martedì 29 dicembre 2015

il mondo di carlo cane

Esposizione di prestigio, quella cui partecipa Carlo Cane , alla Corey Herford Gallery di Los Angeles, esposizione che condurrà definitivamente l’artista, già fortemente apprezzato in Italia, a quel livello di internazionalità che merita assolutamente.



Il lavoro di Carlo Cane è conosciuto soprattutto perché propone un mondo futuribile, fatto di grandi costruzioni che si innalzano verticali su brumosi cieli senza tempo. Si tratta di un mondo nel quale le persone sono solo evocate, si pensa che esse vivano all’interno di quelle compatte abitazioni, silenziose e ieratiche, che sembrano esistere in un mondo appena successivo a una catastrofe, poco prima che la Natura si riappropri di quanto le apparteneva. La sua ricerca più attuale però sta conducendo l’autore valenzano verso nuove “esplorazioni”, verso luoghi in cui è proprio la Natura a essere l’assoluta protagonista delle tele, una Natura magnifica e magica che, come nelle opere presentate in California, è carica di forza misteriosa che inghiotte fantasmi di case vittoriane trasparenti immerse nella vegetazione.




Carlo Cane è dunque latore di un linguaggio pittorico estremamente moderno, etichettabile come realistico ma che contiene qualcosa di immaginario e simbolico. È una pittura visionaria che propone un mondo onirico al quale ci si avvicina sempre con stupore e interesse.

lunedì 7 dicembre 2015

l'arte di francesco casorati

Uno stile particolare, uno stile fatto di oggetti che si ripetono, che ritornano in molte composizioni e che creano un universo di fantasie richiuse all’interno dello spazio ben determinato del foglio o della tela. In fondo, il mondo di Francesco Casorati è questo, un mondo immerso in una sua personale immagine di natura, fatto da paesi di case squadrate chiusi da un mare solcato da bastimenti.  Si nota una certa ironia nelle sue opere grafiche, disegni e acquerelli, e negli oli, un’ironia sottile che appartiene totalmente anche  - e soprattutto – al personaggio Casorati.



Quando il pittore si raccontava si scopriva la forza della sua arte, un’arte giocata sul filo sottile della poesia, fatta di sospensioni di tempo e di situazioni assolutamente interiori.
Molti hanno definito Francesco Casorati un “pittore di favole”, insistendo sull’aspetto più narrativo e fantastico del suo lavoro.  In effetti, buona parte dei  suoi soggetti induce a pensare che ci si possa trovare di fronte qualcosa che sfugga alla logica e alla razionalità, ma è la forza della costruzione dell’opera d’arte, cioè il collocare ogni elemento nella giusta posizione,  a detenere una consistenza tangibile, una visibilità che inserisce i suoi soggetti all’interno di una struttura equilibrata e regolare.



L’inserzione del colore, la sua apparizione all’interno delle opere, è altrettanto meditata. È soprattutto la forza di una singola cromia a spingere l’osservatore a percepirla come frattura nella composizione e a notarla in quanto colore. Secondo Casorati non è necessario riempire lo spazio di tinte differenti per estrapolare la forza del colore: esso è molto più evidente se tracciato all’interno di una monocromia. Alcune incisioni sono utili per comprendere l’idea di Casorati di colore: a volte una sola linea rossa, sinuosa, spicca nel nero dell’acquaforte e appare come colore assoluto, a prescindere dal pigmento.
Un altro elemento interessante dell’opera di Francesco Casorati è la scrittura. In alcuni suoi lavori essa appare come sfondo, come elemento che circonda l’immagine. Essa non comunica nulla, in quanto ripulita di significati. Al pittore non interessa adoperare la scrittura come mezzo tradizionale di rapporti, ma come espediente grafico, come determinazione calligrafica che fuoriesce dalla matita e si genera come segno e non come suono.



“Finzioni della realtà” fu il titolo quanto mai appropriato di una mostra di qualche anno fa che mai come in quel caso aiutava a comprendere Francesco Casorati. Infatti, in una risposta data a Adriano Benzi, egli chiariva il significato di questi due termini e la loro possibile applicazione artistica, fingendo di essere un ingegnere che progetta le cose e un artigiano che le costruisce, macchine immaginarie inserite in contesti al limitare della realtà.

venerdì 6 novembre 2015

la luce come segno di vincenzo satta

La ricerca di Vincenzo Satta si è sviluppata su due differenti percorsi, uno più teso all’analisi delle geometrie segniche, l’altro inteso a indagare i rapporti tra realtà e luce. Le sue opere spiccano per la diafanità complessiva, per la resa di quel senso di impalpabilità che appartiene alla realtà fisica della luce.




La stesura di pigmenti che egli adopera sembra compenetrarsi allo spazio che circonda la sua tela, offrendo un mezzo che tende ad avvolgere chi osserva. La sua opera risulta essenziale, limitata a pochi tratti che, apparentemente, compongono un’unica immagine. 



Eppure, trascinati da un vortice intenso e piacevole, quei segni che si staccano dal luminoso fondo monocromo, si trasformano in citazioni dotte provenienti da riflessione che il maestro ha compiuto sulle Storia dell’Arte.  infatti, gli spazi di Satta si aprono su visioni pierfrancescane e belliniane e dialogano con le più alte espressioni culturali umanistico/rinascimentali. In sostanza, queste forme risolvono in parte il problema dell’interpretazione della figurazione quattrocentesca riducendola all’essenzialità più estrema. Satta offre la sintesi di un discorso di enorme impatto emotivo che riesce a contenere la totalità di realtà intellettuale attraverso la sovrapposizione evocativa di intensi tratti cromatici.


lunedì 19 ottobre 2015

simulacri, l'installazione bicefala di bonardi e minetti

“Simulacri” è il titolo della mostra realizzata da Giovanni Bonardi e Davide Minetti a Villa Vidua a Conzano. Questo progetto prevede l’integrazione di due prodotti, scultoreo e pittorico, in modo da strutturare una sorta di installazione drammatica capace di integrare coerentemente i lavori dei due artisti. La consuetudine di realizzare dei percorsi che uniscano pittura e scultura non è assolutamente una novità. In effetti, basterebbe rimandare la mente all’arte dei Sacri Monti per avere un saggio di questo tipo di tradizione.



È chiaro che la differenza con qualunque precedente espressione siffatta sta nel linguaggio che, nel caso di Bonardi e Minetti, è estremamente contemporaneo (uso del segno, manipolazione della materia, studio del rapporto luce/ombra), legato ai modelli estetici della nostra epoca. Eppure, se si osserva attentamente ciò che è esposto, si ha la sensazione che entrambi gli artisti partano da una comune radice “antica”, che ritengano imprescindibile il confronto con la cultura che li ha preceduti. Non si tratta però soltanto di una questione legata alla Storia dell’Arte, c’è qualcosa di antropologico nel loro lavoro, qualcosa che si richiama a precise simbologie che appartengono al genere umano.



Continuando così in questa riflessione ci ritroviamo a riconsiderare questo percorso con un’idea che lo lega al mito e all’incombente presenza del sacro, al momento in cui il mondo era profondamente diverso da quello attuale, in cui il bosco era popolato da divinità che aspettavano l’arrivo di qualcuno che potesse evocare il loro nome. Ciò che si crea è un diorama nel quale il fruitore si trova a contatto con il silenzio di un luogo che non esiste più, una proiezione della mente capace di dare i connotati di un mondo ideale nel quale si trova soltanto la bellezza. Infatti, quasi melanconicamente, il simulacro richiamato dal titolo della rassegna vuole evocare qualcosa di vuoto, di un involucro che però può essere riempito attraverso l’esperienza attiva di chi si calerà in questa straordinaria dimensione.


venerdì 9 ottobre 2015

la materia morbida di peter weber

Il modo che Peter Weber ha di approcciarsi all’attività plastica è assai particolare. Egli non scolpisce la materia nel senso tradizionale del termine, ma agendo con essa le dà quella valenza tridimensionale che a rende assimilabile a un rilievo contemporaneo, a una scultura perfettamente calata nel gusto estetico della nostra epoca.



Weber lavora preferibilmente con ampie porzioni di tessuto, con spesse e morbide“tavole” di feltro, che piega, senza mai tagliare nulla, in modo da ottenere delle regolari forme geometriche. Il rilievo, nel contesto monocromatico della struttura ottenuta, è dato dalla creazione di ombre che definiscono la profondità delle aree. A volte l’opera appare come un serrato incrociarsi di linee, altre volte le tensioni della stoffa sono  sciolte in un panneggio che sembra dare un valore liquido alla struttura, liberandone una parte e lasciando al tessuto la possibilità di diventare altro.




Weber opta per un tipo di arte minimale dietro alla quale si nasconde una riflessione sulle tensioni che stabiliscono i rapporti di forza tra le piegature della materia. Il suo lavoro risulta a metà strada tra il razionalismo e l’organico. Le sue pieghe sono compresse da pressioni che tendono a dilatare gli spazi per giungere a una impossibile situazione di quiete, spazi nel quali la luce penetra creando ulteriori e continui momenti di contrazione, quasi come se la materia respirasse e avesse una vita propria.


mercoledì 30 settembre 2015

esperienze di scultura e installazione contemporanee

Una riflessione sulla scultura contemporanea è al centro della mostra che ospitata nelle Sale d’Arte comunali di Alessandria. Il discorso ruota attorno all’opera di quattro autori che propongono gli esiti di lavori assai diversi tra loro, esiti che dimostrano l’assimilazione e la rielaborazione di modalità che esprimono una varietas culturale che, contrariamente a quanto avveniva fino a qualche decennio fa, non può essere pensata come appartenente soltanto a pochi centri trainanti. La discussione sull’arte è ormai una questione globale e l’aggiornamento si guadagna confrontando le proprie idee sulla rete, osservando e studiando le novità che via via incrementano il dinamico mondo della scultura internazionale.




Gabriele Arveda propone delle sculture in metallo di dimensione medio/piccole. Egli, forte della sua esperienza orafa, riflette sulle forme della realtà, e miscelando pieni e vuoti costruisce immagini con una vago sapore impressionista . Davide Bonaldo propone una videoinstallazione che nasce dall’esigenza di confrontarsi con un certo tipo di problematica ecologica, portando alla luce il disastro ambientale provocato dalla lavorazione dell’amianto, disastro che si rispecchia nei rovinosi “panorami da cartolina” che dialogano con un progetto di documentazione dell’immaginario sul paesaggio che Francesco Sala ha sviluppato con Michela Deponti. Carlo Ivaldi mette in mostra alcuni lavori in metallo, poderose costruzioni materiche che perdono di compattezza fino a diventare diafane. Giovanni Saldì partendo da una riflessione sull’antico, costruisce immagini con materiali inusuali – asfalti, catrami, pietrame – nobilitando in questo modo qualcosa che, nonostante la sua presenza nel nostro quotidiano, rimarrebbe invisibile.


venerdì 11 settembre 2015

pellizza da volpedo, paesaggi e nature morte

L’attenzione all’opera di Giuseppe Pellizza  è sottolineata anche dagli appuntamenti biennali che nella tarda estate di ogni anno, a partire dal 2001, vengono organizzati a Volpedo, suo paese d’origine. Meritorio è poi il fatto che ogni edizione sembra collocare un ulteriore tassello per meglio interpretare la poetica di questo artista in modo sempre più ricco e convincente.



Il percorso che è stato organizzato quest’anno si incentra in particolare su due settori della produzione di Pellizza, il Paesaggio e la Natura morta. Detto così si potrebbe pensare a qualcosa di assai legato agli inizi della sua carriera e alla sua formazione accademica, a un puro esercizio formale. In realtà, l’interpretazione che si può dare esaminando questi lavori – alcuni tratti da pagine di taccuino, veri appunti mnemonici delle sue idee – va in direzione quasi opposta. Infatti, l’attenzione del pittore si incentra su un “paesaggio che lavora”, su elementi che evocano il lavoro agricolo del territorio nel quale egli viveva.




Così come, in modo forse più evidente, sul Paesaggio, analoga congettura si può fare sulla Natura morta. Se da una parte la riproduzione è incentrata su situazioni di lavoro nel paesaggio, dall’altra essa verte su prodotti che creano il paesaggio e che appartengono al quotidiano dell’artista, frutti e verdure nei quali incappava durante le sue peregrinazioni nelle campagne che lo circondavano. Per questo, come recita il titolo della mostra, è corretto parlare di rapporti con il territorio, di una sorta di documentazione che lega questo fondamentale artista ai suoi luoghi, al lavoro nei campi e ai prodotti della terra.

martedì 11 agosto 2015

picasso, disegni e incisioni a acqui terme

Pablo Ruiz Picasso è stato sicuramente uno dei più famosi artisti di tutti i tempi. Dapprima inventore insieme a Braque di un’avanguardia capace di rivoluzionare il modo di pensare la pittura e la scultura, poi, nonostante l’indiscussa bravura, ripetitore di un sistema  che non nasconde la precisa volontà di diventare brand si se stesso. In effetti, nessun artista ha mai suscitato tanto dibattito sulla sua opera, e ancora oggi non è ancora stato espresso un giudizio definitivo.



L’interesse per la mostra acquese sta nel fatto che si proponga soprattutto un percorso nell’incisione. Picasso conosceva l’incisione, conosceva bene le sue tecniche e sosteneva che tra i metodi comunemente adoperati, il più nobile e il più ricco fosse l’acquaforte. Ma la sua vocazione di sperimentatore lo porta a rivolgersi al linoleum, tecnica che procede attraverso un metodo più artigianale, meno raffinato, che però viene nobilitato attraverso “l’innesto” di elementi presi proprio dall’acquaforte o aggiungendo il colore.
I temi trattati sono quelli tipici dello stile di Picasso, la tauromachia, il corpo umano in genere, la riflessione sulle radici delle culture africana e occidentale, argomenti che vengono risolti riflettendo sull’esito del segno, su come il gesto dell’incidere possa essere basilare per accedere a delle composizioni di grande valore plastico, in particolare su quelle opere scultore e pittoriche tout court.




Il confronto con l’olio su tela risulta così chiarificatore del sistema segnico picassiano esaltato dall’incisione, attraverso l’esecuzione di un soggetto  risalente agli anno ’60, un soggetto importante che riflette direttamente sulla pittura. “El pintor y el su modelo”  pone il pittore all’interno della tela nel momento in cui si accinge a eternare parte di una realtà fornita di straordinaria vitalità rappresentata dalla modella. Come racconta Hélène Parmelin, per ottenere un esito che lo convincesse su questo tema, Picasso lavorò con estrema frenesia, aggiungendo particolari, spostando i personaggi, riflettendo sull’esito del rapporto segno/forma, sul colore. Alla fine ottenne qualcosa di definitivo che, quasi cinematograficamente, rappresenta la conclusione di un percorso intellettuale che, semplicemente, unisce il pittore all’osservatore.


giovedì 6 agosto 2015

food icons (antonio de luca, enrica borghi, benedetta ubaldini, florencia martinez)

Non esiste un simbolo, un’immagine generica che possa dire che cosa è il cibo, è un discorso troppo complesso. Eppure ogni cibo, ogni cosa che mettiamo in bocca con lo scopo di nutrirci ha una sua precisa valenza evocativa. È chiaro che più un cibo è antico, più il suo valore simbolico è complesso. Uva e fichi, ben radicati nella quotidianità mediterranea da vari millenni definiscono una quantità di riferimenti pari al numero di volte nelle quali sono stati citati. La banana, icona della modernità warholiana, assume invece un valore esclusivamente graduale, richiamando dapprima alla mente la copertina del disco dei Velvet e successivamente, attraverso precise implicazioni soggettive, altri oggetti, disperdendosi nell’universo di immagini cui siamo continuamente sottoposti.



Ovviamente questo non ne censura la dignità di rappresentazione. Chi può stabilire, infatti, che cosa sia giusto rappresentare? L’arte non è certo un mondo nel quale non si possa osare, non si possa provocare. Le opere esposte in questa mostra ci riportano con la mente a epoche affascinanti nelle quali il desiderio di astrazione e di attrazione per il “pittoresco” faceva costruire tavole imbandite e raccontava il cibo allo stato puro, nel momento che ne precedeva la trasformazione. Ma ora siamo di fronte a quattro artisti che lavorano secondo i canoni dell’estetica più aggiornata, la loro opera ci conduce a riflettere sulla nostra essenza, sulla vaghezza del nostro modo di pensare, sull’approccio prettamente edonista al cibo.



È stata una trasformazione epocale quella che si è verificata a partire dal secondo dopoguerra, dal “cibarsi per vivere” siamo passati al “vivere per cibarsi”. Il sottomondo raccontato dal Pulci nel “Morgante” nel quale sembrava che il procurarsi il cibo fosse la priorità assoluta degli sgangherati cavalieri del suo poema, è stato sostituito dall’oscenità televisiva di decine di trasmissioni che ci propongono la seriale variazione della cotoletta, per poi portarci all’autocommiserazione di fronte all’inesorabile aumento del girovita. Allora ecco che il nostro appetito viene compensato dall’ideale accomodarsi a una mensa che offre nutrimento allo spirito – sarà banale a dirsi – attraverso il comporsi di questo progetto che indaga il cibo attraverso una serie di opere diversissime sintatticamente ma legate dal comune intento di rendere il cibo soggetto di performance artistica.



Gli artisti presenti nella mostra dal titolo Food Icons, Enrica Borghi, Antonio De Luca, Florencia Martinez e Benedetta Ubaldini, si muovono su percorsi suggestivi, capaci di tramutarsi in inedite associazioni visuali con cui l’immaginazione e il carico culturale di ciascuno di noi riesce a comporre una ragnatela di intriganti riferimenti. Le immagini plastiche proposte da Benedetta Ubaldini conducono a una riflessione sul rapporto passato presente, su quelle suppellettili che adornavano le antiche dimore, quei trofei di caccia che rappresentavano l’orgoglio di un diritto che era riservato a poche famiglie di possidenti. Il contenuto di questi lavori scandaglia un mondo di ostentazione, trasformato adesso in chiave pop, esasperato nei colori così fortemente innaturali, un richiamo all’arroganza di chi ha fatto della sopraffazione il proprio credo, cancellando quella forza naturale che alberga nell’animale che in queste straordinarie sculture rimane soltanto elemento di citazione.
Enrica Borghi crea un’installazione nella quale il materiale risulta avere un ruolo importantissimo. La sua idea è quella di parafrasare alcune opere di Aldo Mondino, richiamando a livello essenziale la forma dei cioccolatini attraverso la ricopertura con carta stagnola di palline di polistirolo. Questi elementi mimetici sono i tasselli di strutture più complesse, strutture decorative policrome di forma esagonale, che costruiscono sulle superfici murarie dei mosaici modulari che evocano l’arte orientale nelle sue più raffinate espressioni.
Le opere di Florencia Martinez richiamano alla memoria determinati momenti che scandiscono la vita e i suoi rapporti. Spesso ci siamo sorpresi a fotografare il cibo che stiamo per mangiare per condividerlo immediatamente sui Social. La mappatura della Martinez ha qualcosa di simile: le apparizioni di frammenti di fotografia sono delle epifanie di realtà che si cristallizzano nel nostro essere. Sono apparizioni che ci inducono a riflettere sulla sedimentazione dei nostri ricordi, sui desideri che si nascondono dietro l’accaparrarsi di un gusto, trasformando il mondo che ci circonda in una serie di istantanee dalle quali emerge una possibile risposta a qualcuno dei nostri dubbi.

Antonio De Luca costruisce attraverso alcuni simulacri di cibo una convincente interpretazione della natura morta. C’è qualcosa di rituale nella proposta delle sue ceramiche e dei suoi oli, qualcosa che sembra giungere dall’antichità, dagli Xenia romani. L’apparizione del cibo nel piatto, o semplicemente del cibo, evoca gesti conviviali, richiama l’intimità di spazi privati nei quali la natura inanimata è fonte di ispirazione attraverso le sue forme, i volumi, il colore, la reazione alla luce. Da raffinato pittore, De Luca compone i cibi secondo un disposizione estetica, descrivendoli con gusto illusionistico e con la volontà di costruirne un possibile percorso simbolico.


domenica 5 luglio 2015

chanukkah: interpretare i lumi

È una collezione che è stata costruita negli anni. Il tema è fisso, inderogabile: agli artisti viene chiesto di elaborare una lampada di Chanukkaah inserendo un lume in più, otto più uno. È la prima volta che le 173 lampade possono essere viste tutte insieme e la sensazione è di omogeneità. Ciò è determinato dal fatto che, nonostante esse siano state realizzate con linguaggi assolutamente differenti, proprio per il condizionamento tematico, dicono tute la stessa cosa.



Ciò, ovviamente, non deve essere percepito come un limite, anzi, si propone come qualcosa di straordinario capace di dimostrare l’assoluta illimitatezza della creatività. Come è difficile trovare due pezzi che si somiglino dal punto di vista formale, così non si prova quel senso di disorientamento che talvolta accompagna il visitatore dopo l’uscita da una “collettiva”. L’impressione che si ha è di aver sfogliato un testo di per sé completo e coerente, ma al quale è sempre possibile aggiungere una nuova pagina.




Inoltre, un altro dato con cui si viene a contatto è determinato dall’aspetto ludico alla base della costruzione delle singole opere. Gli artisti hanno “giocato” con l’arte, hanno prodotto un oggetto che ha alla base una fortissima carica (auto)ironica di immediata visibilità: materiali di varia consistenza, uso di colori vivaci, ricorso a forme esasperate. Ciò sembra dimostrare come la bellezza possa apparire anche quando non si deve far  conto di dover compiacere alla critica o alle esigenze del mercato, agendo in piena libertà e interpretando qualcosa dal quale non si può prescindere.

venerdì 19 giugno 2015

aldo mondino, cibo e spiritualità

La spiritualità di Aldo Mondino è rilevabile dall’intensità di alcune delle sue opere. È difficile dire quanto l’artista torinese sentisse la forza del divino che lo circondava, ma una volta che ebbi modo di chiedergli di misurare a parole il suo rapporto con la religione, egli mi rispose che ciò che lo colpiva era la ritualità, e per questo lui ammirava il sacro.




Se si aggiunge a questa idea estremamente laica della religione una buona dose di creatività ecco che si concretizza, almeno in parte, l’estetica di Aldo Mondino. In effetti, nonostante si conosca piuttosto bene l’opera di questo artista scomparso nel 2005, sorprende ancora una volta la capacità di evocare la sacralità attraverso delle intuizioni che giocano sul valore della parola – elemento tipicamente ebraico – unito alla forza della materia con cui compone le sue immagini. Mondino trasforma la realtà  dei percorsi religiosi in simulacri che hanno la capacita di evocare  e di trasmettere il senso di una tradizione, di spiegare gli aspetti più privati di una serie di percorsi di preghiera che si accostano al divino. 



Un solo esempio è sufficiente per chiarire la forza misteriosa dell’arte di Mondino che con il suo “Raccolto in preghiera” avvicina il visitatore a riflettere sul rito e sugli stilemi del suo fare arte, allorquando chi osserva percepisce che il tappeto che si stende nella penombra dei sotterranei della Sinagoga è stato realizzato con l’uso di svariate granaglie.


lunedì 15 giugno 2015

max ramezzana verso l'astrazione

L'ultima rassegna ha richiesto, per chi ha potuto osservare le opere che ne componevano il percorso espositivo, una visione assolutamente particolare perché se ne potesse comprendere bene il senso. Max Ramezzana è latore di un linguaggio ben conosciuto, dal forte carattere illustrativo. Come molti artisti, a un certo punto della sua carriera, egli ha sentito l’esigenza di cominciare a operare qualche modifica al suo modello estetico, esplorando territori artistici che solo apparentemente non gli appartenevano.




Il cassetto, simbolico luogo di accumulo di memorie, vera icona dell’estetica di Ramezzana, non è più il fondale scenografico che ci ha meravigliati precedentemente. Ora esso si propone soltanto come contenitore di campiture cromatiche di differente intensità ricavate da assemblaggi di materiali vecchi e sporcati dal tempo, pseudo oggetti che  evocano la spiritualità dei luoghi, l’accumularsi stratificato di ricordi. La figura è bandita e si stanno perfezionando e consolidando dei linguaggi che lo porteranno a rivedere alcuni suoi elementi specifici. Oltre al senso del divenire e sperimentale della sua pittura, questo nuovo corso gli permetterà di osservare più nell’arte e non con l’arte. E’ chiaro che questo è per Ramezzana il momento embrionale di una nuova fase, che però lascia già intravedere la potenzialità del suo temperamento artistico. Come è già possibile intuire, fin dal titolo della mostra, “aprire il cassetto”, si subisce la suggestione di dare credito a un gesto capace di far cambiare e di scindere il pittore dall’illustratore, liberando l’uno dall’altro, per affrontare e sviluppare nuove e diversissime sintesi emotive.


martedì 9 giugno 2015

forme di realismo (fontana, laborante, muliere, orlando, pizzinga)

Solitamente la pittura realistica, in particolare quella su ampi formati, deriva per linea diretta dalle proporzioni scalari e dalla capacità indagatrice del mezzo fotografico. 



Questa rassegna sul realismo è una summa di come ci si possa approcciare proprio al realismo attraverso differenti modi di ricerca, anche senza fare entrare in ballo tecniche meramente analitiche, dedicandosi più da vicino a seguire le reazioni dei segni e dei colori, spesso ridotti a poche e diafane presenze.



Questi modelli estetici risultano favorevoli a produzioni di superfici spesso dilatate e meticolose. In questo modo l’istantaneità delle scene dipinte prolunga nel tempo il percorso di composizione formalizzante dei soggetti. Gli artisti (Elisa Muliere, Serena Laborante, Isabella Orlando, Simone Fontana e Simone PIzzinga) rivelano i contenuti umani stendendoli sottoforma di linguaggio, di sintassi primigenia. 



Si tratta di approfondimenti che prendono spunto da situazioni reali. I volti sono scomposti, oppure emergono da un cupo fondale nero o mancano quasi del tutto, lasciando spazio a simulacri o segni espressionisti o evocazioni di presenze.




I pittori utilizzano supporti differenti per ottenere i riflessi di un piano visivo che finiscono per esaltare ogni cosa e poi, a tempo di sguardo, mantenere impresse porzioni di mondo. Ovviamente si tratta di segmenti visivi staccati, assolti e estranei, rispetto a possibili reazioni con il Resto. Però, le opere restano sempre parcelle di Vero, tasselli di vita parallela da poter indagare e apprezzare.


domenica 31 maggio 2015

garbi, bruckmanss e goffi: ipotesi di messinscena

La fotografia è un mezzo espressivo attraverso il quale si possono fare numerosissime sperimentazioni con altrettanti esiti. Le ipotesi proposte da Roberto Goffi, Martin Bruckmanns e Cinzia Garbi in questo allestimento, costruiscono una sorta di dialogo incentrato sulla messinscena, o meglio, su quel modo di inventare delle situazioni per le quali il soggetto fotografato si presta a offrire una sorta di interpretazione della realtà interagendo con essa.



Cinzia Garbi pone la sua modella di fronte a un’opera d’arte con cui crea un rapporto simbiotico. L’esito, attraverso un’azione meta-artistica, permette alla fotografia – che assume una propria connotazione artistica – di citare l’opera d’arte che viene utilizzata come elemento creativo di completamento e ridefinizione dell’opera fotografica.



Martin Brukmanns ricava le sue immagini estrapolandole da una pellicola in Super 8. Esse rivelano all’osservatore qualcosa di inaspettato poiché esplicitano una realtà che si cristallizza in un determinato particolare. Esso, all’occhio, sarebbe di fatto invisibile, in quanto la nostra mente avrebbe solo potuto intuirlo in una serrata serie ininterrotta di sequenze. Bruckmanns propone invece immagini isolate, fredde con colori sgranati e innaturali, quasi degli scatti che, all’epoca dell’analogico, i dilettanti ottenevano puntando l’obiettivo dal finestrino di un’auto in corsa.




Roberto Goffi costruisce il suo percorso lavorando sui gessi bistolfinai del Museo Civico di Casale Monferrato. Ciò che ricava è estremamente vicino all’estetica dell’artista casalese, dotato di quel carico di drammaticità che appartiene all’idea stessa di quel tipo di scultura. La pellicola di Goffi è capace di far emergere come dei bassorilievi le immagini di Bistolfi attraverso il sapiente gioco di luci e ombre che esalta scenograficamente i volti liberty modellati dallo scultore casalese.

domenica 3 maggio 2015

le sculture architettoniche dei bonzanos

La produzione di sculture architettoniche e installazioni del Bonzanos Art Group cattura l’attenzione per l’efficacia del percorso creativo. I Bonzanos Art Group procedono su due livelli: il primo è prettamente bidimensionale e può essere identificato come una forma di elaborazione fotografica; il secondo è plastico e verte sulla realizzazione di corpi umani – o di parti di essi – con sottili e malleabili fili di rame.



Il primo nucleo produttivo sembra affondare le sue radici nell’arte tardo rinascimentale. I Bonzanos sembrano riflettere su quel tipo di produzione concettista che tendeva a evocare qualcosa attraverso la mistificazione. Nei loro lavori nulla è mai quello che sembra poiché le forme che compongono le figure si modificano a seconda del punto da cui le si osserva. Esse possono sembrare dapprima trame di tessuti che successivamente si evolvono in altre figure che determinano diversi approcci alla realtà.




La scultura tout court si compone di parti che illusionisticamente si assemblano creando strutture complete. L’illusione è determinata dalla volontà di appoggiare la parte di corpo su uno specchio che offre una parvenza di diafanità e permette il dilatarsi della forma fino a comporne un’altra più completa. Il corpo così creato si carica di numerosi elementi ideali, ponendosi come cristallizzazione di movimento di una danza che trasmette fisicità e armonia. In queste sculture, come affermato da Linda Kaiser, composte di fili di rame intorno a corpi senza scheletro, si può afferrare un equilibrio leggero, la ricerca di una metà ideale da ricomporre nelle lastre specchianti di acciaio.


giovedì 16 aprile 2015

bersezio e ivaldi, dialogo tra materie

È un dialogo estetico di grande interesse e equilibrio quello tra Enzo Bersezio e Carlo Ivaldi, un dialogo tra elementi poderosi che, pur mantenendo la loro connotazione materica, riescono idealmente a compenetrarsi creando una visione complessa che nasce all’interno di una cultura che vuole sviluppare l’opera d’arte totalmente, facendo leva su dei materiali che tradizionalmente sono legati o alle cosiddette arti minori, o a branche dell’arte diverse da quelle pensate come propriamente plastiche. Bersezio e Ivaldi sembrano allora interagire per creare un progetto logico di giustapposizioni che trasformano lo spazio espositivo in un’area in cui le forme si modellano come segni di legno e ferro.



L’opera di Bersezio, forse anche per le caratteristiche intrinseche del legno, materiale sul quale si è ultimamente sviluppata la sua ricerca, tende a insistere sulla verticalizzazione. Il grande tepee, per esempio, è molto di più che una citazione della cultura nativa americana, poiché fa riferimento al mondo nella sua totalità. Lo scheletro della capanna è un asse che regge il mondo e che congiunge il cielo alla terra e che rende possibile la comunicazione fra essi, conducendo fino al sole. In più la materia stessa adoperata da Bersezio, levigata come se avesse vissuto il destino di un relitto trasportato dalle onde, ci rimanda al senso stesso del passare del tempo, al modellarsi delle cose che si adattano a nuova vita completando un circolo di grande valore evocativo.




Carlo Ivaldi inserisce i suoi lavori in una sorta di percorso che prende inizio all’aperto. Queste sono opere adagiate sul terreno, quasi a mimetizzarsi con la natura. Sono opere che hanno il colore della terra e che appaiono come frammenti di antichi interventi umani. Per questo, anche il lavoro di Ivaldi ci riporta al relitto, a qualcosa che è stato adoperato e che ha lasciato sulla sua “pelle” il segno del trascorrere del tempo. Sono opere che hanno subito delle perdite, si sono alleggerite talmente da trasformare in elemento compositivo anche  quel vuoto che circonda di materia. Per questo esse possono sollevarsi sfidando la forza di gravità, non più sospese a fili invisibili, ma appoggiandosi a sottili steli o assottigliandosi fino alla diafanità.


mercoledì 1 aprile 2015

inclusioni di renata boero

La stratificazione culturale del genere umano si forma attraverso vari tipi di esperienza. Probabilmente, la più formativa è il viaggio, e il viaggio può avvenire o attraverso il proprio movimento fisico, spostandosi da un luogo a un altro, o attraverso le immagini che altri ci forniscono. In questo caso l’esperienza non sarà propriamente fisica, ma avrà una connotazione totalmente spirituale. Comunque sia, alla base di entrambe le operazioni c’è la volontà di concretizzare un processo mnemonico che ha come fine ultimo la nostra crescita.



Questa premessa per spiegare che alla base del lavoro artistico di Renata Boero c’è una riflessione sul viaggio e sulla lettura di testi pseudoscritti e di immagini che li compongono. Per comprendere questo processo comunicativo conviene concentrasi sulla straordinaria installazione costruita all’interno dell’aula della Sinagoga casalese. Per prima cosa è il nostro olfatto che entra in contatto con l’opera d’arte: esso percepisce il diffondersi e il mischiarsi di aromi che come sinestesie si associano a dei colori. A questo punto sono i colori a diventare protagonisti dell’opera, colori che si dispongono attraverso le forme rettangolari come parti di rotoli di pergamena mimetizzandosi con le antiche modanature della Sinagoga, sostituendo suppellettili non scampate alla furia antisemita e evocando i riti della cultura ebraica.




È la Boero stessa a spiegare che ogni colore, ogni frammento di carta, ogni profumo è la pagina di un libro su cui è stato scritto qualcosa. Se lo specifico di questa operazione, continua l’artista, è la riflessione sul perpetrasi della tradizione religiosa, sulle vite che hanno scandito il tempo di intere comunità, più genericamente, è l’esistenza stessa di ciascuno di noi che si dipana simbolicamente su quelle care accartocciate e colorate. Insomma, conclude, si tratta di  frammenti di memoria che compongono le pagine di un libro che non deve e non può essere distrutto. Ecco allora che prendiamo coscienza di avere di fronte a noi un particolare “libro d’artista” che documenta una contaminazione scandita da una serie pressoché infinita di livelli percettivi.


giovedì 12 marzo 2015

la bugia di luciano bobba e luigi cerutti

"La Bugia" è un breve racconto di Luigi Cerutti. Si tratta di una storia di inganni, o meglio di autoinganni, durante la quale una famiglia, durante tre generazioni, si illude di possedere un tesoro sottoforma di una statuetta di porcellana di una "donnetta". Racconto piacevole, curioso, che nel finale svela una verità che appare ovvia fin dall'inizio, una verità che si ci fa capire l'inganno dell'arte, l'illusione di possedere qualcosa di immenso valore e che invece, assai spesso, cozza con la meno prosaica realtà dei fatti.



Sulla base di questo racconto si è costruito un interessante progetto che ha coinvolto Luciano Bobba, fotografo sperimentatore, che ha, di fatto, illustrato questa breve storia. Bobba è sempre stato interessato dalle nuove tecnologie fotografiche, ha ricercato dapprima gli effetti dell'analogico e successivamente del digitale. Ora lavora esclusivamente con i dispositivi offerti dagli Iphone, costruendo percorsi progettuali di grande interesse estetico.




Lavorando con attenzione e intelligenza, le sue fotografie finiscono per assumere una connotazione pittorica, quasi travalicando il più puro spirito dello scatto. Il suo procedere – in poche parole – è impostato sulla resa degli effetti che il pixel può avere nella restituzione del'immagine, sullo sgranarsi sottile delle cose che si sovrappongono ossessivamente come ricordi sfocati. Quello di Bobba è prima di tutto un lavoro sul tempo, sul fissasi del ricordo che non appare mai nel nitore del presente. Eppure, in questo gioco di riflessi sovrapposti si crea il tessuto di una storia che, in questo caso, riesce a dipanarsi come un film. La gerarchia parola/immagine si mischia, non si riesce più a chiarire quale delle due azioni intellettuali sia subordinata all'altra, se la parola abbia bisogno dell'immagine o viceversa. Le due azioni restano autonome, aggiungendo però preziose informazioni al procedere dei discorsi. Se una delle intenzioni di Cerutti era di "dare concretezza alla bugia", lo ha fatto con l'intenzione evocativa del suo racconto sull'inganno dell'Arte; Bobba invece ha dato concretezza alle parole, imponendo una sua visione che, grazie al suo sguardo, diventa universale.