martedì 26 marzo 2013

alessandro mendini: riflessioni sulla sua opera

Alessandro Mendini,   considerato uno dei “padri” del postmodernismo italiano (o meglio “neomodernismo”, definizione da lui preferita), è architetto e designer che non ha mai mancato l’occasione per emettere distinte provocazioni progettuali, tese a smuovere il clima del design italiano.
Direttore di riviste, prima “Casabella”, poi “Modo” e ancora “Domus” (dal 1980 al 1985), ha sempre scelto di affrontare argomenti nuovi, insoliti e un po’ inquietanti: dai problemi merceologici alla persistenza del kitsch nella cultura occidentale, dal design delle armi alle più audaci sperimentazioni artistiche.
I suoi lavori sono spesso intriganti, sono lavori che colpiscono per la forza visiva che sanno emanare. Dotate di questa energia, infatti, ricordiamo alcune opere che hanno caratterizzato il lavoro di Mendini: si tratta dei pezzi della “Proust Ceramic Collection”, tra i quali  vi è la celebre sedia Proust.
La poltrona è trasformata in avvenimento artistico, rendendola così particolare. Essa emana un fascino seducente perché perde completamente l’essenzialità tecnica, il destino d’uso cui avrebbe potuto essere impiegata. L’intervento dell’architetto/designer risulta molto efficace, e questo spiega in parte la presa che può avere sul pubblico. La decorazione, fine a se stessa ma ben meditata, acquista un altro significato. Non si tratta soltanto di un intervento decorativo, poiché la poltrona si trasforma in un elemento ben presente e ben visibile nella struttura stessa dell’impianto estetico generale. La poltrona si impone per vivacità interiore, mischiando un certo carattere visionario e presunta funzionalità. Infatti, in questo caso, non si deve discutere di funzionalità, ma di energia intellettuale, determinata attraverso il fondersi di forma e fluidità, di colori e di citazioni storico/artistiche. Il significato di questa concezione estetica, a prescindere da qualunque giudizio soggettivo, non si riflette sull’uso pratico, ma semplicemente sull’oggetto che cambia per colore e dimensione, rimanendo immobile per forma e materiale.
Quindi, per Mendini è soprattutto una questione culturale, una questione che trova conferma anche nella serie, prodotta per superegodesing nel 2008, delle celebri “Dodici colonne”: tre gruppi, ciascuno di 4 colonne, che si differenziano tra loro per la diversa disposizione degli elementi che le compongono. Anche in questo caso Mendini richiama alla memoria strutture mitiche, strutture che ci portiamo appresso come bagaglio inconscio: colonnati preclassici e ceramiche antiche. La linea curva e l’estremo dinamismo di queste ceramiche colorate sovrapposte, che arrivano ad un altezza di 180 centimetri, sono accentuati dai riflessi mimetici che ingrandiscono a dismisura le superfici più esterne, dialogando con lo spazio nel quale fruitore e oggetto si trovano immersi.

lunedì 25 marzo 2013

dall'informale alla pop art a vercelli

Durante gli anni Sessanta il mondo visse una stagione concitata, fatta di ingenue fiducie nel futuro e di drammatiche contraddizioni, di sicurezze, di angosce, di irreversibili conquiste e di vertiginose cadute. L’occidente visse un periodo di benessere economico senza precedenti, con l’industria dei beni di consumo che diffondeva ovunque il suo credo. Le vecchie ideologie sociali sembravano incapaci di dare contro a questi sviluppi, creando i presupposi per una nuova società prammatica e agguerrita.
La cultura guardò con occhi critici questa trasformazione,di cui coglieva gli aspetti più inquietanti: l’identificazione della personalità con i beni posseduti, lo sperpero di risorse, l’angustia di un futuro dominato dalla tecnologia. La dipendenza dell’uomo dall’oggetto divenne costante motivo di riflessione.
Per esempio, nel 1962 Samuel Becket, uno degli interpreti più sottili della situazione umana del nostro tempo, ambientava il suo lavoro teatrale "Giorni felici" in un allucinato paesaggio postatomico abitato da due deliranti sopravvissuti; e a livello di diffusione di massa fu Antonioni, con l'Eclisse del 1962, Blow up del 1966 e Zabriskie point del 1969 a scancandire quel decennio con una riflessione sempre più incalzante sull'alienazione dell'uomo occidentale in un universo in cui l'alternativa si poneva sempre fra distruzione e rivolta
la letteratura conobbe in Francia una nuova stagione con la scuola del Nouveau Roman che mirava a disegnare una nuova fisionomia dello scrittore e dell'opera lettraria più aderente ai nuovi problemi che la trasformazione sociale imponeva. gli scrittori proponevano un mondo immobile, impersonale, all'interno di un'esistenza totalmente oggettivata. nel 1961 uscì un film di Alain Resnais dal titolo "L'anno scorso a Marienbad", con la sceneggiatura di Alain Robbe-Grillet, esponente di punta del Nouveau Roman, nel quale la minuziosa descrizione di ambienti e particolari creava un'atmosfera fredda e ambigua, colorata di angoscia esistenziale.
Dunque gli anni Sessanta, con le loro contraddizioni, sono il periodo durante il quale sono stati creati i lavori che sono proposti nella mostra vercellese organizzata in collaborazione con il Peggy Guggenheim Museum, presentati qui per la prima volta al di fuori del museo veneziano.
La mostra intende dunque illustrare il panorama artistico degli anni Sessanta, attraverso il confronto tra la scena creativa statunitense e quella europea. In questo dialogo è possibile cogliere la maturazione di una dimensione totalmente nuova della cultura visiva. Il 1964 è l’anno del trionfo della Pop Art americana alla Biennale di Venezia, che assegna a Robert Rauschenberg il premio riservato a un artista straniero, spostando definitivamente il fulcro del sistema artistico dall’Europa agli Stati Uniti.

La mostra mette a confronto tre momenti fondamentali che illustrano efficacemente l’arte di questi anni.
Il primo è rappresentato dal superamento dell’arte informale in direzione di nuovi segni e spazi, in cui materia e linguaggio diventano luoghi di un’inedita sperimentazione. In parallelo è presentata l’esperienza di riduzione espressiva individuata dalle nuove indagini monocrome e spaziali, espressa, fra gli altri, da artisti come Fontana e Castellani.
Momento culminante della mostra è la rivoluzione iconica e mediatica che approda alla nuova figurazione Pop, fondata sulla reinterpretazione e dissacrazione della tradizione visiva secondo le coordinate della comunicazione contemporanea e incarnata da autori come Johns, Rauschenberg, Lichtenstein e Warhol.

domenica 17 marzo 2013

che cos'è un'incisione - grafica ed ex libris 2013 a casale

L’incisione è un procedimento per ricavare da una matrice realizzata manualmente, delle immagini riproducibili in numerosi esemplari.

I metodi più comuni di stampa sono: la calcografia, la xilografia, la litografia e la serigrafia.
Da un certo punto di vista è pure incisione, anche se ottenuta meccanicamente mediante un procedimento in parte ottico, in parte chimico, la fotografia.

Definendo più in dettaglio questi procedimenti scopriamo che la calcografia definisce quelle stampe ricavate da una lastra di metallo sulla quale è tracciato un disegno originale i cui solchi sono ottenuti direttamente attraverso l’azione di punte metalliche, o indirettamente con acidi. L’incisione diretta è anche chiamata puntasecca, dal nome di uno degli strumenti per intaccare la lastra; quella indiretta, acquaforte, dall’antico nome dell’acido. Nell’acquaforte la lastra di rame viene ricoperta da uno strato di vernice resistente all’azione corrosiva dell’acido; il disegno viene tracciato asportando con una punta la vernice e, successivamente, la lastra viene calata nell’acido nitrico che aggredisce solo le parti liberate dalla vernice, incidendole più o meno profondamente a seconda della durata del bagno e del grado di diluizione dell’acido. Quando la profondità dei solchi è quella desiderata, la lastra viene inchiostrata e ripulita, in modo che l’inchiostro resti soltanto all’interno dei solchi. A quel punto si passa alla stampa vera e propria mediante il torchio, dove un rullo metallico pressa la lastra inchiostrata contro il foglio inumidito. Per ottenere più morbidi effetti di chiaro/scuro si adopera la cosiddetta acquatinta, spolverizzando la lastra di bitume e altre polveri resistenti all’acido, in modo che questo intacchi solo gli interstizi tra i granelli di polvere. In questo modo si crea una rete puntiforme che determina un valore chiaroscurale più o meno intenso.

La xilografia usa come matrice una lastra di legno dalla quale vengono asportate, con sgorbie di varia forma e grandezza, le aree che nella stampa dovranno risultare bianche. Si ottiene così un tracciato in rilievo che ricoperto di inchiostro e premuto contro un foglio umido lascia l’impronta voluta.

La litografia adopera come matrice una pietra. La lastra viene perfettamente levigata se il disegno è eseguito a penna, oppure viene resa rugosa se il disegno è fatto con un pennello o la matita litografica. Eseguito il disegno, la lastra viene ricoperta da uno strato di mordente leggero che la rende più porosa. Una volta seccato, lo strato è tolto con acqua; a questo punto la lastra è passata con gomma arabica e trementina per togliere i residui. Un’ultima passata con trementina e bitume e la lastra è pronta. Essa viene bagnata con acqua e le viene passato sopra un rullo inchiostrato. L’inchiostro è ricevuto dalle parti grasse – quelle disegnate – e rifiutato dalle altre. Sul foglio fatto aderire alla matrice mediante una pressa compare così l’immagine.

La serigrafia è un tipo di stampa ottenuta per contatto. La matrice è infatti costituita da un tessuto di seta fissato a un telaio e parzialmente mascherato in modo da chiudere la trama dove non si vuole che filtri l’inchiostro. Quando il denso inchiostro è spianato con una spatola sul retro della matrice, esso attraversa le aree lasciate scoperte e va a imprimersi sulla carta secondo il tracciato desiderato.

Chiarito in parte il signigicato di un termine talvolta adoperato assai genericamente, la rassegna di Casale Monferrato è ormai è una realtà consolidata, una realtà che presenta opere di grafica provenienti da tutto il mondo, una delle poche, o forse l’unica esibizione "fissa" a carattere internazionale della provincia di Alessandria. l'edizione di quest'anno è dedicata quest’anno a Luigi Servolini. Conosciuto e apprezzato critico d’arte e incisore, Servolini si è diplomato all'Accademia delle Belle Arti di Carrara. Studioso di storia dell’arte medievale e moderna, nel 1935 si fa promotore della creazione di un Museo della Xilografia a Carpi, invitando xilografi italiani a inviare opere, che oggi costituiscono il nucleo di un importante museo tematico. È stato presente in ben sei Biennali di Venezia e sette Quadriennali di Roma, e ha al suo attivo più di trecentocinquanta mostre personali.
Secondo un non fondato luogo comune, Grafica ed Ex Libris sembrano appassionare soltanto un pubblico di esperti, una élite di intenditori che, formatasi sulle pagine del famoso manuale di Ferdinando Salamon, insegue le sottili linee del bulino, valuta l’imprimitura a secco di quel particolare tipo di stampa. È chiaro che non si va molto lontani dalla verità affermando che gli intenditori e i conoscitori di stampe siano veramente pochi. Però anche chi non è avvezzo a questa “arte minore” presentandosi al cospetto delle opere esposte rimarrà sicuramente affascinato da quelle linee, scoprendo anche che tra acqueforti e xilografie ci sono pure disegni e inchiostri, all’interno di un più complessi circuito artistico che si allarga a includere numerosi sistemi creativi.
Soffermandosi sui lavori esposti (a questa edizione hanno partecipato più di ottanta artisti) si nota che ci sono opere di grafica e Ex Libris – fogli di carta applicati nel frontespizio che identificano la proprietà di un libro – che appaiono come autentici capolavori, sia per creatività, sia per valore artistico. Per questo non conviene – e non sarebbe nemmeno eticamente giusto – segnalare il nome di un artista in particolare, ciascun visitatore sarà attirato da una delle sue immagini, sarà colpito dall’essenzialità di certe opere oppure dal dettaglio di altre, dalla bellezza drammatica di alcune o dalla classicità di altre: sarà infine chi osserva a giudicare.

lunedì 11 marzo 2013

alessandro traina personale al triangolo nero

Le opere di Alessandro Traina hanno una duplice valenza. Da una parte rispondono all’esigenza pittorica di rapportarsi alla verticalità del muro, dall’altra, esse occupano lo spazio del contenitore che le ospita con contenuti aggetti, dilatando la loro dimensione per assumere una precisa connotazione plastica.

Soffermandosi sulle opere più recenti, si ha l’impressione di essere di fronte a dei lavori semplici, risolti attraverso l’aggregazione geometrica di barre metalliche coperte da fasciature di garza che richiamano le tonalità ossidate del ferro e il bronzo. L’aggetto di queste strutture è appena percepibile, in quanto Traina insiste maggiormente sulla ripetizione di moduli quadrangolari che scandiscono lo spazio.  Una leggera bicromia aiuta l’occhio a rincorrere i limiti di aree che, nonostante l’immobilità di questi apparati, sembrano perdersi nel progredire di variabili infinite.

I lavori realizzati intorno al 2008 rispondono in modo assai marcato a quella caratteristica già esplicitata di “occupazione” dello spazio espositivo. Essi sono sculture a tutti gli effetti, che partono dall’idea di flettere il piano per uscire in modo netto dal rapporto base + altezza. Il volume che si compone è estremamente variabile, un volume che si struttura in modo differente a seconda del punto di osservazione.  L’opera, pur mantenendo intatto il proprio spirito razionale, basato su precisi calcoli matematici, assume però delle connotazioni organiche, creando delle tensioni che favoriscono la sensazione di un continuo movimento teso a voler piegare le sottili barre metalliche.
Tutto risulta molto leggero, e la conferma di questa sensazione è determinata dalla sperimentazione che Traina compie con la carta, in opere che anticipano – o completano – il lavoro che l’artista esegue con il metallo.  La piegatura che egli opera sulla materia è dello stesso tipo, più calligrafica quella cartacea, più netta quella metallica. Il movimento è, in entrambi i casi, contenuto, mai netto, anche se l’esito è quello di un improvviso spezzarsi, uno spezzarsi che però viene rimandato nel tempo, con i cliché di quella stessa infinita tensione che regola l’universo.

martedì 5 marzo 2013

marco porta a palazzo vitta - abito il sogno che mi abita

È una mostra che nasce per essere ospitata nelle stanze del settecentesco palazzo Natta – Vitta ed è per questo che nulla di questo allestimento suona stonato. Dialogare con uno spazio non è mai cosa semplice, eppure, nonostante il fatto che le sale in questione non siano state adattate a ospitare opere d’arte, l’effetto è drammatico, con un esito scenografico che completa esteticamente l’apparato.
Un gruppo di opere risponde a precise esigenze geometriche. Esse propongono su uniformi spazi bianchi aree ben definite riempite di mosche. Chiuse da invisibili limiti, gli insetti compongono figure piane che, nell’illusoria finzione rappresentativa, richiamano i valori organici di certe manifestazioni artistiche. Questi piccoli spazi si animano e pulsano di vita, cambiano con il variare della luce, si pongono come elementi di un mito che identifica l’arte come imitazione della natura. E proprio la mosca, a mio avviso, è la base per comprendere il raffinato discorso estetico di Marco Porta. La mosca è il mezzo per penetrare nell’ambiente che ci circonda. L’artista sembra voler richiamare uno degli animali che nel nostro esistere si coprono di un’aura di insignificanza per evocare la grandezza dell’universo. Alla natura non interessa né il troppo piccolo né il troppo grande, essa è. Le forme geometriche sulle quali l’artista ragiona sono le stesse che possiamo trovare sparse nel cosmo, anzi, esse sono il cosmo, il principio ordinatore che si contrappone al caos. Anche il ciclo dell’azoto – esplicitato dal materiale delle due installazioni “dare nomi alle cose” – costringe il provocatoriamente a fare i conti con il concime, con il nulla dal quale esce il “qualcosa”.


Ancora legato alla volontà di dialogo con la natura è il grande lavoro che occupa i piani inferiori dell’edifico. C’è qualcosa di berniniano in questa scelta rappresentativa, una scelta che mette al centro della rappresentazione l’acqua. In effetti, è questa sostanza l’autentica protagonista dell’artefatto: essa, infatti,  si mimetizza tra i rami bronzei dell’albero sacrificato. È sempre l’acqua a scendere in una sorta di ruscello che nella sua corsa si getta in un mare – o un lago, non è forse un caso che in tedesco mare e lago siano identificate da una stessa parola? – sulla cui superficie una mano disegna invisibili linee d’acqua. Tutto scorre, tutto si muove nell’arte di Porta, provocando quelle impercettibili trasformazioni che anche ciò che sembra eterno subisce quasi senza accorgersi.

venerdì 1 marzo 2013

street art

Spesso si è identificata la periferia urbana con il colore grigio. In effetti, il susseguirsi di muri in cemento e asfalti, con la loro piatta regolarità, ha finito per scolorire quegli spazi rendendoli silenziose fotografie in bianco e nero. Con l’idea di rivoluzionaria di cambiare qualcosa nella misera vita del suburbio, negli anni Settanta cominciò a prendere corpo un fenomeno destinato a diffondersi in quasi tutto il mondo, un fenomeno che prevedeva la realizzazione di disegni e di scritte sui muri dei luoghi pubblici, che Gillo Dorfles segnalò in un suo testo definendolo con il nome di “Graffiti art”. Probabilmente, per quanto riguarda l’Italia, fu la prima volta che in un saggio si fece rifermento a questa forma d’arte, sdoganandola da tutte le perplessità che questo fenomeno – che al suo interno vantava nomi come Basquiat o Keith Haring – poteva suscitare nella critica meno radicale.
Ovviamente la Street Art, fortemente legata a forme di sottocultura urbana, con una sua poetica ben precisa, tesa alla creazione di immagini che si rifanno fortemente al presente, giunse anche in Italia. Probabilmente, le prime crews agirono nelle aree metropolitane maggiori, poi, si diffusero anche nelle zone provinciali, con criteri e modalità non molto dissimili. Molte città conobbero una stagione creativa abbastanza interessante, con apparizioni di immagini sparse in vari luoghi, veicolate anche da accordi con i Comuni attraverso gli Assessorati alle politiche giovanili.
Questa “avventura”, che se coltivata con una certa attenzione avrebbe potuto condurre a esiti interessanti, in molti casi, finì invece in sordina, con lo smantellamento di tutti quei contatti che oggi avrebbero potuto offrire delle ottime occasioni di valorizzare certi spazi.
La Street Art è però assai vitale, coinvolgendo un numero incredibilmente alto di adepti, anche se, talvolta, chi la pratica non ha la coscienza di essere considerato tale. Dubuffet percepiva la produzione di un segno come gestualità primitiva, un’azione che verteva sull’istinto, sul gesto e sul delirio. Sulla scia di questa definizione conviene separare che fa Street Art da chi si limita a essere “writer”. Quest’ultimo si dedica all’evoluzione della lettera, di fatto eseguendo un firma, un segno che viene gettato rapidamente su un muro. Al contrario lo Street Artist  desidera diffondere un’immagine con soggetti, un’immagine determinata attraverso uno stile riconoscibile che, per il suo carattere ossessivo, permette, anche a chi si muove distrattamente per le città del mondo, l’immediata identificazione di un determinato Streeet Artist.
La Street Art è fenomeno importante e da tenere in considerazione, perché è lo specchio della società attuale. Essa deve essere definita arte figurativa a tutti gli effetti,  è eseguita con mezzi contemporanei come spray e marker e cerca di offrire una nuova identità agli spazi in cui agisce. In questo modo si crea un poetica urbana che fa leva sul nostro quotidiano, una poetica che alterna azioni illegali a azioni istituzionalizzate – generando talvolta  un’evidente contraddizione – ma che, grazie al filo conduttore che anima l’intero percorso espressivo, di ogni singolo creativo, riesce comunque a essere armonica.