martedì 14 maggio 2013

simone ferrarini: memorie urbane

Poche tracce di pittura che nascondono potenti linee di energia pura. I volti dei suoi personaggi si compongono sui grandi fogli di carta copiativa stagliandosi su un bianco inquinato che li contraddistingue e li rende ancora più inquietanti. Ne risultano sensazioni tridimensionali, colpi di luce violenti che determinano framenti di percorsi urbani, volti intravisti tra la folla e che si stagliano nella nostra memoria come immagini a metà strada tra realtà e sogno.
Su questa sua particolare produzione, dei ritratti di uomini senza passato e futuro, abbiamo rivolto alcune domande a Simone Ferrarini, artista particolare e interessante, capace di esprimere un’arte essenziale e inquietante, al passo coi tempi in cui viviamo.
Che cosa ne pensi di condividere una rassegna con Piero Manai?
Sicuramente è un’esperienza importante. Penso che sia uno degli artisti più potenti vissuti negli ultimi anni. Entrambi condividiamo il fatto di essere emiliani, e poi il modo di trascinare il colore sul supporto in modo da creare delle figure che sembrano appartenere a mondi deliranti, malati. Ma le analogie si fermano qui.
Pensi che la tua arte sia legata all’Espressionismo?
L’Espressionismo è un fenomeno che è stato codificato all’inizio del secolo scorso. Penso che questa etichetta possa essere corretta per numerosi artisti. Per quel che mi riguarda non penso di poter essere messo sullo stesso piano di artisti sublimi come Munch, Nolde o Holder, artisti che conosco ma che hanno lavorato in un’epoca lontanissima dalla mia. Se per “espressionismo” s’intende un’arte che non si basa sulle convenzioni tradizionali delle proporzioni e del reale, ma insiste sulle distorsioni di forma e colore, ebbene, posso pensare di essere espressionista.
Quindi un po’ di espressionismo... Però, nel tuo lavoro c’è una componente particolare…
Sicuramente. Io non baso la mia produzione su particolari teorie estetiche, io osservo il mondo reale e lo interpreto. Ecco che allora propongo il disgusto per l’esistente, simbolizzo la protesta del più debole, dell’emarginato. Quello che viene esposto in galleria è soltanto una parte del mio lavoro, quasi la punta di un iceberg che galleggia fino a sciogliersi o a scontrarsi con un transatlantico.
Perché per il tuo lavoro preferisci un supporto come la carta?
La carta è un supporto che può adattarsi a molte circostanze. È facile da trasportare, permette di far scorrere le proprie idee come se si trattasse di un taccuino. A me piace lavorare sulle grandi dimensioni e i cartelloni che adopero soddisfano totalmente le mie esigenze.
Quale futuro per Simone Ferrarini?
Mi fai una strana domanda. È come se già sapessi che ciò che mi interessa non vuole essere relegato in uno spazio chiuso. L’arte deve uscire, deve essere comunicazione, deve muoversi lungo le vie delle città. Non devi pensare solamente alla Street art o al graffitismo, immagina dei progetti che coinvolgono le persone, dei progetti capaci di ridefinire il senso estetico dei centri urbani, che significhino “partecipazione”. Concludo allora con una domanda: che cosa sarebbe stato il Rinascimento se l’arte fosse stata invisibile?

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