lunedì 21 ottobre 2013

la leggerezza della scultura_VIII edizione

L’idea di esporre delle sculture in uno spazio aperto, a contatto con la natura, nasce dall’esigenza di dare a questa particolare tipologia di opera d’arte una collocazione “organica”: l’opera, più direttamente a contatto con gli elementi esterni, subisce un processo di deterioramento che, anziché impoverirla, la arricchisce. Ne consegue una trasformazione che conduce lo scultore a dover operare anche una riflessione sul tempo, o meglio, sulla capacità della scultura di resistere, oppure no, ai secoli, eternando quella  forza misteriosa che mette in relazione lo scultore alla materia adoperata.
Si può dire che l’artista abbia un ruolo privilegiato per compiere questa operazione, perché dotato di una maggior capacità percettiva, una sensibilità che però gli impone un’azione forte e rispettosa. Infatti, l’opera d’arte suscita più emozione se si percepisce proprio l’atteggiamento di rispetto dell’artista nei confronti dei materiali che costituiscono la sua opera e del consequenziale rapporto che egli ha nei confronti dell’ambiente nel quale la colloca. 
La natura è ai nostri occhi casuale, il suo disegno è imperscrutabile, dotato di una bellezza selvaggia che difficilmente possiamo afferrare nella sua totalità. L’uomo si pone razionalmente nei suoi confronti, sfruttando ciò che gli è stato messo a disposizione e lavorando in modo da ordinare ciò che ordine non ha. Dunque, dare un ordine, rispettare il rapporto tra l’ambiente e l’artefatto è ciò con cui gli artisti che partecipano alle varie edizioni della “Leggerezza della Scultura” devono fare i conti. La natura è un contenitore di difficile gestione e il rischio è quello di non riuscire a trovare un codice per compiere un dialogo di sicura efficacia. Tenendo però conto della qualità dei lavori esposti e della caratura degli artisti, l’attuale edizione, decisamente più internazionale rispetto alle altre, ha risolto brillantemente questo “problema”. Chi, come Tornquist, Kasimir, Roasio e Mirashi, utilizza un cromatismo amimetico; chi, come Contiero, Santini, Biasi e Ghinzani, adopera un segno in palese e voluta disarmonia con ciò che lo circonda; chi, come Medina-Campeny, Liberatore e Porta, integra il proprio lavoro con lo spazio naturale usandone gli elementi; chi, come Benetta, e Borthwick, crea un riferimento altro, evocando però lo spazio e il tempo di un’azione.

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