martedì 26 novembre 2013

paolo borrelli, donne con i fiori nei capelli

Una tavolozza ridotta ai minimi termini per compiere una produzione monocromatica. Ciò che si nota immediatamente nella produzione più recente di Paolo Borrelli è questa essenzialità. Di fatto le sue figure, apparentemente semplici,  sono regolate su strutture geometriche dai rassicuranti contorni sinusoidali che si riempiono di un’insolita tonalità ricavata dall’elaborazione di un colore primario. Se il livello di giudizio si fermasse a questo punto si rischierebbe di non comprendere né la qualità estetica del prodotto di Borrelli, né la sua potenza simbolica.


Le sue figure emergono da un compatto fondo argenteo e sembrano distaccarsi tridimensionalmente da esso. In questo modo le forme sembrano prendere corpo, sembrano trasformarsi in citazioni di artefatti antichi. Esse diventano degli idoli cicladici dai ventri dilatati, veneri che richiamano la fecondità e la forza generatrice della natura femminile. È chiaro che questo discorso è condotto da Borrelli con una certa ironia poiché queste figure ornate (o forse impregnate) di fiori, sembrano delle ombre in cui si rispecchiano meraviglia e autocompiacimento femminile, esposizione di vezzi totalmente muliebri che si palesano in tutta la loro più pura evidenza.
La donna di Borrelli ci appare in tutta la sua sensualità, autentica protagonista di un gioco della seduzione che ci viene evocato anche dalla serie di opere dal titolo “Lingerie”. Non si tratta di citazione Pop, non c’è il carico esasperato di certa pittura provocatoria. Anche in questo caso l’artista sa comprendere che la forza dell’immagine sta nella sua ridotta essenzialità, nell’evocazione di una forma che ci riporta a dei segnali che noi percepiamo in tutta la loro composta finezza. Borrelli sembra richiamarsi a quelle figurine di cartone che le bambine amano coprire di vestiti dello stesso materiale: egli costruisce qualcosa di analogo, qualcosa che appare come le carte di un gioco da adoperare con sorridente malizia.


Ciò che egli produce non deve essere per forza letto come qualcosa di sequenziale. Egli, come è solito affermare, si avvale di forme e colori dispersi attorno a se stesso. Essi sono il suo bottino che trattiene e conserva, lo rimastica e lo ripete come una strofa. Sono forme che gli appartengono, nelle quali egli cade dentro, si impiglia, si appiccica.

giovedì 21 novembre 2013

la mostra di arte sacra a alessandria nel dicembre 1949 e alcuni episodi di censura

Nel dicembre 1949 sotto il patrocinio della Camera di Commercio di Alessandria e del Gruppo Artistico Provinciale(1) viene organizzata in Alessandria una Mostra Nazionale di Arte Sacra.
Cercando di ricostruire l’apparato iconografico della rassegna si evince che fossero presenti 123 opere divise tra pittura, scultura, ceramica, metallo e vetro. Chiaramente il tema dominante era quello religioso. Molte opere erano state realizzate da appartenenti al clero; tra queste viene ricordato un “Gesù” di Padre Angelico Pistarino, opera di maniera che sfrutta l’espediente dell’illuminazione del volto di Cristo, o un “Crocifisso” di Padre Fumagalli, assolutamente tradizionale nel segno e nella sostanza, come lo è pure l’”Annunciazione” di Padre Aldo Mei.
Più interessante, ma comunque costretta dalle indicazioni di un regolamento che cassava eventuali slanci interpretativi l’opera di un autore come Paolo Scapparone, che propose un “San Francesco rivive la crocifissione” nella quale si assiste alla spogliazione del poverello di Assisi in modo tale che possa identificarsi in Cristo e ricevere le stimmate. Un altro esempio positivo può essere ritrovato nell’“Ecce Ancilla Domini” di Gigi Morbelli, un dipinto nel quale si intravede l’ideale cristiano di contemplazione, analogamente al “Cristo deposto” e al “Cristo flagellato” di Gigi Cuniolo, anche se queste opere sembrano discostarsi dalla religiosità di facciata per valorizzare gli episodi in sé, accentuando gli aspetti prettamente pittorici. Infine le cinque ceramiche di Pippo Pozzi, autore capace di continuare il discorso del sacro con attenzione e acuto sentire. Oltre a questi pochi autori potrebbero essere citati Mario Baretta, Bruno Pruno, Gino Mazzoli, autore di una bella “Preghiera”, carica di contenuti realistici, Francesco Pasi, Nino Cassano, Gustavo Rossi, Mario Tassisto con una intensa “Crocifissione” e Gianni Patrone, autore di un affresco con la Sacra Famiglia che adornava il salone centrale chiuso da suggestive vetrate.



Nonostante la presenza di alcuni autori di buon livello – tra i quali anche Pietro Morando con il suo “Presepe” – il  risultato sarà assolutamente deludente come si può intravedere leggendo gli articoli in proposito pubblicati dalla stampa locale(2).
Il motivo dell’insuccesso della manifestazione – insieme a tutte le polemiche che hanno accompagnato questo evento – sono da attribuire soprattutto alla preoccupante e inopportuna intransigenza dell’allora vescovo di Alessandria. Monsignor Gagnor, il quale, attraverso uno dei suoi assistenti, impose delle regole molto severe relativamente alle opere da esporre, opere che dovevano rispondere esattamente ai canoni tradizionali dell’iconografia cristiana.
L’intervento del porporato alessandrino fu, per certi versi, devastante, in quanto provocò l’esclusione dalla mostra di artisti di rilievo nazionale. Per questo motivo e soprattutto in segno di solidarietà, alcuni pittori – tra i più importanti e conosciuti Felice Casorati – ritirarono le loro opere, con la conseguenza di impoverire notevolmente dal punto di vista artistico la manifestazione.
Sfogliando i giornali dell’epoca nel giudizio dei giornalisti traspare un evidente imbarazzato scoramento, senza mezzi termini si parla di “livello sconfortante” a proposito della mostra, si sottolinea che, nonostante l’enorme budget a disposizione il “risultato è palesemente negativo”, talmente negativo che pure l’onorevole Martino, allora sottosegratario alla presidenza del Consiglio, presente all’inaugurazione della mostra, rilevò nel suo discorso le notevoli carenze in proposito(3). Le motivazioni dell’insuccesso sono dovute soprattutto alla testardaggine della commissione religiosa(4) che con un atteggiamento censorio rifiutò un notevole gruppo di opere di grande valore. Oltre al già citato Casorati che quantunque non rifiutato scelse di ritirare il proprio lavoro, altri artisti avrebbero seguito il suo esempio portando via le loro opere se no vi fosse stato l’intervento di alcuni membri della commissione laica a dissuaderli. Le opere rifiutate furono sostituite da altri lavori, definiti “documenti di insipienza artistica”.
Fu questo, in sostanza, il motivo per cui la mostra fallì nel suo intento, fu dunque un attacco di censura ecclesiastica teso a impedire la liberta di espressione per valorizzare prodotti mediocri ma in linea con le direttive di una religione becera e oscurantista.
Tra gli interventi capaci di far riflettere quello di Pietro Morando(5) in una lettera pubblicata su Il Piccolo. L’intervento censura a sua volta l’operato della commissione ecclesiastica, unica colpevole delle esclusioni e solidarizza con gli artisti esclusi sottolineando la coerenza di un gesto come quello di Casorati. Ci si aspetterebbe, allora, un ritiro da parte anche di Morando, ma ciò non avviene perché Morando decide di partecipare alla Mostra d’Arte Sacra primeggiando sulle altre opere con il suo Presepio(6).

Fu dunque una pratica di censura preventiva quella operata dalla commissione del Vescovo Gagnor, una pratica che rappresentava il sistema più efficace per combattere la libertà di espressione, capace di indurre l’artista a un condizionamento tale da eliminare già alla fonte ogni situazione sgradita.
Soprattutto indirizzata contro le opere a stampa, la censura è ancora un mezzo per operare un ferreo controllo sul pensiero e sulla libertà di espressione, fatto di un sostanziale terrorismo, che un tempo si allargava a persecuzioni, incarcerazioni, torture e roghi.
La Chiesa ha sempre avuto un atteggiamento liberticida nei confronti di ogni manifestazione che in qualche modo potesse porre in discussione le proprie impalcature dogmatiche, ha sempre cercato di ricondurre la discussione non in chiave dialettica ma impostandola e imponendola come monologo.
Svolgere coerentemente e in libertà temi relativi al sacro è spesso operazione di impegno e di ingegno. È difficile essere innovativi di fronte a resistenze varie, spesso giustificate da un ottuso conservatorismo dettato più da motivi di opportunismo piuttosto che da autentici ideali estetici.
 Ne sa qualcosa il Caravaggio della prima versione del Matteo e l’angelo, una versione rifiutata dalla committenza perché il maestro aveva rappresentato il santo come un popolano analfabeta cui l’angelo guidava la mano durante la scrittura del suo vangelo(7), oppure Michelangelo la cui opera più famosa, il Giudizio Universale, ha subito la ricopertura delle parti più sconvenienti della nudità delle anime dei santi.
Un altro fatto significativo, e per certi versi esemplare, è avvenuto con l’elezione al soglio pontificio di Clemente VII nel 1592(8). Il 3 luglio dello stesso anno cominciò una visita nella basilica di San Pietro e poco dopo capitò davanti alla tomba del suo predecessore Paolo III che Guglielmo della Porta aveva completato nel 1574. La statua in bronzo del defunto pontefice era scortata da quattro statue marmoree di donne destinate a rappresentare le virtù che avrebbero illuminato il suo lungo pontificato: la Giustizia, la Prudenza, la Pace e l’Abbondanza. Tre delle quattro statue erano evidentemente discinte e, a giudizio di Clemente le virtù che dovevano simboleggiare non le difendevano dalla taccia di lascivia. Egli le giudicò indecenti e ordinò che fossero rimosse o almeno coperte. Così avvenne, anche se grazie all’intervento di Annibal Caro tre delle quattro statue rimasero come erano; soltanto  la più giovane delle figure femminili fu coperta da un pesante drappo metallico che ancora oggi è un tutt’uno con la statua del Della Porta.
Nel 1940 – 1941 Guttuso affrontò un tema che lo pose immediatamente a confronto con la raffigurazioni di figure di grandi dimensioni: la Crocifissione sul Gogota(9). Si trattava di una mansione ardua, ma il pittore vi lavorò con grande impegno che ne risultò un “quadro/manifesto”. Per sganciarsi dalla tradizione di questo motivo dipinto in mille modi diversi, all’inizio Guttuso penso perfino di ambientare la scena in un interno, per conferirle un impatto drammatico più originale possibile. Alla fine scelse lo spazio aperto, sfaccettandolo e stratificandolo, trasformandolo in un prisma spaziale che si rifletteva sulla superficie. Rappresentò le tre croci in diagonale, l’una dietro l’altra per sfaccettare e limitare i piani dello spazio. Poche figure secondarie: due cavalieri, tre donne piangenti una delle quali è la Maddalena che, nuda, si protende verso Cristo per pulirgli le ferite. La Crocifissione ebbe una risonanza straordinaria. Ottenne nel 1942 il secondo posto al prestigioso Premio Bergamo. Ma ciò ebbe come conseguenza l’alzata di scudi del mondo borghese e della Chiesa, che si indignarono per la figura della Maddalena nuda e stigmatizzarono l’artista siciliano come “pictor diabolicus”.
Ma quanti altri artisti sono stati colpiti da una sorta di censura? Quanti artisti hanno dovuto modificare la loro idea originaria subendo il ricatto della committenza? Quanta possibile creatività è stata contraddetta di fronte agli sguardi perplessi di chi ordinava l’opera d’arte? Ovviamente non c’è risposta, è possibile solo supporre, come ha fatto Marco Santagata, l’autore del Maestro dei Santi Pallidi, uno straordinario libro pubblicato da Guanda, vincitore del premio Bancarella 2003, nel quale il protagonista, un frescante attivo durante i primi anni del Quattrocento, ha un’intuizione straordinaria per affrontare in modo innovativo il tema dell’ultima cena, un’intuizione, quella di unire in un unico punto di vista Cristo e spettatore, che non viene compresa dalla committenza e viene interpretata come blasfema, sacrilega.

Per comprendere però l’atteggiamento della Chiesa è opportuno scendere ai livelli più bassi della dinamica sociale. L’arte spesso è un mezzo del mondo politico – dal quale non è assolutamente estranea nemmeno la Chiesa –  per ottenere consensi. Un fatto appariscente che non ebbe come protagonista diretto un appartenente al clero, per esempio,  fu relativo al comportamento del sindaco di New York Rudolph Giuliani che, durante la propria campagna elettorale, volendo dare l’impressione di una moralità ferrea, non esitò a censurare una Madonna di Chris Ofili perché conteneva immagini tratte da riviste porno e dello sterco e offendeva la sacralità del soggetto. Non stiamo a spiegare i significati simbolici dell’opera, assolutamente opposti alle paventate accuse di blasfemia urlate dal politico italoamericano: l’azione di Giuliani fu approvata dal clero, ma, come un boomerang, ritornò contro i detrattori dell’opera e favorì un enorme successo per l’autore di origine nigeriana e per la sua opera.
Usi simili della censura si sono avuti in altre numerose occasioni, dal “Piss Christ” di Andrea Serrano, un’opera in cui un crocifisso appare fotografato mentre fluttua nell’urina, alle fotografie dei membri eretti di Robert Mapplethorpe, alle opere di Maurizio Cattelan tra le quali è molto conosciuta la “nona ora” nella quale Giovanni Paolo II è steso a terra colpito da un meteorite.
È chiaro che la censura varia, da luogo a tempo e ultimamente la Chiesa presta ancora molta attenzione nell’oscurare il lavoro di certi artisti, anche se, nello stesso tempo, si dimostra assai più cauta. Soprattutto ai giorni nostri, colpendo un’opera ci si mette contro ben poca gente e si rischia di fare la felicità di qualcuno, cioè dell’autore, del gallerista, dei collezionisti, del curatore della mostra, grati di tanta pubblicità. L’arte, poi, conserva un valore simbolico imprescindibile, è un veicolo di un modo di pensare, di uno stile. Censurare, per la Chiesa, significa indicare quali valori ritiene importanti e non intende permettere di trasgredire. Infine, censurare un’opera d’arte è un’azione “a buon Mercato” perché colpisce un pubblico molto piccolo, ma la risonanza rischia di essere enorme, con il rischio di un ritorno mediatico che permette di ottenere per qualche giorno gli onori della cronaca e addirittura dividere la stampa tra favorevoli e contrari, con le conseguenze del caso.
La verità è che ogni epoca ha una sua censura e delle precise dinamiche legate a essa. In ogni caso, nonostante l’atteggiamento apparentemente benevolo,  dettato più da opportunismo di facciata piuttosto che da autentici propositi dottrinali, sembra che la Chiesa non voglia comunque lasciar spazio a un’interpretazione artistica che possa mettere in discussione, anche solo per un attimo, le sue monolitiche istituzioni. Per cercare una spiegazione è solo possibile fare delle supposizioni. La paura della Chiesa è probabilmente il sacrilegio, un sacrilegio multiforme, difficile da individuare,  nel quale è possibile individuare soprattutto un neanche troppo malcelato contenuto sessuofobico. 
Ormai, comprendendo che censurare è comunque favorire la diffusione di un determinato prodotto, la Chiesa si rivolge soprattutto alla difesa di se stessa e dei suoi simboli, come si evince da questo fatto di cronaca, un fatto che esplicita un’azione censoria che travalica i vecchi confini della censura e agisce direttamente sull’informazione, con la connivenza dei media, stroncando preventivamente e inopinatamente qualsiasi tentativo di discussione. L’11 novembre 1993 Giovanni Paolo II, ricevendo in udienza alcuni pellegrini, cade improvvisamente lussandosi una spalla. Dopo alcuni minuti i funzionari vaticani sequestrano tutte le pellicole dei reporter presenti e a nessun giornale viene consentito di pubblicare quelle foto. Il motivo addotto è che ciò arrecherebbe un grave danno al prestigio della Santa Sede. In questo atteggiamento si riesce a percepire, quasi estremo, il senso del sacrilegio, della profanazione di una persona che riveste un’auctoritas superiore, emanata direttamente da Dio(10).


(1) Il Gruppo Artistico Provinciale (GAP) si costituisce alla fine degli anni ’40 con l’intenzione di riunire in una sorta di consorzio tutti gli artisti attivi nella Provincia. Il gruppo è accessibile ai soli artisti, ma in modo pressoché indiscriminato, poiché, badando più agli aspetti quantitativi piuttosto che qualitativi, vengono ammessi sia artisti dilettanti, sia artisti professionisti; per questo il livello medio del gruppo è piuttosto basso. Il GAP raggiungerà la soglia dei 250 iscritti. Non è un caso che dopo poco tempo, alcuni artisti come Botta, Bruno, Canestri, Scapparone, Sassi, Taddei e Vignoli usciranno dal GAP per fondare un nuovo gruppo in onore di Pelizza da Volpedo (GPdV) capace di difendere la professionalità degli artisti di fronte allo scadimento qualitativo del GAP.
(2) Il Piccolo, dicembre 1949 e gennaio 1950.
(3) Tra le parole dell’onorevole Martino è importante riportare questo stralcio del suo discorso: “...negli ultimi secoli l’arte sacra è diventata dolciastra “arte alla saccarina”. Purtroppo tale decadenza è una realtà tangibile alla quale hanno contribuito (come causa accidentale) coloro i quali dovendo scegliere opere a sfondo religioso esigevano dall’artista bozzetti riproducenti temi già noti creati dai giganti dell’arte, producendo in tal modo pessimi plagi”.
(4) Per la scelta delle opere da esporre fu istituita una commissione giudicatrice composta da membri “laici” e membri “ecclesiastici”
(5) ) Il Piccolo, gennaio 1949.
“ci sentiamo in dovere di chiarire il grosso equivoco provocato dagli organizzatori della Mostra d’Arte Sacra. Ci è spiaciuto che artisti di fama nazionale siano stati rifiutati dalla commissione ecclesiastica. Il gesto ha sminuito il valore della rassegna d’arte e ha provocato anche il ritiro delle opere di un grande pittore quale è Felice Casorati. Un fatto simile non credevamo potesse avvenire in Alessandria, città che vanta una grande e nobile tradizione artistica. Nella provincia di Giovanni Migliara, di Medardo Rosso, di Pelizza da Volpedo, di Angelo Morbelli, di Cesare Tallone fino a Carlo Carrà, l’atto ha rasentato l’offesa all’arte. Noi ci sentiamo il dovere perciò di manifestare la solidarietà con gli artisti ingiustamente esclusi e protestiamo anche se qualcuno dei nostri amici non ha voluto, per la buona riuscita della mostra, imitare il giustamente risentito gesto di Casorati. E vogliamo dire al pubblico alessandrino che gli autori rifiutati sono artisti di grande valore.
(6) Dino Molinari, Appunti per una storia del collezionismo alessandrino, nel più vasto quadro della nostra cultura figurativa del ‘900, in Rivista della Camera di Commercio di Alessandria, parte seconda, n. 1, 2002. a proposito di quest’ultimo episodio conclude ironicamente il suo scritto dicendo: “questa è una perla di un’antologia tutta da scrivere sulla ordinaria extra-vaganza alessandrina”.
(7) Episodio riportato da parecchi saggi su Michelangelo Merisi. In proposito due interventi paiono decisamente più critici: R. Bassani, F. Bellini, Caravaggio Assassino, Donzelli, Roma, 1994 e D. Fo, Caravaggio al tempo di Caravaggio, Franco Cosimo Panini, Modena, 2005.
(8) R. Zapperi, la leggenda del papa Paolo III, Bollati Boringhieri, Torino, 1998.
(9) W. Haftman, Guttuso, Giunti, Firenze, 2005.
(10) P. Marazzanio, la Chiesa che censura, Massari Editore, Bolsena (VT), 1995.

lunedì 18 novembre 2013

alberto boschi: oltre il nero oltre il colore

Due aree nettamente separate dello spazio espositivo ospitano un significativo numero di opere di Alberto Boschi; da una parte gli esiti della grafica, dall’altra i lavori pittorici. Ma la divisione tra i due gruppi di opere è solamente tecnico, poiché, dal punto di vista spirituale e estetico i soggetti trattati da Boschi sono gli stessi.


Boschi ama rielaborare ciò che gli offre la natura che lo circonda. Egli è un pittore che interagisce con la realtà, si lascia penetrare empaticamente da questa per donare alla vista un prodotto di altissima qualità pittorica. L’avvicinamento alla sua opere avviene attraverso la percezione della ricchezza cromatica della sua tavolozza che egli adopera totalmente, costruendo le migliaia di sfumature alla base dei suoi componimenti. A volte, come avviene in alcune opere grafiche, i colori sono dei lampi che riescono a equilibrare dinamismi centrifughi infine costretti a situazioni di calma primordiale; a volte, come invece appare più evidente nel lavoro pittorico, i colori sono parte di un processo in divenire, un immergersi ravvicinato nella ciclicità stagionale alla quale Boschi partecipa con tutto se stesso. In questo caso il colore che appare dapprima confuso, sembra poi mischiarsi in densi gorghi magmatici che si dissolvono in apparizioni di forme che finiscono per costruire parti di universo assolutamente riconoscibili.



Il secondo step percettivo è indirizzato a far comprendere l’elemento segnico. Si tratta di un processo consequenziale a quello cromatico, poiché la stesura stessa del colore sulla tela o, per la grafica, l’incisione della lastra di zinco, determina una sottile linea di confine tra una tinta e un’altra, tra un’area più marcata e un’altra. È proprio questa linea di confine che diventa immediatamente quel segno su cui Boschi comincia un’azione gestuale che dimostrerà l’adattabilità della materia. In questo modo la materia è costretta di volta in volta a assottigliarsi fino alla diafanità o a raggrumarsi fino alla tridimensionalità. Le superfici tendono così a modificarsi, dando l’impressione di potenti variazioni telluriche, di innalzamenti e sprofondamenti, di un filosofico trascorrere del tempo che per Boschi diventa elemento essenziale nella descrizione del sua straordinaria realtà.

lunedì 11 novembre 2013

chine di enrico colombotto rosso per giorgio panelli

La motivazione alla base di questa piccola rassegna è sostanzialmente quella di continuare a mantenere viva la memoria presentando dei lavori, possibilmente inediti, di Enrico Colombotto Rosso. In questi termini, la sede di Villa Vidua di Conzano (che Colombotto Rosso definì “un punto di arrivo”) si accinge a diventare luogo privilegiato in tal senso, con l’intenzione di proporre con appuntamenti più o meno fissi, testimonianze della poliedrica attività di questo autore.
Nel 2008 Piergiorgio Panelli completò una propria silloge di componimenti poetici. Era un periodo difficile della sua esistenza, durante il quale senti l’esigenza di descrivere queste sue sensazioni avvalendosi anche del testo poetico, oltre che di quello pittorico, più tradizionalmente legato alla suo modo di esprimersi. Trascinato da un sincero legame di amicizia chiese a Enrico Colombotto Rosso di illustrare alcuni suoi testi: alla fine nacque questa raccolta di quindici chine che offrono un’interpretazione ulteriore a i versi di Panelli.
Oltre al valore estetico di questi lavori è opportuno sottolineare che ogni disegno si connette perfettamente al testo di Panelli. L’operazione di Colombotto Rosso non fu “di maniera”, egli produsse qualcosa che si legava indissolubilmente al testo e che faceva emergere quegli aspetti più cupi del momento immortalato da Panelli, aspetti rinchiusi tra le pieghe delle parole, che il pittore torinese è riuscito a cogliere grazie alla sua straordinaria sensibilità.
Questi lavori potrebbero essere fruiti anche se separati dal testo per il quale nacquero, ma, nonostante tutto, perderebbero parte della loro forza, di un’energia che riesce a spiegarne tutta la grazia oscura e goyesca; questi lavori non perderebbero nulla della loro bellezza anche se dovessero essere osservati separatamente, ma sicuramente diventerebbero simili a esercizi di stile, frasi compiute che però non riuscirebbero a completare il senso di un discorso più ampio.
Forse, anche sulla scia di questa esperienza, Colombotto Rosso cominciò a lavorare all’illustrazione dei “Fleurs du mal” di Baudelaire. Ne venne fuori un libro di alcune centinaia di pagine in cui egli raccoglieva frammenti di versi del poeta francese e ne mostrava un significato, proprio attraverso i suoi disegni. Forse  un piccolo testamento spirituale che potrebbe offrire un ultimo dato di interpretazione alla genialità dell’ultimo surrealista.

lunedì 4 novembre 2013

gioco a bra_palazzo mathis

È una mostra particolare, di difficile giudizio critico. Per questo è impensabile soffermarsi sull’opera di un singolo artista (tutti attivi in Piemonte soprattutto nel Novecento), per questo bisogna considerare la rassegna alla luce dello sviluppo di un tema, quello del gioco, e concentrarsi solo su questo. Qualsiasi altra operazione risulterebbe discutibile.
Sicuramente il lavoro del curatore, Gianfranco Schialvino, è stato imponente, soprattutto nel momento in cui ha dovuto individuare i percorsi capaci di valorizzare dei lavori che, decontestualizzati dal corpus di un artista, appaiono quasi spauriti. Eppure, vi è qualcosa che funziona e ci porta a comprendere l’assetto di un discorso polifonico che si afferma per il suo carattere complessivo. Ne risulta una commistione di stili, scrive il curatore, progetti e provocazioni che accentua le disparità più evidenti per invogliare a individuare le affinità, le concordanze e le intenzioni, sorprendentemente parallele quando non addirittura convergenti.
L’attenzione al mondo del gioco ha fatto sì che molti artisti, fin dall’antichità raccontassero qualcosa di questa intrigante attività. Il gioco è fatto per lasciare spazio alla libertà di esprimere se stessi e la propria fisicità, per far confrontare il proprio intelletto con quello degli altri, per rispettare delle regole. È in questi termini che devono essere lette molte di queste opere. Però, se da un lato si può facilmente percepire l’aspetto “documentaristico” di molti artefatti, dall’altro, l’azione interpretativa è sicuramente più ardua. Allora, ecco che entra in gioco – metafora quanto mai opportuna – l’arte, nella sua accezione ludica. In fondo, alla base di moltissime opere si percepisce la precisa volontà da parte dell’artista di “divertirsi”, di giocare con la sintassi figurativa per creare combinazioni di frasi. In questo senso devono essere percepiti molti dei lavori esposti, come, per esempio, le due terrecotte dipinte di Enrico Colombotto Rosso. Infatti, già la particolarità del materiale, insolito per questo pittore, è da pensare come un’indicazione ludica, cui si aggiunge l’accesa cromia che costruisce la struttura fisica dei volti, altro dato insolito che testimonia l’idea di giocare con i colori e la materia in un lavoro assolutamente suo.