venerdì 6 settembre 2013

enrico colombotto rosso e il suo mondo fantastico

Chissà se è mai esistito il ragazzo di Edimburgo e ora, quanti anni avrebbe? Sarà ancora vivo o avrà già raggiunto l’eternità? Quando chiesi a Enrico Colombotto Rosso qualcosa relativamente a quel dipinto mi disse che aveva colto il movimento di uno studente e lo aveva riprodotto, come si fa in una scena di genere. Lo dipinse nel 1956, rappresentando su un fuligginoso sfondo dorato due inquietanti figure, due esseri malati che si stanno rincorrendo. La figura in primo piano sembra, colta da improvvisa angoscia, precipitare in un abisso, risucchiata dal bordo inferiore del quadro; il ragazzo di Edimburgo (che dà il titolo al quadro), proposto a figura intera, ha qualcosa di innaturale nella sua corsa, è scomposto, ma, inesorabilmente andrà pure lui verso l’abisso. È un lavoro magnetico, dotato di una misteriosa forza, bello nella sua essenzialità e nel suo compatto equilibrio formale.



Anche di fronte a un’opera come questa, si comprende che Enrico Colombotto Rosso è stato  uno dei più accattivanti, misteriosi, affascinanti artisti piemontesi attivi in Europa durante la seconda metà del scolo scorso. Latore di un’arte vicina al Surrealismo ma obiettivamente di difficile catalogazione, nel lavoro del pittore torinese si rileva comunque una traccia dell’estetica di culture antiche e di citazioni che hanno travalicato le barriere del tempo. In questo modo si può capire che ciò che ha prodotto per tutta la durata della sua vita non ha origine, e, teoricamente, potrebbe essere ascritto a qualunque momento della vicenda storico artistica di ogni dove.

La sua pittura è inquietante, è spesso esibizione di monstra che appaiono vomitati da chissà quale inferno. Le sue figure sono freaks malvagi, demoni anoressici che tentano una difficile metamorfosi, un impossibile cambiamento. Il loro stato non è definibile, sono esseri pallidi, creature notturne che popolano mondi malati, mondi nei quali è l’urlo ad imprimere l’unica possibilità di comunicazione. Sono esseri rantolanti che appaiono all’improvviso, vampiri che, simili ad immondi parassiti, ti svuotano di ogni energia vitale. Sono creature che vivono nelle periferie di città deturpate dall’orrore, nei video di Marylin Manson, nelle tavole di certa fumettistica, sono creature che strisciano negli incubi e si nascondono nell’ombra delle cantine.

Ma l’arte di Enrico Colombotto Rosso non può essere solo questa, sarebbe estremamente riduttivo limitarsi a queste considerazioni. Infatti, osservando meglio i soggetti delle sue tele, avendo il coraggio di penetrare nel quadro facendosi assorbire dai traslucidi riflessi delle tinte assolute adoperate dal pittore per determinare queste figure, ci si rende conto della densità estetica di questi lavori.

Oltre al valore pittorico in senso assoluto, ciò che noi percepiamo durante l’osservazione di queste opere si trova ai limiti di una realtà fenomenica ancora intrisa di romanticismo, un’aura di ineffabile perversione che ci porta all’interno di situazioni cariche di macabro, al cospetto di personaggi che si muovono sullo sfondo del tardo racconto gotico. Infatti, nella produzione pittorica di Colombotto Rosso sono evidenziabili alcune componenti letterarie che potrebbero appartenere al fantastico, a quel mondo grottesco intorno al quale sembra ruotare tutto il suo universo poetico. L’eroe colombottiano è un personaggio solitario nel quale si riflette la nostra solitudine, ciò che ci permette di esaminarci dentro. Le deformazioni delle immagini sono l’equivalente delle nostre deformazioni interiori di sensazioni e sentimenti, le ferite dell’animo tradotte in figure che qui sembrano avere una valenza terapeutica. Inoltre, come ebbe modo di evidenziare qualche tempo fa il critico Janus, per giustificare l’essenza fantastica del lavoro di Colombotto Rosso, in esso si ripetono alcune situazioni estreme: “...c’è uno sposalizio, ma è spesso uno sposalizio con la morte, c’è un connubio tra l’umano e l’animalesco, c’è la notte avvolgente come la ragnatela e c’è l’elemento macabro, luttuoso, che non conduce necessariamente alla morte ed invece apre uno spiraglio verso il mistero che circonda le vicende dell’umanità, la crudeltà della vita, la perversione inconscia o consapevole del bello.”

È chiaro a questo punto il manifestarsi dell’elemento catartico proprio della pittura di Enrico Colombotto Rosso. Le sue immagini sono quelle di esseri che hanno subito una trasformazione. All’inizio erano un’altra cosa, erano forse esseri peggiori, assai più raccapriccianti di quanto non siano adesso ed hanno subito il cambiamento che permette loro di diventare icone di un’arte di raffinata e perturbante bellezza, dal mondo al trascendente, dallo stato umano a quello di larva, da angelo a demone. Chiaramente è un mutamento con dei limiti di purificazione oggettivi, ma è pur sempre un mutamento. Ora, chiarita nella sua essenza, la difficile arte di Colombotto Rosso appare meno terrificante, anche se le sue figure sono drammaticamente assurde, spesso le posture sono ingobbite, storte, curve, dolenti, forme collocate in una sorta di aldilà dantesco. Eppure, esse risultano estremamente poetiche, in quanto si tratta di osservatori attoniti, che guardano l’orrore del nostro quotidiano e si esprimono come conseguenza di ciò per cui sono state elaborate.

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