

il tanaro a masio di vittore fossati (libro fotografico)

Si intitola “Il Tanaro a Masio” questo libro corredato da uno scritto di Matteo Terzaghi che presenta una serie di scatti di Vittore Fossati. Si tratta di fotografie realizzate nell’arco di un paio di anni, in vari momenti, proprio nei pressi di Masio, a ridosso del percorso del Tanaro.
Sono foto legate alla cosiddetta “estetica dell’impassibilità”, in cui sembra prendere corpo l’apparente distacco emotivo del fotografo a vantaggio di un totale controllo del mezzo. Questo tipo di fotografie si mostra particolarmente leggibile, i soggetti sono facilmente riconoscibili trattandosi, come in questo caso, di luoghi che appartengono alla quotidianità. Ma, affermare di risolvere esteticamente una serie come questa, pensando di paragonare le nostre sensazioni a quelle del fotografo, non è il sistema più efficace per capire il significato delle immagini.
Le fotografie di Fossati devono essere studiate pensando di portarsi al di là di una prospettiva individuale, devono essere prese in considerazione cercando di rilevare l’estendersi “energetico” di esse oltre al semplice punto di vista umano, per interagire anche con quello naturale, chiaramente più difficile da individuare. La fotografia di Fossati è assai precisa nella descrizione del soggetto, ma spiazza per la sua neutralità, per la sua completezza, dando a quelle immagini un valore assoluto, al di fuori di qualsiasi indicazione cronologica. Il fiume è sempre stato, quella stessa veduta poteva essere percepita mille anni addietro, e per questo si può comprendere la dimensione epica di un lavoro del genere.
La fotografia di Fossati è oggettiva, con una freschezza che offre emozionalmente l’informazione visiva nella sua totalità. Le aree fluviali sono selvagge, coperte dalla vegetazione spontanea. L’azione dell’uomo è lontanissima e, a parte il taglio di un tronco o il solco della ruota di un mezzo meccanico, il posto non risulta condizionato da nient’altro se non dalla natura. Fossati insiste sulle condizioni del posto, su come le stagioni impongano luminosità differenti sullo spazio e come piccoli elementi , ciò che il fotografo individua come “incidenti”, siano alla base di costruzioni di architetture allegoriche che identificano e rendono le sue fotografie spunti di riflessione unici e straordinari. La serie “Il Tanaro a Masio” risponde al tipico metodo di lavoro di Fossati. Egli si muove nella campagna dedicando parte del suo tempo alla ricerca visiva, diventando sensibile ai cambiamenti di stato dei luoghi durante il corso del progetto. Ogni fotografia comunica la meraviglia di avvicinarsi al luogo su cui si incentra la ricerca e a percepirlo come se fosse la prima volta che lo si vede.
La produzione di Fossati si colloca all’avanguardia delle esigenze artistiche della fotografia contemporanea. Al pari di artisti come Thomas Struth o Lukas Jasansky o del coreano Boo Moon, i suoi soggetti spaziano all’interno di un repertorio che ha come protagonista il paesaggio. L’atteggiamento è oggettivante e si pone in un’ottica di comunicazione che, oltre a assumere delle precise connotazioni estetiche, talvolta, evoca le implicazioni ecologiche cui è sottoposto l’ambiente.

piero mega a castellazzo (Limes)

RIFLETTERE SUL LIMITE

La miglior cosa sarebbe scrivere gli avvenimenti giorno per giorno.
Jean-Paul Sartre, La Nausea.

Tra l’universale e il particolare non si interpone filosoficamente
 nessun elemento intermedio, nessuna serie di generi o di specie.
Benedetto Croce, Breviario di Estetica.

Il mondo non è il nostro mondo, neanche potenzialmente.
Può essere parzialmente o largamente incomprensibile
per noi, non solo perché ci mancano il tempo e la capacità
 tecnica di acquisire una completa comprensione di esso, ma
 a causa della nostra natura. L’idealismo, la visione per cui quello
che esiste nel senso più ampio deve essere identificato
 con quello che è pensabile da noi nel senso più
 ampio, è un tentativo di ridurre la grandezza dell’universo.
Thomas Nagel, Uno sguardo da nessun luogo.

Le fotografie scattate da  Sammy Paravan [i] riescono a cogliere l’aspetto fondamentale dell’arte di Piero di Mega. Esse permettono all’occhio di appropriarsi della forza della materia con la quale l’artista tortonese realizza  questi lavori. L’azione pittorico/gestuale di Mega è quella di tracciare un sistema di pigmenti che riescono a farci intuire una possibile soluzione ordinata a fronte di una situazione di confusione magmatica iniziale. In effetti, il senso più profondo di questa fase creativa di Mega è quella di dare un’interpretazione della realtà che ci circonda al termine di una riflessione filosofica, di illustrare con i mezzi che gli sono propri lo sviluppo di un pensiero, di cercare, attraverso il riferimento alle teorie opportune, di spiegare quel cambiamento che ha dato origine alla vita: ci deve essere stato un momento in cui l’universo era “qualcosa” senza regole, un indefinibile composto di non-materia, e poi, ecco, ci fu la materia. È difficile spiegare che cosa avvenne. Sicuramente alla base ci fu un evento razionale, ricercato dalla fisica ma attualmente non ancora provato. I filosofi presocratici provarono a spiegare ciò che avvenne e parlarono di due momenti distinti: il kaos, per indicare lo stato di disordine iniziale, la mescolanza di tutti gli elementi  precedente l’ordine, cioè il  kosmos, appunto il secondo momento. Fu anche attraverso il mito che si diedero delle risposte, indicando generalmente la volontà di un’entità superiore come principio delle cose.
Mega traduce nelle sue opere questo misterioso accadimento tracciando un orizzonte. La linea che taglia lo spazio dividendo la terra dall’aria, o l’acqua dal fuoco, è il primo segno nel quale percepiamo un ordinamento dell’universo. Immediatamente, però, ecco che si crea un confine, un limite, qualcosa che pone una regola, un concetto che Mega identifica con il termine latino LIMES. È un paesaggio da “alba della creazione” quello che si vede, l’azione ordinatrice non si è ancora conclusa e miliardi di frammenti di luce stanno fluttuando nelle due porzioni di spazio controllate pittoricamente da Mega. È una sensazione strana quella che ci afferra nel momento in cui ci si pone a contatto con questi lavori, una sensazione quasi avvolgente, un ritorno indietro verso ciò che ci portiamo dentro e che per qualche istante riusciamo a intuire.
Il LIMES però nasce come limitazione[ii]. Per contro, anche se potrebbe sembrare un’affermazione inopportuna che rasenta la provocazione, il caos rappresenta la libertà assoluta, svincolata da qualsiasi schema. L’ordine è costrizione, è etica. L’ordine impone il punto di vista, ci dà i principi della catalogazione e della gerarchizzazione. L’ordine è una grande gabbia nella quale ci si riesce a muovere con una certa autonomia. Mega, per completare in modo più chiaro la sua opera, inserisce in alcuni dei suoi lavori dei limiti fisici per simbolizzare il confine imposto. Con questi ottiene delle superfici regolari che affiorano prospetticamente dal rosso argilloso di un composto che mischia colle e pigmenti alla terra della Frascheta, l’area pianeggiante che si estende tra Alessandria e Tortona. Un ready-made di oggetti recuperati dagli scarti dai cantieri sparsi ai confini della città completa l’opera. Tutto appare più triste rispetto all’azione in divenire dei lavori cosmologici, lo spazio è condizionato da un monocromo ossessivo, un deserto da fine del mondo, un vuoto marziano dominato da una sorta di tomba.
Quelle citate, proposte a coppie, sono opere che devono essere pensate come complementari, anche se così apparentemente lontane. Esse, sempre legate tra loro,  sembrano porsi come Alfa e Omega, come principio e fine, come i due punti definitivi al di là dei quali non si può andare. Esse sono il confine, la sua sublimazione, l’allegoria dell’unica certezza, quella del corso della vita compresa tra la nascita e la morte, che ha ogni vivente. Sono i due punti che pongono i limiti alla linea dell’esistenza, il cui  senso può essere spiegato soltanto dalla filosofia. Un compito importante per questa disciplina. Centinaia di idee, di intuizioni che vogliono arrivare alla verità, una ridda di nomi che con il loro lavoro hanno cercato di squarciare il fitto velo che ci isola all’interno di un sistema complesso. Due poli: Atene e Berlino, i luoghi che sono stati capaci di creare le basi del pensiero occidentale. Cartigli che ricordano i principali filosofi si susseguono su una struttura che sembra la Via Lattea, esplosioni di intuito che hanno brillato per la serietà dei loro discorsi, che hanno cercato di spiegarci la loro verità. Forse è solo una mappa, più probabilmente un terreno di confronto sul quale dobbiamo muoverci per comprendere l’arte di Piero Mega.


[i] Catalogo della mostra Piero Mega Limes, Palazzo Salmatoris, Cherasco, 23 giugno-15 luglio 2012. Le foto in questione,  si incentrano sulla descrizione macroscopica di alcuni particolari delle opere esposte durante la rassegna, particolari che documentano soprattutto l’aspetto tecnico, estremamente materico, del più recente lavoro di Mega.

[ii] Il termine italiano limite, infatti, deriva dall’accusativo della parola latina limes (limitem), forse di origine indoeuropea, e ha mantenuto l’originario significato di confine.

mercoledì 28 novembre 2012

nadir montagnana a palazzo cuttica di alessandria

Nadir Montagnana è un artista la cui opera ha sempre suscitato curiosità e interesse. Egli ha proceduto attraverso un lavoro meticoloso, carico di attenzione che lo ha condotto a ottenere un marchio particolare, immediatamente riconoscibile nella sua unicità. La mostra di Palazzo Cuttica è l’esplicitazione di questa attività, un’attività che si incentra sull’analisi di un paesaggio spirituale studiato e ripetuto cezannianamente attraverso gli esiti di due linguaggi, uno calcografico e l’altro “pittorico”.
La calcografia è una tecnica di stampa che utilizza delle lastre, generalmente di rame, incise a incavo, in cui l’inchiostra viene ritenuto nei solchi. In esse, opere in eterno divenire, si rincorrono le sensazioni di aver individuato delle figure note, una staccionata sperduta tra i prati, un’area rocciosa che sembra schiacciata dalla tensione combusta, una traccia di strada che si addentra nell’orizzonte. Dallo sfondo giungono cromie contrastanti: un denso fumo bluastro o un caldo giallo zafferano che si combinano evocando la stessa grana sabbiosa di certa pittura astratto-materica. Il disporsi degli elementi procede attraverso la regolazione di assi che “trasportano” le strutture all’interno dello spazio rappresentato.
Quello che abbiamo di fronte è dunque un paesaggio che si pone come una sorta di evoluzione della sperimentazione pittorica, acida e tagliente, delle stoffe. In questo caso l’atteggiamento di Montagnana si concentra sulla disposizione del colore che viene “tirato” su scampoli di tessuto, ottenendo una controllata struttura paesaggistica. A mio avviso, l’ibridazione tecnica adoperata dall’artista non permette di identificare queste opere come pittoriche tout court, ma la capacità di dosare gli spazi e le cromie ci parlano di un linguaggio che si richiama a una percezione tonale nella quale l’essenza pittorica è imprescindibile.
Questo discorso lascia intendere, anzi rafforza, una stretta affinità tutta interna ai lavori di Montagnana. Infatti, anche nelle opere non calcografiche, il segno è nutrito da una filigrana sottile che non copre interamente le superfici, ma si limita, in genere, a agire sulla zona centrale dell’opera, come una ragnatela che si espande e determina profonde increspature. L’idea fondamentale è quella di offrire una sintetica riproduzione di paesaggio nel quale si percepiscono, anche in questo caso, delle figure note. Esse, però, insistono su una visione della natura più religiosa (termine da intendere nel suo significato etimologico, cioè relativo al raccogliere) e irrazionale. In questo modo emerge per Montagnana un concetto estetico che si richiama a modelli naturalistici e non si appoggia necessariamente su mezzi pittorici tradizionali. Ovviamente, non ci si trova di fronte a posizioni conservatrici o contrarie alla ricerca contemporanea, ma la radice, in modo più o meno evidente, è quella, la stessa individuabile negli scritti di Arcangeli, che parlando proprio di natura, la poneva al centro di varie forme sensitive e, per questo, pensava potesse essere collocata al centro stesso dell’esistenza.

sculture alla galleria Lara e Rino Costa a Valenza

Dopo un breve periodo di inattività, la Galleria Lara e Rino Costa è ritornata a proporre un’interessante rassegna di sculture. In questo modo i galleristi tornano a ribadire la loro intenzione di proporre artisti raffinati con alle spalle un unanime riconoscimento di critica. La presentazione di questi lavori è estremamente elegante, immersi nelle luce diffusa dello spazio valenzano, capace di esaltare le peculiarità di oggetti a prima vista “non facili”, ma sicuramente dotati di una bellezza intrinseca che li rende ipnotici e convincenti.
È il caso del minimalismo di Giuseppe Spagnulo, il cui parallelepipedo in acciaio modifica la propria forma originaria subendo il risultato di una forza esterna che sembra volerne strappare delle parti, non mancando di mostrare le tracce di questa violenza subita.
Interessante l’esoterico lavoro di Vettor Pisani, lavoro che rimanda ai riti massonici, che invita a prendere coscienza della sottilissima rete di misteriosi segni e allegorie, propri di un linguaggio particolare che contribuisce a creare un discorso simbolico del quale riusciamo a percepire solo uno dei lati delle innumerevoli sfaccettature.
La scultura di Adriano Visintin spicca per l’accentuazione delle forme sinuose che all’interno della rappresentazione dei suoi corpi assumono una notevole importanza. I piccoli spazi vuoti che determinano la percezione delle membrature diventano materia scultorea a pieno titolo e la scultura diventa anche forma dello spazio esterno da cui è compenetrata. In questo senso appare chiara la sua natura di metafora dell’archetipo femminile.
Piero Fogliati è presente con una macchina che attraverso lo sfregamento di molle che si allungano verticalmente verso terra, produce un suono. Esso entra a contatto con lo spazio dilatando la materia tangibile e facendo diventare il suono parte della scultura stessa. Si tratta di qualcosa che va al di là della concezione tradizionale della plastica, determinando un prodotto che ci appare estremamente accattivante nel suo valore intellettualistico.
Umberto Cavenago crea, come afferma Renato Barilli, dei simulacri di oggetti utili, indirizzandoli verso fini ludici, facendoli diventare delle specie di balocchi. I suoi oggetti, infatti, risultano estremamente semplici nella struttura, e, proprio per questo, sono dotati di una forza estetica che si comprende chiaramente solo dopo aver meditato sulla forma che li caratterizza.
Giuseppe Maraniello adopera lo spazio appendendo l’oggetto a un sottile filo che lo rende aereo, fluttuante nell’atmosfera. Il filo diventa così l’asse sul quale si sviluppa la scultura, offrendo una concreta sensazione di leggerezza che permette, in questo caso, alla barca di navigare su un immaginario mare di eternità poetica.
Eliseo Mattiacci è presentato con un lavoro “povero”, successivo allo spazialismo che sembra meglio esaltare le sue capacità estetiche. Giuseppe Uncini è caratterizzato da un valido omaggio “edile”, un frammento di lamina in acciaio su cui sono saldati alcuni tondini nello stesso materiale. È un artefatto che permette la percezione dell’anima del materiale. La flessione della superficie induce alla comprensione di un ricamo nello spazio, all’evidenziazione di quell’ombra che per un attimo corre sulla materia. La mostra è infine completata anche da opere di Carlesso, Enzo Castagno e Emilio Isgrò. 

martedì 27 novembre 2012

Ermanno Barovero a Villa Vidua a Conzano

È un tipo di pittura che sicuramente colpisce l’immaginazione di chi le osserva. Le sale di Villa Vidua, dimora signorile di fine Settecento, si riempiono delle tinte romantiche di Ermanno Barovero, un artista capace di rappresentare l’essenza della natura. Infatti, nella sua pittura c’è qualcosa che sembra appartenere all’estetica del sublime, si intravede la volontà di interpretare un tema che affonda le sue radici nella tradizione pittorica più antica, facendo riferimento a precisi condizionamenti contemporanei. Ne esce una serie di opere dal forte carattere tonale, nelle quali l’elemento naturale si confonde, creando una struttura che emerge su un’affiorante ossatura materica.
Il percorso della mostra è stato organizzato in due sezioni. Un primo gruppo di opere sembra legarsi alla rappresentazione visionaria di sconvolgimenti tellurici da alba del mondo. È il rosso a dominare in queste opere, un rosso che evoca la poesia di rappresentazioni atmosferiche estreme, potenti tramonti che colorano l’aria, che si impongono come fenomeni collocati su spazi senza confini. Lo spazio acquisisce un valore non plastico o pittorico, ma metafisico. Lo spazio è così un valore in sé che appartiene solo vagamente alla natura oggettiva, ma si afferma come esplicitazione di esperienza interiore dell’artista: esso, più che il riflesso, ne è la forma sensibile.
Nessuna figura umana, come nota il curatore Giovanni Cordero, una mancanza meditata che permette allo spazio di dissiparsi, di entrare a contatto con l’abisso, con la lontananza. I quadri di Barovero sono intensamente silenziosi, ma è un silenzio carico di messaggi profetici, come pronunciati da un oracolo. Il messaggio portato dal quadro assume dunque un suo significato più completo se si comprende che la luce, la forma, il colore sono ingredienti che incidono pesantemente sulla connotazione spirituale di questi lavori.
L’altra sezione risulta più pacata, con visioni acquatiche di stagni e di ruscelli. Le metamorfosi subite da questi spazi sono il risultato di una sensibilità dove si ribadisce la tendenza di osservare “l’aperto”, ”l’irregolare”, insomma tutto ciò che rappresenta la libertà vitale dell’acqua. Il movimento leggero che si intuisce osservando questi lavori, è carico di seduzione. Si percepisce un amore per la natura di tipo sensoriale che si impossessa dei dati percettivi amplificandoli, modificandoli. Queste opere fanno intuire la volontà di un ritorno a una realtà che si raggiunge con mezzi prettamente sensoriali. È chiaramente ancora una volta una rappresentazione fortemente soggettiva in cui Barovero prende coscienza di una natura che aiuta l’uomo a compiersi come parte dell’universo.
La pittura di Barovero esalta l’immaginazione, la trascina lontano, in spazi inaccessibili. Il cielo, come l’acqua, le nuvole, la terra sono gli elementi preferiti di questa fase pittorica. Egli è attratto dall’immensità priva di limiti, dalla luminosità atmosferica carica di vapori, percepita con tutti i sensi, per tentare di condurci a contemplare ciò che non può essere descritto.

il castello errante a casale

Il castello errante.
In un certo senso, per me raccontare una storia è sempre una
 sorta di viaggio spirituale, dove però rimani te stesso, cresci,
impari qualcosa e passi al livello successivo. È questo quello che
conta per me. E io lo applico al cinema, come nella vita normale.
Tim Burton

Agisci in modo che ogni tuo atto si degno di diventare un ricordo.
Immanuel Kant

Il castello errante di Howl (ハウルの動く城, Hauru no ugoku shiro) è un film d'animazione giapponese del 2004, diretto da Hayao Miyazaki e prodotto dallo Studio Ghibli. La sceneggiatura è adattata dal romanzo omonimo del 1986 di Diana Wynne Jones, pubblicato in Italia nel 2005 da Kappa Edizioni.
Il film presenta molte delle caratteristiche tipiche delle opere di Miyazaki: ha come protagonista una ragazza, come Nausicaä della valle del vento, La città incantata, Laputa: castello nel cielo e Kiki consegne a domicilio, ed ha un'ambientazione che ricorda nei vestiti e nell'architettura l'Europa degli inizi del Novecento, ma in un mondo in cui è presente la magia. Gli avvenimenti si svolgono in una nazione fantastica che ricorda l'Alsazia degli anni precedenti alla prima guerra mondiale. Molti edifici delle città sono identici a quelli della città alsaziana di Colmar, che Miyazaki ha riconosciuto come fonte di ispirazione per l'ambientazione del film. L'ambientazione che riecheggia la Vienna imperiale dell'800 nonché le automobili e le macchine da guerra volanti che vi si vedono, tutte mosse dalla forza del vapore, caratterizzano l'opera come appartenente al filone steampunk[1].
Il film è stato presentato in concorso alla 61ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, ed è uscito nelle sale italiane il 9 settembre 2005; fra le altre cose, con questo film il maestro ha ottenuto il Leone d'oro alla carriera, risultando l'unico produttore di film d'animazione a conquistare sia l'Oscar che il Leone d'Oro[2].
Non è casuale il fatto che si sia pensato a un titolo che è la palese citazione di un famoso film di animazione. Non è casuale, perché questo film rappresenta un unicum nella storia del cinema, per il fatto che, tra le altre cose, la critica ne ha riconosciuto il valore artistico, “sdoganando”, per così dire, la produzione di film d’animazione giapponese, che fino a allora era ritenuta in modo un po’ snob, priva di qualunque contenuto estetico.
Questa situazione riflette un po’ il destino dell’arte cui lavorano gli autori protagonisti di questa rassegna. Infatti, ci troviamo di fronte a un’esperienza postmoderna che solo da qualche anno è stata accettata come forma d’arte. Essa è però carica di significati, improntata a una fruizione condivisa su supporti che fino a qualche tempo fa erano impensabili come “spazi espositivi”. È solo un caso, proprio come un “castello errante” che essa si fermi in uno spazio pubblico tradizionale: essa si muove a prescindere, essa viene fruita da un numero enorme di persone, proprio come un cartone animato, come un graffito su un vagone di un treno.
Robert Williams, giovane giornalista di Los Angeles, scrivendo qualche anno fa un articolo sulla rivista “Juxtapoz”, ha inventato il termine Lowbrow art per etichettare questo tipo di attività artistica, in opposizione al termine “intellettuale” e per identificare una produzione che nessuna istituzione avrebbe autorizzato a esporre. È un termine che arriva dalla strada, dalla sottocultura punk, assolutamente efficace per definire un surrealismo astratto contaminato da cartoon.
Mai come di fronte a questi argomenti sono assalito da una strana curiosità. Si ha la netta impressione che addentrarsi in questo argomento significhi accedere in una specie di Luna-park. Si deve liberare la mente da ogni categoria estetica tradizionale, pensando di farsi strada seguendo l’evolversi tabulare di un racconto, un po’ come in un fumetto, un racconto che esprime il senso più profondo della loro arte. a un certo punto ci si rende conto che non è un percorso esclusivamente visivo, perché tutti i sensi sono coinvolti nella costruzione del significato della loro arte. Ecco la musica, un ritmo ossessivo di cimbali e tamburi. Voci stentoree di rappers che urlano da altoparlanti evidenziando le contraddizioni di una società che oscilla tra derive rivoluzionarie e l’ostentazione di una malsana opulenza. Un’atmosfera pesante contrasta con i colori sgargianti degli zuccherosi dolcetti. È una sorta di main street circense, un ruvido fondale di legni effimeri assolutamente identico a una scenografia hollywoodiana.
Il Luna-park è l’allegoria di questo modo di fare arte. Esso viene sistematicamente montato e rimontato in modo da creare una struttura labirintica di difficile percorribilità che sembra mescolare città ideali e ucronie. In questi artisti penetra a fondo la volontà di demistificare l’attitudine romantica con la manifestazione di una presenza forte nel mondo. Colori vivaci, semplici, che inevitabilmente richiamano atmosfere underground. Lo spazio è domato e utilizzato con consapevolezza e improvvisazione. Nelle opere c’è un intreccio continuo di street art, pop surrealism  e tradizione. Il linguaggio è essenziale eppure caotico, la figurazione è quasi fumettistica e costruisce comunque una storia.
Gli artisti che espongono in questa mostra appartengono a una generazione che ha assistito, forse anche partecipandovi, a una sorta di “rivoluzione culturale”. Costoro hanno assimilato i  modelli della cultura del consumo, sono cresciuti all’ombra di una certa pubblicità dirompente e invadente; hanno letto i manga; hanno discusso di biotecnologia e cibernetica confrontandosi con i contenuti di certi cartoons nippo/americani; hanno camminato per strade chiuse da muri adoperati come supporto per graffiti urbani di enorme impatto visivo; hanno offerto le loro pelli per tatuaggi e piercing.
Di fronte a queste opere, schiette e piene di ironia, si ha l’impressione di una enorme capacità artistica pronta a sostituire ciò che ormai da anni è inteso come elemento fondante della nostra società. L’estetica cui essi fanno riferimento sembra lontana dai cliché tradizionali, eppure essa non manca di quello stesso background culturale che ha animato le correnti che hanno fatto riferimento a Duchamp, e poi a Rauschenberg e a Warhol, e che hanno saputo ridiscutere quei valori che, una volta acquisiti, sembravano impossibili a essere scalzati.
In questi lavori c’è una freschezza palpabile, c’è una capacità di resa cromatica che attinge a piene mani dalla lezione Pop, soprattutto dall’ambito di quelle tinte “glassate” tipiche della produzione di Jeff Koons o di Haruki Murakami, latori e maestri di quel nuovo linguaggio che, razionalmente, fa riferimento a modelli di consumo e a relitti di una società che cambia in continuazione. È chiaro, infine, che questi artisti sono l’evoluzione resilienziale di Cattelan, De Dominicis, Cella , Abate, Ceroli, Gilardi, solo per citarne alcuni, ai quali devono molto, e dei quali hanno saputo ridefinire e reinterpretare personalmente parti del linguaggio, divenendo a loro volta eventuale esempio dai quali attingere.

MAX FERRIGNO
L’attività pittorica di Max Ferrigno è ormai da anni rivolta all’approfondimento dei temi del Pop surrealism. I suoi soggetti raccontano un mondo che sfiora l’espressionismo, i suoi personaggi sono precise rielaborazioni figurative che sembrano provenire dal mondo del cartoon e si muovono in spazi metafisici. I colori di Ferrigno sono sovraccarichi, brillano di una luce insolita, come gli inchiostri di certa fumettistica disneyana. Il carico di ironia che pervade i suoi lavori è palese. Egli propone in continuazione situazioni che stravolgono una realtà che diventa, per questo, sempre più sfuggente. L’opera di Ferrigno si pone come indagatrice di un modello in cui gli aspetti umani, irreali nella loro rappresentazione, sono l’evocazione di verità non viziate dalla sovrabbondanza di certe aspettative che, proprio perché alternative e illusorie, non coinvolgono nessuno, se non i più sprovveduti che non riescono a scindere significato e significante della sua opera. Le sue opere sono da interpretare come dei segnali che riconducono alla realtà, proprio come nei cartoon che, travalicando completamente gli aspetti tangibili del mondo, si pongono come metafore dell’esistente.

NICOLA ALBERTIN
Il lavoro di Nicola Albertin sembra procedere con l’intento di ridurre opere più ampie in frammenti di indefinibile grandezza, non perché esse vengano tagliate, ma perché Albertin si getta sopra di esse scandagliandole, quasi stesse adoperando uno zoom e si concentrasse su una determinata porzione di spazio che egli possiede nella sua mente come totalità. Il segno viene così a esprimersi attraverso il colore, valicando i confini di quelli che potrebbero essere i valori che si nascondono in esso. Il flusso cromatico scorre  creando forme evanescenti che paiono disgregarsi in sottili sfumature. La pittura di Albertin riflette sullo spazio, adattandolo a un ambiente immaginario che pulsa di vita propria. Il colore non si appiattisce e lascia scorrere una visione in profondità che raggiunge angoli inesplorati di questi frammenti di universo. La dimensione che Albertin rappresenta è infinita, in quanto non limitata nello spazio-tempo del visibile. Il vedere diventa meta visivo, ponendosi come superficie compiuta che si apre di fronte ai nostri occhi come astrazione fortemente spirituale.



[1] Lo steampunk è un filone della narrativa fantastica-fantascientifica che introduce una tecnologia anacronistica all'interno di un'ambientazione storica, spesso l'Ottocento e in particolare la Londra vittoriana dei libri di Conan Doyle e H. G. Wells. Le storie steampunk descrivono un mondo anacronistico - a volte una vera e propria ucronia - in cui armi e strumentazioni vengono azionate dalla forza motrice del vapore (steam in inglese) anziché dall'energia elettrica; dove i computer sono completamente analogici, o enormi apparati magnetici sono in grado di modificare l'orbita lunare. Un modo per descrivere l'atmosfera steampunk è riassunto nello slogan "come sarebbe stato il passato se il futuro fosse accaduto prima". (Wikipedia, voce “steampunk”).
[2] Wikipedia, voce “il castello errante di Howl”

lucio passerini al triangolo nero di alessandria

Il valore artistico di questa mostra è notevole poiché essa presenta  alcuni esempi dell’opera di Lucio Passerini, artista, incisore, editore di raffinati libri composti e stampati a torchio, considerato tra i più importanti esperti della tecnica xilografica a livello internazionale. Appunto la xilografia, un procedimento particolare, che permette di ottenere delle stampe attraverso il taglio di un blocco di legno di media durezza o duro, dal quale vengono asportate parti di superficie fino a lasciare un disegno pronto a ricevere l’inchiostro, è il campo privilegiato dell’azione estetica di Passerini. Con essa ottiene delle strutture estremamente semplici, delle aree sulle quali si distendono dei regolari segni geometrici che ricordano la trama di un tessuto. Ma, anche se sembrerebbe contraddittorio,  è l’assenza di segni che trasforma queste opere in qualcosa di straordinario. È la percezione del nero compatto che “colora” ampie superfici cartacee a dare un effetto unico. Lo sguardo è attirato da quel vuoto che si disperde in una sorta di infinità spirituale. La sensazione è ipnotica, simile a un fluttuare in una situazione priva di spazio e di tempo.
Ma, dopo aver riflettuto di fronte a questi lavori, il nero non è assenza, perché è il segno ripetuto migliaia di volte. La bellezza di queste incisioni sta, in effetti, nella concretizzazione di una ripetitività che offre un senso di completezza, un qualcosa che diventa allegoria del gesto, della pazienza dell’artista che attraverso la sua capacità di vedere le cose in una determinata maniera trasforma delle strutture elementari in poesia. L’arte di Lucio Passerini va affrontata con grande rispetto, rinunciando alla visione tradizionale dei lavori, ma optando per un rapporto di coinvolgimento totale con essi, cioè che non escluda a priori l’intervento degli altri sensi ai quali spetterà, insieme alla vista, il compito di partecipare all’avvolgimento organico che sembra denotare questi lavori. Per ottenere questo risultato, Passerini procede contrapponendo alla materia della superficie bianca e immobile del foglio, quella nera del segno, che si distende con la sua assolutezza di piccole varianti diventando alternativa e vitale. Analoga è l’estetica dei rubber prints, nei quali l’immagine è costruita con un modulo intagliato nella gomma e adoperato come un timbro.