Il progetto fotografico di Enrico Barberi nasce prima di
tutto per definire l’identità di un luogo e della sua gente. Alessandria è una
città che negli ultimi anni ha visto, è inutile nasconderlo, una continua
decadenza. Molte volte, come alessandrini, ci si è sentiti spaesati,
disorientati, smarriti, privati di un simbolo che fosse capace di connettere il
territorio urbano alla vita quotidiana di chi ci abita. Se si riflette, alla
base di tutto vi è stata una serie di distruzioni e demolizioni che hanno sfilacciato
i rapporti tra le generazioni, che hanno impedito i naturali ricambi e la
possibilità di perpetrare determinati riti.
Di fronte a una sistematica mancanza di punti di
riferimento, anche gli Argini sono diventati lentamente un luogo di aggregazione.
A Alessandria non esiste un parco pubblico nel quale i suoi abitanti possono
fare dello sport. Gli Argini infatti, non sono un parco, fanno parte del
paesaggio che caratterizza l’area chiusa tra il Cimitero e i fiumi Bormida e
Tanaro. È un paesaggio fluviale cui i contadini che vivevano in quella zona
hanno ricavato ampie porzioni di terreno coltivabile. La pista che abitualmente
viene sfruttata per gli allenamenti dei podisti si snoda con geometrica
regolarità in quel contesto. Barberi ha dapprima fermato il suo occhio su
quello spazio, ha indagato l’area esprimendo qualcosa che ha a che fare con le
sue sensazioni, definendo – come in certi fotografie di Minor White – il
dialogo tra l’aspetto materiale e simbolico del paesaggio. Nei suoi scatti le
stagioni si susseguono con la loro identificabilità più immediata, quella
metereologica, lasciando il ruolo di protagonista al normale susseguirsi del
tempo. Ma Barberi non si limita a realizzare foto di esterni, egli le riempie,
le anima con delle presenze umane. Si tratta appunto di quei podisti che hanno
eletto quel luogo come loro palestra, come spazio nel quale trovarsi e
aggregarsi. Essi, nel momento in cui entrano nell’obiettivo, sono consapevoli
di essere fotografati, ma c’è una informalità in queste immagini che suggerisce
che queste rappresentazioni sono state ricavate con azioni fotografiche veloci,
quasi come se Barberi volesse fare delle istantanee per documentare un ricordo.
È un tipo di fotografia che però riguarda un gruppo sociale che normalmente non
vediamo nella nostra vita nelle rappresentazioni visive più inflazionate.
Infatti, la descrizione di un rituale del genere dilata il motivo della
presentazione di esterni fino a includervi quello sociale. Ciò che si può
osservare è comunque destinato a diventare un documento storico, permetterà di
vedere ciò che accadeva in un determinato periodo a Alessandria. Farà capire
che negli anni della crisi, almeno lo sport dilettantistico, permetteva
un’identificazione e una “solidarietà di corpo” che a altri ambiti era
preclusa. A proposito di questa attività, possiamo parlare tranquillamente di
“cultura”, poiché quello che intende mostrarci Barberi è una delle tante forme
di resilienza che una comunità attua per continuare a sopravvivere. Quindi ci
troviamo di fronte alla documentazione di un processo attraverso il quale si
consolida un modello che diventa identificativo e caratterizzante. Tutto ciò,
allora, altro non è che l’adattarsi a una situazione negativa sfruttando la
voglia di far emergere la propria individualità pur nella coscienza di fare
parte di un gruppo.
Questo concetto emerge anche nella significativa serie di
ritratti che Barberi realizza ai podisti che frequentano gli Argini. I soggetti
sono posti frontalmente con alle spalle un muro dalla chiara intonacatura: la
composizione, che non nasconde un accenno di (auto)ironia, acquista, attraverso
un pirandelliano umorismo, solennità. Gli atleti guardano l’obiettivo
indossando i loro “abiti da corsa”. Nella maggior parte dei casi si tratta di
“vicini di casa”, di persone che non hanno velleità di protagonismo e di
risultati. Barberi riesce a cogliere questo importante elemento psicologico
costruendo un’entità che fonde l’individualità di ciascuno con l’appartenenza
al gruppo. L’inserimento tra i ritratti di quello di un’atleta di fama mondiale
come Valeria Straneo non sminuisce la
posizione degli altri, anzi, rende, se vogliamo, ancora più grandioso il senso
del progetto di Barberi che omologa l’immagine di una sportiva riconosciuta a
tutti coloro che praticano quello stesso sport. Ma non solo, quello che ci
viene comunicato è anche un messaggio di speranza: esso ci fa capire che
attraverso il sorridente volto di Valeria si riesce a rappresentare il
contenuto simbolico di una città. Valeria – ripensando agli esiti di alcune
riflessioni dell’esperto di comunicazione Elio Carmi – potrebbe diventare così
un’icona che identifica e rende riconoscibile un oggetto di interesse. La sua
effige potrebbe diventare l’esplicitazione della vitalità di un contesto. Nel
ritratto in questione non c’è infatti descrizione, ma evocazione. L’icona
Valeria è l’indicazione di un percorso di sviluppo e di miglioramento della
qualità della vita, è capace di alzare gli standard offrendo il meglio di ciò
che era in grado di produrre. Figura di riferimento che può consolidarsi come
un segno, la Straneo, nel lavoro di Enrico Barberi, riconduce a sé quei valori
socialmente significativi che possono finalmente compensare le carenze di un
più vasto gruppo sociale.
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