martedì 23 settembre 2014

gli argini di enrico barberi

Il progetto fotografico di Enrico Barberi nasce prima di tutto per definire l’identità di un luogo e della sua gente. Alessandria è una città che negli ultimi anni ha visto, è inutile nasconderlo, una continua decadenza. Molte volte, come alessandrini, ci si è sentiti spaesati, disorientati, smarriti, privati di un simbolo che fosse capace di connettere il territorio urbano alla vita quotidiana di chi ci abita. Se si riflette, alla base di tutto vi è stata una serie di distruzioni e demolizioni che hanno sfilacciato i rapporti tra le generazioni, che hanno impedito i naturali ricambi e la possibilità di perpetrare determinati riti.



Di fronte a una sistematica mancanza di punti di riferimento, anche gli Argini sono diventati lentamente un luogo di aggregazione. A Alessandria non esiste un parco pubblico nel quale i suoi abitanti possono fare dello sport. Gli Argini infatti, non sono un parco, fanno parte del paesaggio che caratterizza l’area chiusa tra il Cimitero e i fiumi Bormida e Tanaro. È un paesaggio fluviale cui i contadini che vivevano in quella zona hanno ricavato ampie porzioni di terreno coltivabile. La pista che abitualmente viene sfruttata per gli allenamenti dei podisti si snoda con geometrica regolarità in quel contesto. Barberi ha dapprima fermato il suo occhio su quello spazio, ha indagato l’area esprimendo qualcosa che ha a che fare con le sue sensazioni, definendo – come in certi fotografie di Minor White – il dialogo tra l’aspetto materiale e simbolico del paesaggio. Nei suoi scatti le stagioni si susseguono con la loro identificabilità più immediata, quella metereologica, lasciando il ruolo di protagonista al normale susseguirsi del tempo. Ma Barberi non si limita a realizzare foto di esterni, egli le riempie, le anima con delle presenze umane. Si tratta appunto di quei podisti che hanno eletto quel luogo come loro palestra, come spazio nel quale trovarsi e aggregarsi. Essi, nel momento in cui entrano nell’obiettivo, sono consapevoli di essere fotografati, ma c’è una informalità in queste immagini che suggerisce che queste rappresentazioni sono state ricavate con azioni fotografiche veloci, quasi come se Barberi volesse fare delle istantanee per documentare un ricordo. È un tipo di fotografia che però riguarda un gruppo sociale che normalmente non vediamo nella nostra vita nelle rappresentazioni visive più inflazionate. Infatti, la descrizione di un rituale del genere dilata il motivo della presentazione di esterni fino a includervi quello sociale. Ciò che si può osservare è comunque destinato a diventare un documento storico, permetterà di vedere ciò che accadeva in un determinato periodo a Alessandria. Farà capire che negli anni della crisi, almeno lo sport dilettantistico, permetteva un’identificazione e una “solidarietà di corpo” che a altri ambiti era preclusa. A proposito di questa attività, possiamo parlare tranquillamente di “cultura”, poiché quello che intende mostrarci Barberi è una delle tante forme di resilienza che una comunità attua per continuare a sopravvivere. Quindi ci troviamo di fronte alla documentazione di un processo attraverso il quale si consolida un modello che diventa identificativo e caratterizzante. Tutto ciò, allora, altro non è che l’adattarsi a una situazione negativa sfruttando la voglia di far emergere la propria individualità pur nella coscienza di fare parte di un gruppo.




Questo concetto emerge anche nella significativa serie di ritratti che Barberi realizza ai podisti che frequentano gli Argini. I soggetti sono posti frontalmente con alle spalle un muro dalla chiara intonacatura: la composizione, che non nasconde un accenno di (auto)ironia, acquista, attraverso un pirandelliano umorismo, solennità. Gli atleti guardano l’obiettivo indossando i loro “abiti da corsa”. Nella maggior parte dei casi si tratta di “vicini di casa”, di persone che non hanno velleità di protagonismo e di risultati. Barberi riesce a cogliere questo importante elemento psicologico costruendo un’entità che fonde l’individualità di ciascuno con l’appartenenza al gruppo. L’inserimento tra i ritratti di quello di un’atleta di fama mondiale come Valeria Straneo  non sminuisce la posizione degli altri, anzi, rende, se vogliamo, ancora più grandioso il senso del progetto di Barberi che omologa l’immagine di una sportiva riconosciuta a tutti coloro che praticano quello stesso sport. Ma non solo, quello che ci viene comunicato è anche un messaggio di speranza: esso ci fa capire che attraverso il sorridente volto di Valeria si riesce a rappresentare il contenuto simbolico di una città. Valeria – ripensando agli esiti di alcune riflessioni dell’esperto di comunicazione Elio Carmi – potrebbe diventare così un’icona che identifica e rende riconoscibile un oggetto di interesse. La sua effige potrebbe diventare l’esplicitazione della vitalità di un contesto. Nel ritratto in questione non c’è infatti descrizione, ma evocazione. L’icona Valeria è l’indicazione di un percorso di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita, è capace di alzare gli standard offrendo il meglio di ciò che era in grado di produrre. Figura di riferimento che può consolidarsi come un segno, la Straneo, nel lavoro di Enrico Barberi, riconduce a sé quei valori socialmente significativi che possono finalmente compensare le carenze di un più vasto gruppo sociale.


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