martedì 5 marzo 2013

marco porta a palazzo vitta - abito il sogno che mi abita

È una mostra che nasce per essere ospitata nelle stanze del settecentesco palazzo Natta – Vitta ed è per questo che nulla di questo allestimento suona stonato. Dialogare con uno spazio non è mai cosa semplice, eppure, nonostante il fatto che le sale in questione non siano state adattate a ospitare opere d’arte, l’effetto è drammatico, con un esito scenografico che completa esteticamente l’apparato.
Un gruppo di opere risponde a precise esigenze geometriche. Esse propongono su uniformi spazi bianchi aree ben definite riempite di mosche. Chiuse da invisibili limiti, gli insetti compongono figure piane che, nell’illusoria finzione rappresentativa, richiamano i valori organici di certe manifestazioni artistiche. Questi piccoli spazi si animano e pulsano di vita, cambiano con il variare della luce, si pongono come elementi di un mito che identifica l’arte come imitazione della natura. E proprio la mosca, a mio avviso, è la base per comprendere il raffinato discorso estetico di Marco Porta. La mosca è il mezzo per penetrare nell’ambiente che ci circonda. L’artista sembra voler richiamare uno degli animali che nel nostro esistere si coprono di un’aura di insignificanza per evocare la grandezza dell’universo. Alla natura non interessa né il troppo piccolo né il troppo grande, essa è. Le forme geometriche sulle quali l’artista ragiona sono le stesse che possiamo trovare sparse nel cosmo, anzi, esse sono il cosmo, il principio ordinatore che si contrappone al caos. Anche il ciclo dell’azoto – esplicitato dal materiale delle due installazioni “dare nomi alle cose” – costringe il provocatoriamente a fare i conti con il concime, con il nulla dal quale esce il “qualcosa”.


Ancora legato alla volontà di dialogo con la natura è il grande lavoro che occupa i piani inferiori dell’edifico. C’è qualcosa di berniniano in questa scelta rappresentativa, una scelta che mette al centro della rappresentazione l’acqua. In effetti, è questa sostanza l’autentica protagonista dell’artefatto: essa, infatti,  si mimetizza tra i rami bronzei dell’albero sacrificato. È sempre l’acqua a scendere in una sorta di ruscello che nella sua corsa si getta in un mare – o un lago, non è forse un caso che in tedesco mare e lago siano identificate da una stessa parola? – sulla cui superficie una mano disegna invisibili linee d’acqua. Tutto scorre, tutto si muove nell’arte di Porta, provocando quelle impercettibili trasformazioni che anche ciò che sembra eterno subisce quasi senza accorgersi.

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